mercoledì 11 settembre 2013

Sinassario dei Santi Italici ed Italo greci per giorno 11 settembre



Nacque a Reggio da Pietro e Leontìa ed essendo giunto ai diciotto anni, si partì dalla casa di suo padre e con un parente andò in Sicilia; una visione divina confortò i genitori, disperati per la perdita del figlio volato come un pulcino dal nido, e preoccupati perché egli era invalido: da bambino gli si erano rotte le dita in un incidente; un medico le fasciò talmente strette che ne perse l’uso, e così fu soprannominato il Monco.
Elia con il parente si stabilì presso il tempio di Sant’Aussenzio, che sta sotto la strada del colle San Nikon che sovrasta Taormina; ma dopo qualche tempo, il compagno tornò indietro, come cane al proprio vomito; fu ucciso dagli Ismaeliti e così morì di doppia morte. Elia, rattristato, lasciò Taormina e si recò a Roma Antica. Una volta incontrò alcuni che, vedendolo forestiero, stabilirono d’ucciderlo; ma egli stese le mani al cielo e, mentre quegli assassini restavano paralizzati, Elia andò via glorificando Dio.
Più fortunato fu invece l’incontro con il ghèron Ignazio che lo addestrò alla vita ascetica. Tornato a Reggio, Elia prestò obbedienza al sacerdote monaco Arsenio, che gli tagliò i capelli e lo vestì dell’abito monastico.
I due vivevano vicino alla città, in un Metochio detto Mindino, proprietà del Monastero di Santa Lucia: Elia, digiunando tutta la settimana eccetto sabato e domenica, con uno spago si legava la zappa al moncherino, e così lavorava. In seguito Arsenio ed Elia abitarono presso il tempio di Sant’Eustrazio, nei pressi di Armo. I due aumentarono i digiuni e le Veglie: durante la quaresima Elia faceva ogni giorno due o tremila metanie.
Divinamente avvisati di una incursione degli Ismaeliti, Arsenio ed Elia navigarono sino a Patrasso, e chiesero al vescovo di quella città la benedizione di stabilirsi in una torre dirimpetto alla città, buona per abitazione di monaci, ma infestata dagli spiriti. Di essi non aveva alcun timore Arsenio, il quale era solito dire: “Mi sono fatto monaco quindicenne, e non ho mai visto diavoli; ho visto solo i miei cattivi pensieri”. In quella torre i due dimorarono otto anni; tornati poi in Calabria, di nuovo abitarono presso il tempio di Sant’Eustrazio.


Morto Elia il Nuovo, nel 903, e morto anche Arsenio, Elia trascorse qualche tempo nel Monastero delle Saline, ma poi si stabilì in alcune grotte presso Melicuccà, dove cominciò ad accettare discepoli. Dopo molti prodigi, Elia consegnò l’anima nelle mani di Dio: subito il suo volto diventò splendente, e per tutta la notte mandava raggi. Elia era alto, gli occhi ridenti, i denti bianchi, la barba grande e divisa in due, la faccia rossa e allegra, con tutti sempre ridente con divina grazia. Nella monastica palestra si esercitò per 77 anni; in terra visse 96 anni. 

