domenica 16 dicembre 2018

memoria del santo sacromartire Giovanni VIII, papa dell’antica Roma (italiano e francese)





così scrive in modo concreto ed asciutto L'Archimandrita Antonio Scordino di venerata memoria




"Ottimo amico del santo patriarca di Costantinopoli Fozio, condannò severamente il Filioque e perciò nell’anno 882 fu avvelenato dagli opposti, i quali anche, a colpi di scure, fecero a pezzi il suo corpo."


lettre du Pape Jean VIII à Saint Photius

« Pour vous rassurer touchant cet article qui a causé des scandales dans les Eglises : non seulement nous n'admettons pas le mot en question, mais ceux qui ont eu l'audace de l'admettre les premiers, nous les regardons comme les transgresseurs de la parole de Dieu, des corrupteurs de la doctrine de Jésus-Christ, des apôtres et des Pères qui nous ont donné le symbole. Nous les mettons à côté de Judas, puisqu'ils ont déchiré les membres du Christ. Mais vous avez une trop haute sagesse pour ne pas comprendre qu'il est très difficile d'amener tous nos évêques à penser ainsi, et de changer en peu de temps un usage qui s'est introduit depuis tant d'années. Nous croyons donc qu'il ne faut obliger personne à renoncer à l'addition faite au symbole, mais les engager peu à peu et avec douceur à renoncer à ce blasphème. Ceux qui nous accusent de l'accepter se trompent ; mais ceux qui affirment qu'il y a parmi nous beaucoup de gens qui l'acceptent, disent la vérité. C'est à vous de travailler avec nous pour ramener par la douceur ceux qui se sont écartés de la sainte doctrine. »






Tropaire ton 4


Des apôtres partageant le genre de vie et sur leur trône devenu leur successeur, tu as trouvé dans la pratique des vertus la voie qui mène à la divine contemplation ; c'est pourquoi, dispensant fidèlement la parole de vérité, tu luttas jusqu'au sang pour la défense de la foi ; ô Jean, saint évêque de Rome, intercède auprès du Christ notre Dieu pour qu'Il sauve nos âmes.







 Per amor della verità storica ed ecclesiale la glorificazione di San Giovanni VIII papa e patriarca di Roma Antica  negli anni precedenti al 2006 era stata  celebrata  dalla Rocor ,la Chiesa Russa d'oltre frontiera (quando la stessa era ancora in posizione di scisma canonica e quindi non in comunione) e dopo che con il patto di unità ecclesiale e canonica del 2007 la Rocor era rientrata in comunione il suo sinassario  era  stato recepito  dalla comunione congregazionale  delle chiese ortodosse 


Per amore di verità nel 2007  la congregazione ecclesiale della  serissima  Chiesa Ortodossa Tradizionale in Italia del Sinodo di Oropòs e Filì ( con la quale chiesa  non si è in comunione )..aveva -per il proprio sinassario- celebrato  la glorificazione di Giovanni Ottavo .

Pubblico una parte del testo della glorificazione suddetta (la parte di receptio storica documentata del ministero di Giovanni VIII rimandando al seguente link
la lettura del testo completo


2. LA FIGURA E L’OPERA DI GIOVANNI VIII.


Scrivono P. RANSON,M. TERESTCHENKO e L. MOTTE nel loro saggio "Storia dello Scisma" :