Fonte: Piccolo sinassario curato da Padre Daniele Castrizio




11 Settembre - Il nostro venerando padre Elia lo Speleota

Elia nacque a Reggio da Pietro e Leontìa ed essendo giunto ai diciotto anni, si partì dalla casa di suo padre e con un parente andò in Sicilia: sembra che nel reggino non vi fossero monasteri di suo gradimento. Una visione divina confortò i genitori, non tanto disperati per la perdita del figlio volato come un pulcino dal nido, quanto preoccupati perché egli era invalido: da bambino gli si erano rotte le dita in un incidente; un medico le fasciò talmente strette che ne perse l’uso, e così fu soprannominato ‘il Monco’. Elia con il parente si stabilì presso il tempio di Sant’Aussenzio, che sta sotto la strada del colle San Nikon che sovrasta Taormina; ma dopo qualche tempo, il compagno tornò indietro, come cane al proprio vomito; fu ucciso dagli Ismaeliti e così morì di doppia morte. Elia, rattristato per la perdita, scese al mare e trovata una nave, con prospero vento giunse a Roma Antica. Una volta incontrò alcuni che, vedendolo forestiero, stabilirono d’ucciderlo; ma egli stese le mani al cielo e, mentre quegli assassini restavano paralizzati, Elia andò via glorificando Dio. Più fortunato fu invece l’incontro con il ghèron Ignazio che lo addestrò alla vita ascetica. Tornato a Reggio, Elia prestò obbedienza al sacerdote monaco Arsenio, che gli tagliò i capelli e lo vestì dell’abito monastico. I due vivevano vicino alla città, in un Metochio detto Mindino: Elia, digiunando tutta la settimana – eccetto sabato e domenica – si prestava a ogni lavoro; con uno spago si legava la zappa al moncherino, e così lavorava. Un sacerdote della cattedrale di Reggio, corrompendo lo stratega, il governatore civile e militare, Nicola Voterita [?] s’impossessò di quel metochio, che era proprietà del Monastero di Santa Lucia. Al ricorso dei due monaci, lo stratega rispose facendo bastonare il gheron Arsenio, ma quella stessa notte poco mancò che gli crepasse il ventre. Subito va ai nostri padri, portando loro cera e un otre d’olio, dicendo di volere restituire la proprietà ingiustamente tolta. Gli rispondono: “Provvedi alla tua casa perché morirai e non vivrai”. Tornato infatti al Pretorio [?], dopo tre giorni pagò con una immatura morte la giusta pena. Arsenio ed Elia lasciarono Reggio e abitarono presso il tempio di Sant’Eustrazio, vicino Armo. I due aumentarono i digiuni, le Veglie e la lettura dei salmi: durante la quaresima Elia faceva ogni giorno due o tremila metanie, profonde genuflessioni. Quando Arsenio celebrava i Divini Misteri e il popolo si avvicinava per la comunione, la faccia d’alcuni vedeva luminosa, d’altri vedeva nera come una pignatta. Perciò esortava: “Se qualcuno è ottenebrato per il ricordo del male ricevuto; se qualcuno è tenuto da rapina o avarizia, se qualcuno è infangato nelle impurità, non osi accostarsi a questo fuoco divino”. Ci fu un tale di Armo che comprava e vendeva schiavi; in breve morì. Quando Arsenio iniziò a celebrare la Liturgia, un angelo - mettendogli la mano sulla bocca - gli impediva di fare il nome di quel disgraziato. Nello stesso paese era morto in quei giorni un mendicante; apparve ad Arsenio e gli disse: “Eterna memoria, santo padre! Per le tue preghiere sono stato liberato dalle pene”. Divinamente avvisati d’una incursione degli Ismaeliti, Arsenio ed Elia navigarono sino a Patrasso, e chiesero al vescovo di quella città la benedizione di stabilirsi in una torre dirimpetto alla città, buona per abitazione di monaci, ma infestata dagli spiriti. Di essi non aveva alcun timore Arsenio, il quale era solito dire: “Mi sono fatto monaco quindicenne, e non ho mai visto diavoli; ho visto solo i miei cattivi pensieri”. In quella torre i due dimorarono otto anni. Una volta un nobile di Patrasso invitò i due a pranzo e sua moglie importunava Elia, colpita dalla sua bellezza; le fu perciò mandato uno spirito che la faceva tutta tremare. Compreso che quel guaio le era capitato perché aveva tentato di turbare Elia, chiamava: “Santo padre, il mio spirito viene meno!” Uscì fuor di sé il santo; ma per ubbidienza ad Arsenio, dice alla donna: “Se d’ora innanzi vivrai castamente, Dio laverà il tuo peccato, e sarai da questo flagello liberata”. E così avvenne. Una volta il vescovo accompagnò Arsenio ai bagni pubblici, e quando quello si tuffò