< Dalla morte di Leone III all’anno 858, il popolo ortodosso di Roma riuscì ad imporre un suo candidato , malgrado le minacce dell’imperatore germanico. Già dal momento dell’elezione di Leone III grandi furono l’ansietà ed anche il terrore per una rappresaglia franca. L’elezione di Benedetto III fu interrotta dal partito germanico che impose per un momento il proprio candidato Anastasio, ma la folla assediò le porte della basilica costantiniana ove si teneva la Sinodo incaricata di eleggere il nuovo papa. Alla morte di Benedetto fu eletto il primo papa germanofilo Nicola I. L’imperatore germanico Ludovico accorse e fece svolgere l’elezione alla sua presenza. Prestissimo Nicola I volle imporre la sua autorità su tutta la chiesa e applicò alla sua tiara le tre corone e al suo regno la dottrina della predestinazione. Scrisse al patriarca della Nuova Roma, San Fozio il Grande, che “la Chiesa di Roma aveva meritato il diritto al potere assoluto ed aveva ricevuto il governo di tutte le pecorelle di Cristo”. Un po’ più tardi, furioso di non aver ottenuto il riconoscimento delle sua innovazioni da San Fozio, scrisse direttamente al popolo, al clero e all’Imperatore di Costantinopoli delle lettere piene di ostilità e di odio in cui il patriarca è chiamato “Signor Fozio” , “adultero”, “omicida” ed altre ingiurie. In Bulgaria benediceva la missione del vescovo Formoso, uno dei capi del partito filogermanico, ed autorizzava l’aggiunta del Filioque al Credo nonché altre riforme o pratiche tipiche delle chiese franche.

Quest'atteggiamento provocò la reazione della Chiesa di Costantinopoli e San Fozio, d’accordo con la sua Sinodo, inviò un’enciclica a tutte le Chiese nella quale denunciava la situazione creata in Bulgaria e il dogma del Filioque. Un concilio si tenne a Costantinopoli nell’867, alla presenza dei delegati dei patriarchi orientali, che anatematizzò le dottrine denunciate da san Fozio, in particolare l’eresia del Filioque e la sua aggiunta al Credo di Nicea-Costantinopoli in Bulgaria. Più di mille firme testimoniarono contro il dogma franco che, come afferma San Fozio, scinde la Santa Trinità in due, poiché instaura due sorgenti nella Divinità, finendo così nel paganesimo. Dopo la partenza per l’esilio del patriarca Fozio, il papa Nicola I fece organizzare a Costantinopoli nell’869 un “concilio” di 18 vescovi nel quale la persona di San Fozio fu condannata, senza che nessuna eresia gli potesse essere rimproverata. Bisogna dire che Nicola I in Roma non osò mai imporre il Filioque per paura del popolo romano fedele alla Fede Ortodossa. Nicola I d’altronde non cessava di trovare difficoltà con i romani dell’Italia del Sud e anche con quelli delle Gallie che erano rimasti scossi dalla sua concezione totalitaria dell’antica “etnarchia”. Quando morì, era ormai sostenuto solo dai teologi franchi filioquisti che egli aveva mobilitato contro il patriarca e l’imperatore di Costantinopoli, senza peraltro fare il nome di San Fozio la cui scienza e santità erano note ai romani ortodossi della Gallia.

Dopo un papa di transizione, Adriano, il partito romano ebbe nuovamente il sopravvento e l’arcidiacono Giovanni, divenuto Giovanni VIII, salì al trono patriarcale di Roma. Giovanni VIII che la storiografia occidentale ha lasciato per molto tempo da parte - e ciò in parte a causa della falsificazione delle fonti, ormai ammessa dagli storici -, fu un grande papa della Romanità , della statura dei Leone Magno e dei Gregorio Magno. Gerarca attento e prudente, fino alla morte dell’imperatore Ludovico II nell’875, seppe utilizzare il partito germanico, senza pur dare ad esso un ruolo decisionale. Al momento però nel quale la minaccia germanica scomparve con la morte dell’imperatore, depose, scomunicò e anatematizzò i vescovi “nicolaiti” che avevano aggiunto il Filioque in Bulgaria ed in particolare il vescovo Formoso. Scelse un candidato all’impero tra i carolingi, il re di “Francia” Carlo il Calvo che era il più moderato e il più lontano dall’Italia e gli impose una “donazione” che liberava le elezioni dei papi dalla presenza dei legati imperiali. Così tentava di preservare Roma da un nuovo Nicola imposto dal partito germanofilo. Dopo la disfatta e la morte di Carlo il Calvo, lasciò in sospeso la successione che egli cercava di controllare, movendo i vari candidati gli uni contro gli altri. Fallì alla fine perché il re Carlo il Grosso invase Roma e fece avvelenare Giovanni VIII che fu poi finito a colpi di scure. Questo periodo di tempo che Giovanni VIII riuscì a dare al trono dell’antica Roma, se da un lato fece entrare la capitale in un periodo di disordini e di incertezze, dall’altro doveva contribuire a cambiare l’aspetto delle cose. Da una parte la disorganizzazione politica in Italia provocata dalla vacanza del trono imperiale occidentale permise alle truppe di Basilio I di avanzare in modo decisivo in Italia e di liberare momentaneamente i romani della regione ; dall’altra parte i legati di Giovanni VIII poterono assistere e riconoscere le decisioni del Concilio dell’879 presieduto da San Fozio, di nuovo in possesso del suo trono patriarcale. 