nell'acqua, quel luogo si riempì di profumo divino. Si sparse la fama del miracolo per ogni dove: perciò i due decisero di andar via. Ma il vescovo convocò il clero e disse: “I santi padri vanno via!” Quelli risposero: “Non possiamo trovare altri santi! Impedisci loro di partire”. Essendo dunque giunta la festa della Teofania (fece molta neve, quell’anno) e celebrata la Divina Liturgia, il vescovo con tutto il popolo si recò nel kellìon dove vivevano i padri, trascinando lo skevofilax, il tesoriere della cattedrale, con le mani legate e fingendo di batterlo. Il vescovo disse: “E voi siete monaci? E voi temete Dio? avendo fatto contro di noi un tale sacrilegio?!” Il divino Arsenio rispose: “Perdonami, signore, ma che tentazione è questa?” Allora lo skevofilax confessò: “Il monaco Elia e io abbiamo rubato i vasi sacri, li abbiamo venduti, e ci siamo divisi il ricavato”. Rispose Arsenio: “Credimi, signore, ho preso con me Elia da ragazzo e non ha mai toccato un soldo”. E pianse così tanto che alla fine il vescovo li lasciò partire, chiedendo perdono per il tranello. Così i due tornarono in Calabria e di nuovo abitarono presso il tempio di Sant’Eustrazio. In quei giorni si trovava dalle parti di Reggio Elia il Nuovo col discepolo Daniele, in una grotta vicino al tempio di San Donato: faceva molti prodigi e prediceva che Reggio sarebbe stata invasa dai Saraceni. Arsenio gli mandò a dire: “Dio ha in odio le mie opere, e perciò non riesco a fare previsioni”. Elia il Nuovo gli rispose: “E che, padre? vuoi fare l’indovino? Cosa cerchi più grande della grazia che è in te? Che vedi durante la Divina Liturgia?” Arsenio infatti celebrava stando in mezzo a un fuoco spirituale, e vedeva la Grazia del Santo Spirito come fuoco che copriva l'altare, perciò non smetteva di piangere dall’inizio alla fine della Liturgia. Quando Elia il Nuovo fu convocato dall’imperatore [Leone VI, nel 902], disse a tutti: “Figli miei, non vi lascerò orfani; come siete stati ubbidienti a me, così sottomettetevi ad Elia Speleota”. E al discepolo Daniele disse: “Dopo la mia morte, chiamalo a guidare il mio gregge”. Sentendosi morire, Arsenio mandò a chiamare Elia, che si trovava allora nel kastro di Pietracappa. Velocemente quegli arriva e tra le sue braccia il ghèron rese la luminosa anima nelle mani di Dio; fu deposto nel tempio di Sant’Eustrazio. Ma dopo molti anni gli Agareni, pensando che nel sepolcro vi fosse nascosto un tesoro, lo aprirono e trovarono il corpo incorrotto: portarono frasche e canne per bruciarlo, ma senza effetto finché se ne andarono confusi. Dopo essersi partiti gli Agareni, Elia uscì dal kastro, e depose il corpo dentro il tempio. [Morto Elia il Nuovo, 903] Daniele mandò a chiamare Elia. Partito a piedi da Armo, questi arriva al Monastero delle Saline, sopra Palmi, sfinito dalla sete e dal caldo: era estate. Per metterlo alla prova, Daniele lasciò Elia davanti alla porta sino a tarda sera, poi lo fece entrare ma trattenendolo in conversazione sino a notte fonda. Durante l’Ufficiatura notturna Daniele fu sorpreso dal sonno, e fece per uscire dalla chiesa. Allora Elia lo afferra per il mantello, e sorridendo gli dice: “Fratello, resta con me a combattere sino al mattino!” Dopo qualche tempo trascorso nel Monastero delle Saline, a Elia venne il desiderio di abitare solitario. Un certo monaco Cosma lo accolse allora presso Melicuccà, nella spelonca in cui viveva (che poi diventò la cantina del Monastero delle Grotte). Elia esultò perché quel luogo era deserto e inaccessibile, ma il monaco Cosma vide in sogno che lì sarebbe nato un cenobio: prese perciò il suo discepolo Vitale e si stabilì altrove. Elia infatti decise d’accettare discepoli. Osservando i pipistrelli che entravano e uscivano da un fenditura, i discepoli capirono che il monte era cavo; un certo Cosma, pratico ed esperto, studiò accuratamente il colle e, fatto scavare, aprì l’ingresso alle spelonche. Lo stesso Cosma si fece monaco, dopo aver fatto eseguire altri lavori (come la salina e il mulino). Elia adattò una spelonca a tempio, dedicato ai santi Pietro e Paolo; si infuriò perciò il diavolo: uno dei discepoli del santo gli sentì dire che non poteva sopportare che lì dimorasse il ‘monco’ Elia. Il beato tutta la notte scriveva e pregava; finita la Celebrazione notturna si stendeva per terra e diceva al sonno: “Vieni, servo cattivo!” Mentre Elia un giorno era in quella spelonca e scriveva, secondo la sua abitudine, alcuni di Seminara venivano a lui, quando si fa loro incontro un tale che somigliava a un etiope da loro conosciuto. Gli dicono: “Da dove vieni, signor Foti, e dove vai?” Quello rispose: “E’ venuto Elia il monco, e ci ha mandati via dalla nostra casa; ora andiamo a Mesoviano [Mesiano di Filandari, Vibo], nella grotta detta Santa Cristina”. E si sollevò in aria, andando via zoppicando e maledicendo. Salmeggiando a Vespro e alla Celebrazione notturna, Elia teneva i piedi immobili come se fossero radicati in terra, senza appoggiarsi al bastone o al cancello, senza nemmeno grattarsi per pidocchi o pulci o zanzare. Nella Divina Liturgia andava in estasi e comunicava alla celeste perla con ogni timore, come Isaia per mano del serafino. Vicino alla pietra su cui il santo scriveva, c’era una botte di vino per la Liturgia; una volta scese tanta pioggia che la botte si riempì d’acqua. Il monaco Luca, il calvo, dice al santo: “Come celebreremo la Liturgia?” Il santo sorride, fa il segno della croce e dice: “Gustate e vedrete che Cristo è Signore”. Subito l'acqua s’era fatta vino buono. Elia rimproverò un’orsa che rubava il miele, e la belva andò via. Il santo diceva: “Se osservassimo i precetti di Dio, tutte le cose sarebbero a noi soggette, come a Adamo prima di trasgredire al divino precetto. Ora le creature si sono ribellate contro di noi: non sono loro a temerci ma noi ad avere paura di loro”. Il suddetto Luca raccontò: “Una volta Elia mi mandò a Sant’Agata [oggi: Oppido] insieme al monaco Vitale. Per la strada un’orsa mi ferì, lasciandomi mezzo morto. Vitale mi portò agonizzante al monastero. Il padre mi fece il segno della croce, pregò, e in pochi giorni fui sano”. Una volta Saba uscì senza permesso dal monastero. S’impossessò di lui il cattivo spirito, ma il santo in pochi giorni lo guarì. Gregorio Vurtuanite, poiché non gli piaceva il regime del Monastero delle Grotte, se ne voleva andare in un altro. Vede allora in sogno un angelo che lo prende a schiaffi, dicendo: “Sottomettiti al padre, e unisciti ai fratelli”. Mentre tagliava un albero, il monaco Luca cadde nel burrone vicino alla sorgente. Elia pregava con le mani tese al cielo, mentre i monaci calavano per prenderlo, ma Luca andò loro incontro, illeso e tutto allegro. Quando il patrizio Vitalone si ribellò all’imperatore [?], Elia disse: “Entro l’anno lo sciagurato morirà”. E infatti poco dopo Vitalone fu scannato dai suoi stessi domestici. Il santo conobbe il giorno e l’ora dell’omicidio, benché il luogo fosse lontano dal monastero 42 chilometri circa, e disse: “In questo momento è stato ucciso il ribelle”. L’igumeno Lorenzo raccontò: “Una volta Elia mi chiama e mi dice: Lorenzo, se tu vedessi entrare qui uomini e donne, resteresti nel monastero? Io risposi: Non sia mai. E lui: Vedrai entrare tanta gente come per la festa di sant’Elia il Nuovo. Meravigliato, gli dico: Per quale motivo? Ed egli mi dice: L’acqua che gocciola da quella pietra della spelonca, ha il potere di guarire; ma non voglio che ora faccia miracoli; pregate anche voi con me, perché non faccia miracoli per ora. Tu sarai il mio successore nel governo dei fratelli”. Un giovane era oppresso dal cattivo spirito: Elia, levate le mani al cielo, lo mandò via guarito. Vicino Mesoviano c’è un luogo detto Asfaladeo [?]; vi abitava Epifanio, un sacerdote che scriveva incantesimi. Temendo d’essere deposto dal grado sacerdotale, di nascosto lo confessa al beato. Elia gli toccò il capo e subito uno spirito gli uscì dalla bocca, come un corvo. Una volta gli fu portato un fanciullo che aveva la bocca e gli occhi deformi: di continuo sobbalzava. Elia lo segnò col segno della croce e subito il fanciullo tornò allo stato naturale. Il monaco Luca raccontò che l’illustrios Gaudioso, essendo malato, aveva deciso di andare a farsi visitare da medici di Palermo. Mentre era in viaggio per mare, dalle parti di Milazzo si addormentò. Si svegliò poi di soprassalto, gridando: “Fatemi scendere a terra! voglio scendere! E’ venuto il gran medico Elia, mi ha aperto la bocca e mi ha cavato dal ventre come un maiale, ed ecco sono guarito”. Una volta venne al monastero Pietro, un amico dei monaci, e lasciò il cavallo nel cimitero. Quella stessa notte gli apparve un giovane, tutto luminoso, che