A questo fondamentale concilio tutti patriarchi vennero rappresentati e San Fozio fu riconosciuto da tutto il mondo quale Patriarca della Nuova Roma. Così colava a picco tutta l’opera di Nicola I. L’inalterabilità del Simbolo della fede e la condanna di ogni aggiunta furono proclamate ufficialmente benché Giovanni VIII avesse domandato che i franchi non venissero nominati e ciò per prudenza. I legati della Chiesa di Roma chiamarono l’aggiunta del Filioque un “inqualificabile insulto ai Padri”, Giovanni VIII scrisse una lettera a San Fozio nella quale condannava in termini velati, ma fermi, i germano-franchi e l’aggiunta del Filioque; a proposito degli autori dell’eretica addizione afferma testualmente : “Noi li mettiamo dalla parte di Giuda, poiché essi hanno lacerato le membra del Cristo” . Questo concilio dell’879 che riconobbe l’ecumenicità del VII Concilio ebbe tutti i caratteri di un Concilio Ecumenico e la chiesa Ortodossa lo riconosce ormai (almeno da parte di alcuni:) come l’VIII Ecumenico.>



Le vicende narrate in questo lucido saggio dimostrano che Giovanni VIII lottò, campione ormai solitario in un Occidente che s'imbarbariva, perché la fede Ortodossa fosse salvaguardata. Due erano i nemici dell'Ortodossia in questo periodo oscuro per la sede romana: la alterazione del Simbolo e la pretesa di primato giurisdizionale che papa Nicola aveva avanzato. Ebbene risulta chiaro che Giovanni VIII resistette all'una ed all'altra: condannò vigorosamente l'aggiunta. Il testo della splendida lettera citata c'è conservato ed è reperibile nel MANSI - Conciliorum…, è veramente uno degli ultimi insegnamenti da vero Padre della Chiesa che provengono dalla cattedra di Roma antica. Per quanto riguarda il primato ebbe di esso la concezione ortodossa della conciliarità e delle precedenze della pentarchia di Calcedonia come dimostra la sua partecipazione all'VIII Sinodo ed il suo rispetto per la giurisdizione patriarcale di Costantinopoli.

Il pontificato di Giovanni VIII segna dunque un momento decisivo e mal conosciuto della storia dello “scisma”, perché rappresenta l’ultima grande resistenza dei romani dell’antica Roma e dell’Occidente nei confronti della spinta germano-franca contro il trono ortodosso di Roma

Analoghe asserzione si possono trovare nel libro di GIOVANNI S. ROMANIDES - FRANCHI, ROMANI Feudalesimo e Dottrina - Un percorso storico e teologico alle radici della separazione dell’Occidente dall’Oriente. Va inoltre citato il libro di LAMPRILLOS - La mistificazione fatale, che è più volte citato nel commentario al Simbolo della fede scritto dal Vescovo di Luni .



3 – IL TESTIMONE NELL’EPOCA DELLA CRISI



Quest’aspetto della figura e dell’opera del santo pontefice assume per noi un particolare rilievo in quanto avvicina la sua lotta alla lotta degli ortodossi di oggi per la verità della fede e contro le adulterazioni che i novelli barbari portatori del relativismo della nostra epoca intendono apportare alla fede immacolata.

Il già citato p.Patric Ranson aveva in lavorazione un libro sintetico e, probabilmente, esauriente, su Giovanni VIII. Ne avemmo da lui alcuni appunti prima della sua prematura scomparsa a questo mondo e vogliamo riportarne una parte tradotta in quanto ci sembra di non saper esprimere meglio di lui la ideale vicinanza a noi di papa Giovanni :< Ci sembra che è obbedire al comandamento della pietà ortodossa scrivere la storia di colui che il grande San Fozio chiamò “nostro amico” e lodò per il suo coraggio e per la sua ortodossia , il papa dell’antica Roma Giovanni VIII, grazie al quale il papato ortodosso ha condannato una volta per tutte il papato eretico . Giovanni VIII ha avuto parte, col suo amico Fozio, all’odio e alle critiche dei Germano-franchi dell’epoca Carolingia che hanno trasmesso ai loro discendenti il loro astio tale da far sì che per lungo tempo si siano falsificati i documenti storici e si siano usate false leggende contro i due Confessori. Ma IL PAPA GIOVANNI VIII CHE I SUOI NEMICI ARRIVARONO AD AVVELENARE ED A FINIRE A COLPI DI SCURE, DEVE ESSERE OGGI RICONOSCIUTO COME CONFESSORE E MARTIRE. Se questo oggi non è ancora accaduto è in gran parte da ricercarsi nella falsificazione delle fonti.> E ancora: <La conoscenza più esatta dei testi che la nostra epoca ha acquisito ci consente ora di dimostrare il carattere fallace di tutte le accuse che furono fatte ed in particolar modo la voluta falsificazione delle fonti a proposito di una seconda condanna che papa Giovanni VIII avrebbe pronunciato contro San Fozio dopo quella di Nicola I. Oggi nessuno oserebbe più affermare, sulla scia del Cardinal Baronio , che Fozio è un mostro uscito dall’inferno « funestum aliquid ab imis infernis proditum » oppure, come il cardinale Herengôther , ispirato da Fleury che egli fu « un perfetto ipocrita che agiva da scellerato e parlava da santo ». Tanto la storiografia deve, nell’opera della ricostruzione delle fonti, ad uno storico di nazionalità ceca, Dvornik , che, una volta per sempre ha mostrato in modo inequivocabile la falsità della leggenda della scomunica di Giovanni VIII contro Fozio.> E dobbiamo ancora dare la parola a P.Patric, che afferma: < Stando così le cose,se il papa san Gregorio il Grande è giustamente considerato il simbolo della resistenza della romanità ai barbari, il suo successore non è affatto Nicola I, ma Giovanni VIII. Ancora diacono, Giovanni scrisse una biografia di Gregorio il Grande , il quale, nel contesto delle vicende della Roma del tempo, assume il valore di un simbolo. In questo modo egli evidenziò di porsi non dalla parte dei germano-franchi ma dalla parte dei romano-ortodossi. L’opera di Giovanni VIII assume così una grande importanza, forse anche ancor di più di quella di Gregorio il Grande : come lui lottò contro i barbari e come lui, dovette fare i conti con la malizia degli avversari ; come lui, affermò l'universalità della Chiesa e l’eguaglianza delle sedi patriarcali, rigettando fermamente l’idea che una sola sede possa detenere una autorità assoluta; come Gregorio il Grande che benedisse le missioni cristiane in Bretagna, Giovanni VIII promosse l’opera missionaria aiutando Cirillo e Metodio nel loro lavoro, avversato senza posa dai Franchi. Aggiungiamo che egli confessò l’ortodossia in un concilio generale e, per mezzo dei suoi legati, fece condannare l’aggiunta eretica del Filioque. Disgraziatamente, si trovò ad agire in un clima ancor più difficile di quello in cui agì san Gregorio e la sua opera è stata a tal punto nascosta e segreta che alcuni storici si basano sui presupposti della scienza occidentale ereditata dai Franchi così da non esser più capaci di restituire agli eventi il loro significato originale. Se noi rigettiamo questi presupposti e se noi vediamo in Giovanni VIII un grande papa romano ortodosso ostaggio dei barbari e sotto il continuo rischio di perdere la sua vita professando in segreto la sua fede per necessità, nel nascondimento, ma sempre e solo per necessità, nella politica, l’”amico di san Fozio” diviene l’amico di tutti coloro che nel tempo travagliato dell’ecumenismo, dove i falsi fratelli sono dentro la stessa Chiesa, si sforzano di confessare quella fede verace che sostiene l’intero universo.>