minacciava: “Hai fatto la nostra casa pascolo del tuo cavallo!” Alzatosi, vide il cavallo a terra mezzo morto, e così gonfio che stava per scoppiare. Udite queste cose, il santo disse: “Apri la bocca del cavallo e infondi l’acqua che gocciola nella grotta”. Fatto questo, il cavallo si alzò. Il monaco Giovanni di Gerusalemme raccontò: “Ero stato mandato a Reggio, e tra molti impegni qui e lì tutto il giorno, pensavo: E’ cosi che mi salverò? Essendomi addormentato, vedo il santo con la testa tagliata; il sangue scorreva per tre parti, e la testa mi parlò: Non vedi che per voi ho buttato sangue? Obbedite ai vostri igumeni e siate loro soggetti, perché essi vegliano per le anime vostre”. A un tale tormentato dal demonio carnale, il santo disse: “Ho combattuto per trenta anni le tentazioni; i dardi del nemico si smorzano con il digiuno”. Il santo viveva coperto solo d’uno straccio e di un mantello di pelle. Gli chiesero: “Non si agghiaccia il tuo corpo d’inverno né si brucia d’estate?” Rispose: “Figli miei, da anni il mio corpo non sente più né freddo né caldo”. Il santo aveva adottato nel battesimo un figlio, chiamato Elia, che si ammalò di cancro. Il santo disse che non sarebbe guarito prima di farsi monaco; guarì anche il fratello di questi, il sacerdote Giovanni. Quando scoppiò l’incendio di Càveri [?], il sacerdote Lucio - arrampicato sul tetto della casa - invocava il santo. Allora il fuoco si divise in due parti, e continuò a divorare monti e boschi senza danneggiare l’abitazione. Il monaco Giovanni, figlio di Pardeleo, raccontò: “Mio padre mi portò a spalle dal santo, perché avevo le membra inaridite, e subito mi sentii alleggerito dai dolori”. Il santo guarì anche la madre di questi, oppressa da febbre terzana. Elia tuttavia diceva che il vero miracolo è tenersi lontano dai piaceri che fanno guerra all’anima. Diceva di troncare la propria volontà, perché chi mette insieme rinuncia di sé e volontà, costui è un adultero. Il parlare del padre era potente ed efficace. Comandava ai discepoli di tagliare alberi grandi, o di rotolare macigni dalla cima del monte che sta sopra il monastero, ed egli intanto supplicava Dio: si vedevano allora alberi e macigni scivolare come se fossero intelligenti. Sorridendo come era solito, Elia diceva: “Perché vi meravigliate? Se avrete fede come un granello di senape, niente sarà a voi impossibile”. Quando venivano gli Agareni, Elia si nascondeva nei monti intorno al monastero; quando poi quelli partivano, usciva solo dopo essere stato cercato a lungo. In segreto disse che per quaranta giorni aveva preso solo un poco di pane e niente acqua. Anche nelle altre incursioni, si ritirava nel kastro con i monaci. Una volta i Saraceni assaltarono il Monastero; all’improvviso si aprì davanti a loro una voragine oscura e senza fondo: impauriti, tornarono indietro. Mentre il santo era in preghiera, una volta fu visto trasfigurato e divinamente luminoso; spiegò allora con molta circospezione: “Figli miei, desideravo sapere come l’anima, uscendo dal corpo, superi le Potestà e i Principati. Mentre così meditavo, vedo me stesso salire, e mi trovai al di sopra d’ogni Potenza, senza impedimento e senza danno. Questa tremenda visione ho continuamente, quando pratico l’isichìa”. Una volta una monaca entrò nella grotta. Il santo alza gli occhi e dice: “Chi sei? e che vuoi tu qui?” Quella se ne andò umiliata e confusa. Una volta il santo trovò alcuni rimasugli di carne, che un monaco aveva mangiato di nascosto: li buttò ai cani, e quelli non li toccarono. Disse: “Vedi come non la toccano i cani? E tu, fratello!…” Il padre da molti anni teneva la bara nella grotta in cui abitava e non smetteva di bagnarla con calde lacrime, sperando nella risurrezione. Egli aveva il dono delle lacrime, e non smetteva mai di piangere. Nelle feste vegliava per tutta la notte, e la sua faccia era illuminata dalla Grazia divina; per tutto il giorno mandava raggi. Una notte un macigno rotolò poco a poco dalla cima e si posò davanti alla porta del santo: chiaramente era segno che egli stava per separarsi da noi. Egli raccontò d’aver visto due persone, vestite di bianco, che lo accompagnarono dall’imperatore, lui che mai aveva visto un re. Arrivati davanti a una colonna, la cui altezza arrivava al cielo, facilmente e senza alcuna fatica vi salirono. Egli allora vede i gradini, sale, e si presenta al re. La colonna alta sin al cielo è la scala di Giacobbe; i gradini sono le virtù. Era già vecchio, e diceva: “Figli miei, non profanate la santità del corpo con crapule e ubriachezza: chi vive mollemente, è come se fosse morto. Rendete perfetta la vostra professione monastica, con una totale ubbidienza. Siate diligenti e ferventi di spirito nei servizi del cenobio, senza pigrizia o mormorazione. Più delle stelle risplenderà l’anima di chi avrà fatto morire le passioni con digiuni e veglie”. Una volta il monaco Giovanni vide in sogno molti uomini vestiti di bianco, che cavalcavano cavalli bianchi, e in mezzo di loro una donna vestita di porpora, bellissima. Con cembali, chitarre e altri strumenti suonavano e battevano le mani, come a un matrimonio; aprirono la porta ed entrarono. Cercava d’impedire loro d’entrare, ma essi lo spintonarono: “Non opporti; ecco le nozze del Re!” Svegliatosi, il monaco dice al santo: “Padre, queste cose ho visto in sogno”. Gli risponde il padre: “Tra pochi giorni, quelli verranno a prendermi”. Nell’annua ricorrenza di sant’Elia il Nuovo [17 agosto], anche il nostro Elia salì [da Melicuccà], per abbracciare quelle preziose reliquie e licenziarsi spiritualmente dall’amico, a lui uguale di nome e di vita. Sentendo un poco di mal di stomaco, tornò al proprio monastero, sopportando con pazienza la malattia, senza alcun lamento. Dopo venticinque giorni consegnò l’anima nelle mani di Dio. Subito il suo volto diventò splendente, e per tutta la notte mandava raggi. Elia era alto, gli occhi ridenti, i denti bianchi, la barba grande e divisa in due, la faccia rossa e allegra, con tutti sempre ridente con divina grazia. Fu la sua morte l’11 settembre, essendo presente il vescovo Vitale con molti sacerdoti e laici. Dopo aver vegliato tutta la notte, deposero il venerabile corpo nel sepolcro nuovo, che egli stesso aveva scavato nella spelonca. Nella monastica palestra si esercitò per 77 anni; in terra visse 96 anni. Dopo non molto tempo, Elia - risplendente di gloria divina - apparve a un discepolo. Questi chiese: “Dove sei, padre?” Rispose e disse: “Figlio, il Re mi ha fatto entrare nel coro degli asceti”. Il monaco Antonio raccontò: “Quando il santo morì, l’ho visto seduto sulla porta; teneva in mano una croce d’argento e tutti andavano a baciarla; guardai di nuovo indietro, ed ecco non era: ma sento una melodia soave e stupenda fuori la porta. Tento di uscire per seguire il canto, ma la porta era chiusa. Allora chiedo chi ha chiuso la porta, e mi rispondono: La porta del monastero l’ha chiusa il padre. Mi sforzavo di uscire, e non potendo, mi svegliai”. Molti miracoli fece Dio per mezzo delle reliquie del nostro padre Elia. Il sacerdote Pietro si prese il bastone d’Elia e lo portò al suo paese. Avendolo lavato con acqua, asperse con questa Niceta - il figlio d’Erotico - ed egli fu liberato dalla paralisi. Con la stessa acqua guarì anche sua suocera. Il monaco Giacomo aveva una nipote pazza; non potendo farla entrare per baciare la tomba del santo, la fece venire travestita da uomo. Gli appare il santo che, sorridendo, dice: “Come un ladro hai rubato la guarigione! Apri la bocca!” Quella sputò un serpentello, e fu subito guarita. La moglie di Teodoro di Melicuccà, figlioccio del santo, ch’era indemoniata, baciò la tomba e fu libera. Giorgio, del paese dei Gaiani [?], aveva un figlio indemoniato. L’adagiò accanto alla tomba del miracoloso padre, e subito fu liberato. Un sacerdote della regione dei Mesi [sopra Bagnara Calabra], fu dato al demonio: mutava di faccia, e schiumava dalla bocca. Temendo d’essere deposto, si rifugia dal santo: lava con lacrime la tomba, la bacia, passa una notte intera in preghiera, e la mattina esce liberato dal demonio. Anche suo fratello fu liberato dal demonio. Una bambina di Bruzzano, languida di mani e di piedi, fu portata dalla madre; il monaco Elia la depose accanto alla tomba del santo. Poco dopo la fanciulla sedeva a giocare. Il monaco Giorgio – che un tempo abitava nelle grotte di Maratona [?], aveva mal di denti; supplicò il monaco Luca che gli toccasse i denti con il coltellino del santo. Essendosi coricato, vede il padre, risplendente di luce, che l’incensava e gli levava il dolore dei denti. Cristoforo di Sicrò, era una volta a comprare grano, e per via fu percosso dal demonio meridiano: strabuzzava gli