domenica 2 dicembre 2018

2 dicembre santi italici ed italo greci

Saints EUSEBE, prêtre, MARCEL, diacre, et HIPPOLYTE, MAXIME, ADRIAS, PAULINE, NEON, MARIE, MARTANE et AURELIE, martyrs à Rome sous Valérien (vers 256). 
 
Saint PONTIEN, martyr à Rome avec QUATRE autres sous Valérien (vers 259). 
 
 
 
Santa Bibiana o Viviana martire a Roma sotto Giuliano l’Apostata (verso il 363)


Secondo la «Passio Bibianae», questa santa sarebbe una delle vittime della persecuzione anticristiana dell'imperatore Giuliano l'Apostata (361 - 363),. Secondo questa Passio, il governatore Apronio avrebbe mandato a morte i coniugi Fausto e Dafrosa, per impadronirsi dei loro beni. Poi volle costringere all'apostasia le loro figlie: Demetria e Bibiana. La prima sarebbe morta sotto tortura, mentre Bibiana, salda nella propria fede, dopo aver subito ogni tipo di angheria(Dapprima fu minacciata, poi blandita. Venne affidata ad una mezzana, affinché la incamminasse sulla via della perdizione Ma Santa Viviana non si fece scalfire nè dalla paura, nè dalle tentazioni della carne) fu legata alla colonna e flagellata a morte. L'ultimo scempio che fu fatto al suo giovane corpo fu quello di negargli la sepoltura. Le spoglie della giovinetta furono gettate in una fossa per essere sbranate dai cani; ma i cani, più pietosi degli uomini, non la toccarono, anzi, indicarono i miseri resti ad una pia donna, che quindi tumulò dignitosamente ciò che restava della fanciulla. 


La chiesa sull'Esquilino sorgerebbe sulla tomba della martire L'edificio originario, risalente al V secolo,(dedicata alla santa martire da Papa Simplicio )  fu ristrutturato completamente da Gian Lorenzo Bernini per volontà di papa Urbano VIII nel XVII secolo. All'interno si può ammirare una statua , eseguita dal Bernini stesso, che raffigura Santa Viviana così come l'iconografia devozionale ce l'ha consegnata. Si vede una fanciulla, appoggiata ad una colonna, che ha in mano la palma del martirio e sembra già più rivolta al cielo che alla terra, eterea e splendida nella sua giovinezza immacolata.

 
 Questa icona di San Cromazio d'Aquileia è il dono del Patriarca Bartolomeo per la Basilica di Aquileia, in ricordo dell'aiuto dato da Cromazio al predecessore del Patriarca sulla sede di Costantinopoli, San Giovanni Crisostomo
 
Santo Cromazio Vescovo di Aquileia (verso il 407 o 408)


(tratto da http://www.santiebeati.it/dettaglio/90492)
Cromazio nasce in una famiglia benestante. Sappiamo infatti che in casa sua (dove ci sono il fratello Eusebio e tre sorelle) s’incontrano sacerdoti e laici animati da lui: una sorta di gruppo ascetico-culturale che verso il 370 accoglie anche un funzionario imperiale dimissionario: un dàlmata Girolamo. Questi arriva da Treviri, in Germania (sede stagionale degli imperatori), dove ha rinunciato alla sua carica. E in casa di Cromazio, tra letture, preghiere e discussioni, si prepara al cammino che lo condurrà in Oriente, e all’opera gigantesca di tradurre le Scritture in latino.

Il vescovo Valeriano di Aquileia ha ordinato sacerdote Cromazio, e si serve di lui per la difesa della retta professione di fede contro l’arianesimo, che in Alta Italia ha ancora sostenitori, anche tra i vescovi. Proprio per giungere a un chiarimento generale in materia di dottrina, nel 381 si riunisce ad Aquileia un Concilio regionale; e Cromazio è uno dei più autorevoli ispiratori delle sue conclusioni.
Morto poi Valeriano, è lui a succedergli come vescovo di Aquileia, e riceve la consacrazione episcopale da sant’Ambrogio di Milano. Dall’Oriente, Girolamo lo definirà il vescovo «più santo e più dotto» del suo tempo. E sicuramente egli è pure uno dei più generosi verso il traduttore della Bibbia: gli manda lettere di incoraggiamento e anche aiuti in denaro; e Girolamo ricambia dedicandogli alcune delle sue versioni bibliche.
Ma nell’Impero, governato da due imperatori “colleghi” e spesso rivali a morte, per due volte in pochi anni la guerra arriva addosso al Friuli. Due battaglie e due vittorie di Teodosio (luglio 387 e settembre 394), con l’immediata uccisione dei rivali sconfitti e le solite devastazioni e rapine della truppa. Così Teodosio rimane imperatore unico, ma alla sua morte riecco un imperatore in Italia (Ravenna) e uno a Costantinopoli: Onorio e Arcadio, figli di Teodosio.
Nel 404, un avvenimento lontano sottolinea il prestigio di Aquileia e del suo vescovo. Il patriarca di Costantinopoli, Giovanni Crisostomo, è stato condannato un’altra volta all’esilio, e chiede aiuto a tre persone: papa Innocenzo I, Ambrogio di Milano e Cromazio di Aquileia. Il quale interviene presso Onorio, ma invano. Il patriarca morirà in esilio.
Le delusioni non fermano la sua operosità di promotore di cultura cristiana. Tra un’invasione e l’altra (anche i Visigoti, ora) aiuta e incoraggia studiosi; e uno se lo prende in casa, Rufino di Aquileia, per fargli continuare la Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea. E quando Rufino e Girolamo polemizzano tra loro, fa di tutto per riconciliarli e riportarli allo scrittoio. Anche lui, Cromazio, studia e scrive: conosciamo una raccolta di suoi sermoni e un commento parziale al Vangelo di Matteo. Morì in esilio a Grado a motivo delle scorribande  dei barbari sulle terre della diocesi di Aquileia