occhi, tremava tutto, restò quasi venti giorni senza mangiare né dormire. Fu portato con una barella, deposto presso la tomba del santo, e unto con olio della lampada. Essendosi assopito, vede il santo, risplendente di luce, che gli apre lo stomaco e ne tira fuori come un uovo di oca. Al mattino andò via guarito, lasciando la barella come prova della guarigione. Morì il figlio del sacerdote Pietro, un bel ragazzo. Suo padre viene alla tomba del santo, la bagna con calde lacrime, la bacia, grida; dopo pianti e sospiri, si addormenta ed ecco, “mi parve” – raccontò – “che scendevo assieme a mio figlio e dietro di me come una tempesta. Vedo il santo, risplendente di gloria, e gli dico: Che succede? E lui: Non temere, è una burrasca che passa; dille tre volte: Dice il peccatore Elia, non ho paura di te. Così ho fatto, e quel tremendo suono che mi seguiva, subito andò via”. In quel momento il ragazzo aprì gli occhi, e chiese da bere. Due monache, una fu unta con l’olio, l'altra toccò di nascosto la tomba, e subito guarirono. Giovanni, figlio di Fagro, paralitico, fu unto con l’olio della lampada e guarì. Una ragazza di Bruzzano, figlia di Cordì, era cieca: la madre e lo zio la portano al monastero. Le apparve il santo che pulì gli occhi con una spugna, e ricuperò la vista. Stefano, un servo di Nicola di Placas [?] nel territorio di Sivilliano [?], impazzì. Stava nudo su una pietra accanto al lago, come un rospo. Avendolo preso e legato, lo unsero con l’olio della lampada, “e io” – raccontò poi – “vedo una luce splendente più dello splendore del sole e un monaco, alto, con i capelli bianchi, una grande barba, risplendente di luce incomparabile. Mi toccò nel fianco con il piede e mi dice: Non temere! Diventa servo di Cristo che ti ha guarito”. Stefano non si allontanò più dal monastero. Glauco, di Muro, idropico, dopo aver passato due giorni accanto alle reliquie, vide in sogno il santo che gli estraeva dalla bocca un serpente attorcigliato. La mattina si alzò guarito. Il servo di Mailo, di Sicrò, era indemoniato e schiumava dalla bocca. Portato al monastero, mentre l’igumeno Lorenzo celebrava la Liturgia, nove volte lo spirito travagliò il ragazzo. I monaci portarono allora la spugna, con la quale  alla morte avevano lavato il corpo del santo, la immersero nell’acqua e ne diedero a bere a quello, così che subito il cattivo spirito andò via. Leontìa, figlia di Licastro, cugino del santo, che abitava dalle parti di Placas, paralitica, sognò di litigare con il santo: “Tu liberi da ogni infermità estranei e forestieri. E io, che sono tua parente?” Sognò ancora che il santo le dava un bicchiere di vino: si svegliò ed era guarita. In compagnia d’Eleuteria, una nobildonna, andò allora al monastero, e non potendo entrare nella spelonca, si coricò fuori. Mentre dormiva gli apparve una donna vestita di bianco, che la rimproverò. Il monaco Saba si prese gli zoccoli del santo e li portava sempre con sé. Una volta, mandato a Pilio [?] per fare pece, pose uno zoccolo sul petto di un pastore che aveva un male. Lo spirito si mise allora a strillare: “Toglietemi di sopra lo zoccolo del monco Elia, perché mi rompe le ossa!” E il pastore guarì. Uno zoccolo il monaco Saba se lo portò nel Monastero dei Siracusani [?]; quello destro, il monaco Ilarione l’ha portato al Monastero di Malvito. Il monaco Konon, mentre tornava al proprio monastero, fu percosso dal cattivo spirito che gli fece la faccia nera. Lo piangevano morto, ma per fortuna il monaco Vitale si ricordò dello zoccolo del santo: lavano lo zoccolo, gli fanno bere l’acqua: l’infermo subito ritorna in sé. Subito si addormenta, perché era sera, e gli appare il santo, splendente, che gli dice: “Konon, credi, e sarai salvo”. Preso un coltello, incide la mano dell'infermo, e avendo estratto un verme, gli dice: “Ecco il cattivo spirito che ti flagella”. Si svegliò il monaco, e si alzò guarito. Queste cose le ha raccontate proprio lui. Il sacerdote Giovanni viveva con sua moglie nel kastro di Trigoni [presso Sinopoli]. Sua figlia, sposata, impazzì: tentò di uccidere i propri figli. Il padre le fece bere l’acqua con cui era stato lavato lo zoccolo, e guarì. Dopo aver bevuto quell’acqua guarirono anche una donna muta dalla nascita e una sofferente d’insonnia. Per questo, pensarono di tenersi lo zoccolo, ma poi il sacerdote Giovanni l’ha restituito.