Tratto da

Cromazio fu sapiente maestro e zelante Pastore. Il suo primo e principale impegno fu quello di porsi in ascolto della Parola, per essere capace di farsene poi annunciatore: nel suo insegnamento egli parte sempre dalla Parola di Dio e ad essa sempre ritorna. Alcune tematiche gli sono particolarmente care: anzitutto il mistero trinitario, che egli contempla nella sua rivelazione lungo tutta la storia della salvezzaPoi il tema dello Spirito Santo: Cromazio richiama costantemente i fedeli alla presenza e all’azione della terza Persona della Santissima Trinità nella vita della Chiesa. Ma con particolare insistenza il santo Vescovo ritorna sul mistero di Cristo. Il Verbo incarnato è vero Dio e vero uomo: ha assunto integralmente l’umanità, per farle dono della propria divinità. Queste verità, ribadite con insistenza anche in funzione antiariana, approderanno una cinquantina di anni più tardi alla definizione del Concilio di Calcedonia. La forte sottolineatura della natura umana di Cristo conduce Cromazio a parlare della Vergine Maria. La sua dottrina mariologica è tersa e precisa. A lui dobbiamo alcune suggestive descrizioni della Vergine Santissima: Maria è la «vergine evangelica capace di accogliere Dio»; è la «pecorella immacolata e inviolata», che ha generato l’«agnello ammantato di porpora» (cfrSermone XXIII,3). Il Vescovo di Aquileia mette spesso la Vergine in relazione con la Chiesa: entrambe, infatti, sono «vergini» e «madri». L’ecclesiologia di Cromazio è sviluppata soprattutto nel commento a Matteo. Ecco alcuni concetti ricorrenti: la Chiesa è unica, è nata dal sangue di Cristo; è veste preziosa intessuta dallo Spirito Santo; la Chiesa è là dove si annuncia che Cristo è nato dalla Vergine, dove fiorisce la fraternità e la concordia. Un’immagine a cui Cromazio è particolarmente affezionato è quella della nave sul mare in tempesta – e i suoi erano tempi di tempesta, come abbiamo sentito –: «Non c’è dubbio», afferma il santo Vescovo, «che questa nave rappresenta la Chiesa» (cfr Trattato XLII,5).
Da zelante Pastore qual è, Cromazio sa parlare alla sua gente con linguaggio fresco, colorito e incisivo. Pur non ignorando il perfetto cursus latino, preferisce ricorrere al linguaggio popolare, ricco di immagini facilmente comprensibili. Così, ad esempio, prendendo spunto dal mare, egli mette a confronto, da una parte, la pesca naturale di pesci che, tirati a riva, muoiono e, dall’altra, la predicazione evangelica, grazie alla quale gli uomini vengono tratti in salvo dalle acque limacciose della morte, e introdotti alla vita vera (cfr Trattato XVI,3). Sempre nell’ottica del buon Pastore, in un periodo burrascoso come il suo, funestato dalle scorrerie dei barbari, egli sa mettersi a fianco dei fedeli per confortarli e per aprirne l’animo alla fiducia in Dio, che non abbandona mai i suoi figli.
Raccogliamo infine, a conclusione di queste riflessioni, un’esortazione di Cromazio, ancor oggi perfettamente valida: «Preghiamo il Signore con tutto il cuore e con tutta la fede – raccomanda il Vescovo di Aquileia in un suo sermone –, preghiamolo di liberarci da ogni incursione dei nemici, da ogni timore degli avversari. Non guardi i nostri meriti, ma la sua misericordia, Lui che anche in passato si degnò di liberare i figli di Israele non per i loro meriti, ma per la sua misericordia. Ci protegga con il solito amore misericordioso e operi per noi ciò che il santo Mosè disse ai figli di Israele: “Il Signore combatterà in vostra difesa, e voi starete in silenzio” (cfr Es 14,14). È Lui che combatte, è Lui che riporta la vittoria … E affinché si degni di farlo, dobbiamo pregare il più possibile. Egli stesso infatti dice per bocca del profeta: “Invocami nel giorno della tribolazione; io ti libererò, e tu mi darai gloria” (cfr Sal 50,15)» (Sermone XVI,4).

 

Santo Pietro Crisologo vescovo di Ravenna (dies natalis in un periodo tra il 449  e il 458)