testo del Padre Antonio Scordino di venerata memoria 


http://www.ortodossia.it/w/index.php?option=com_content&view=article&id=3717:11-09-memoria-di-sant-elia-lo-speleota&catid=191:settembre&lang=it


 Sua Santità Bartolomeo I, il 23 marzo 2001 ha inaugurato a Melicuccà (RC) un Metochio presso la grotta in cui si santificò Elia lo Speleota. La Vita che qui pubblichiamo è fedele sintesi dell’edizione che V. SALETTA (La Vita di sant’Elia, Roma 1972), diede della traduzione fatta nel 1689 da G. CARNUCCIO (Cod. Crypt. B.b. XVII, ff. 15-35). Questi aveva trascritto l’unico manoscritto conosciuto (e difettoso), il Mess. Gr. 30, ff 29-49. Dal Mess. il gesuita Jean Stiltingh trasse il testo edito in A

Archimandrita Antonio Scordino


http://www.ortodossia.it/w/media/com_form2content/documents/c17/a5335/f255/Vita%20di%20sant%E2%80%99Elia%20lo%20Speleota.pdf



Gli altri Santi Italici ed Italo greci giorno 11 settembre




Santi PROTO E GIACINTO , fratelli secondo la carne , martiri  Roma (vers 257).

 I santi Proto e Giacinto furono sepolti nel cimitero di Bassilla (poi di San Ermete). Nel 1845 le loro ossa furono trovate in un cubicolo che papa Damaso aveva fatto ripulire dalla terra franata e in cui aveva fatto porre una lapide che ricordava come Proto e Giacinto fossero fratelli martiri Essi sarebbero stati due fratelli cristiani eunuchi, schiavi di Eugenia, figlia del nobile romano Filippo, prefetto di Alessandria d'Egitto. Convertita al cristianesimo, Eugenia affida  i due giovani all’amica nobile Bassilla, convertitasi a sua volta grazie ai loro insegnamenti. Denunciati dal fidanzato di quest'ultima, vengono  tutti martirizzati.

Santi Genuino ed Ippolito martiri a Porto Romano nel Lazio

Santo Emiliano Vescovo di Vercelli e successore di S. Eusebio in Piemonte(tra il 506 e  il 520)

Il nostro santo era dell’importante cenobio eusebiano che, come scrisse S. Ambrogio, radunava intorno al vescovo sia religiosi contemplativi che aspiranti al sacerdozio. Secondo un’ulteriore  tradizione, Emiliano fu eremita per quarant’anni nei pressi di Sostegno, dove poi sorse un monastero di chierici regolari. Ancora oggi vi è un antichissimo santuario a lui dedicato.
Fu eletto vescovo tra il 493 e il 497, mantenendo una certa attitudine alla contemplazione. Autentico pastore, si preoccupò sia delle anime (pensiamolo sovente radunato con la sua comunità intorno al sepolcro di S. Eusebio), che delle condizioni di vita dei suoi fedeli. A tale scopo chiese a Teodorico di costruire un ponte e la riduzione delle tasse. Emiliano fu un eccellente direttore spirituale. Diede il velo e fu confessore delle quattro sorelle Licinia, Leonzia, Ampelia e Flavia che vivevano nel protomonastero fondato da Eusebia, sorella di S. Eusebio.
Morì l’11 settembre, intorno al 506, e fu sepolto in duomo. Il corpo cadde successivamente in oblio, sebbene rimanesse vivo il culto e si innalzassero in suo onore altari. Il 17 maggio 1181 il Vescovo Alberto lo trasferì presso l’altare maggiore. Riscoperto nel 1565, sette anni dopo fu deposto nella cappella della Vergine dello Schiaffo, che gli fu poi dedicata.


Santa  Vinciana d'origine lombarda , sorella  di santo Landoaldo  missionaria  nel territorio di  Limbourg nella zona della Vallonia Belga  (vers 670).


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Santo Arsenio monaco italo greco padre spirituale di Sant’Elia lo Speleota  (904). 



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