PIETRO Crisologo, santo. – Primo metropolita dell’Emilia, attestato nei decenni centrali del V secolo; venne così denominato a partire dal IX secolo per la raffinata eloquenza (da chrisòs«oro» e lògos «parola»).
Il Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis di Andrea Agnello (IX secolo), la più antica fonte a nostra disposizione per la biografia di Pietro Crisologo, contiene non poche inesattezze. Buona parte delle notizie che lo riguardano sono riportate da Agnello nella vita di Pietro II (LiberPontificalis, a cura di O. Holder-Egger, 1878, pp. 289-291; a cura di D. Mauskopf Deliyannis, 2006, pp. 208-218) con il quale viene identificato, mentre in realtà si tratterebbe di Pietro (I)antistes (Liber Pontificalis, ed. Holder-Egger, pp. 310-315; ed. Mauskopf Deliyannis, pp. 170-175) vissuto all’epoca di Galla Placidia (388/392-450) e dell’imperatore Valentiniano III (425-455). A Pietro I viene inoltre erroneamente attribuita la costruzione del battistero della basilica petriana a Classe e di un edificio detto Tricoli, che invece furono fatti realizzare da Pietro II, mentre i dati relativi alla sua morte e sepoltura sono da riferire a Pietro (III) senior (Liber Pontificalis, ed. Holder-Egger, pp. 337-341; ed. Mauskopf Deliyannis, pp. 258-265).
La notizia riportata da Agnello sulle origini imolesi di Pietro Crisologo e sulla sua formazione sotto la guida del vescovo Cornelio («Natione ex Corneliense territorio, nutritus et doctus a Cornelio illius sedis antistes»: Liber Pontificalis 47, ed. Holder-Egger, p. 310; ed. Mauskopf Deliyannis, p. 208) potrebbe trovare fondamento nel sermone pronunciato dallo stesso vescovo ravennate in occasione della consacrazione di Proietto (m. 483) come nuovo presule del Forum Cornelii. Nell’incipit egli esprime una particolare devozione nei confronti della Chiesa imolese («sed Corneliensi ecclesiae inservire peculiarius ipsius nominis amore compellor») e riconosce Cornelio come padre spirituale («pater mihi fuit»; Sermo 165, in Sermoni III, p. 252, rr. 4-14).
Più controverso appare il passo del Liber Pontificalis sull’elezione episcopale. Il diacono Pietro, insieme allo stesso Cornelio, partecipò alla delegazione diretta a Roma per la consacrazione del nuovo vescovo eletto a Ravenna dopo la morte di Orso (m. 424-429?). L’episodio riprende il toposagiografico dell’agnizione conseguente alla visione notturna, qui attribuita a papa Sisto III (432-440) a cui Pietro sarebbe apparso in sogno affiancato dai santi Pietro e Apollinare. Il principe degli Apostoli lo avrebbe indicato come l’unico in grado di illuminare la Chiesa ravennate con la propria dottrina («ut pinguedo olei lucerne illuminans, cum ab igne fuerit applicata»). Il pontefice si rifiutò allora di consacrare colui che era stato eletto nella capitale dell’impero d’Occidente, o qualsiasi altro candidato, fino a quando non scorse Pietro fra i membri della delegazione: la scelta di costui, inizialmente contestata da una parte dei presenti («non ex nostro fuit ovile»), si concluse con la proclamazione da parte del papa (Liber Pontificalis 49, ed. Holder-Egger, pp. 311 s.; ed. Mauskopf Deliyannis, p. 213). La fonte è messa tuttavia in discussione dalla cronologia del sermonario di Pietro Crisologo, che anticipa l’inizio della sua attività fra il 425, dopo che divenne imperatore Valentiniano III, e poco prima del 431, quando Ravenna fu elevata al rango metropolitano.
Nel corso del suo episcopato il vescovo pronunciò numerose omelie che furono raccolte per la prima volta dal suo successore Felice (708-724), senza un preciso ordine cronologico o una qualche suddivisione per argomento. I centosessantotto sermoni, ai quali se ne assommano quindici extravagantes, rappresentano una fonte importante sull’affermazione della Chiesa ravennate nel quadro della gerarchia delle sedi vescovili nonché sulla liturgia ravennate e sull’ordinamento delle letture evangeliche. Il ricordo della morte e della sepoltura di s. Apollinare nel sermone 128 costituisce una delle prime attestazioni del culto tributato al martire (Sermo 128, in Sermoni III, 3, p. 34, rr. 37-41). I sermoni, oltre a documentare la posizione del vescovo intorno alle dispute dottrinali dell’epoca, in particolare alla controversia cristologica sulla divina maternità di Maria (Sermo 145, in Sermoni III, 6, p. 134, rr. 74-88), attestano la sua dura opposizione nei riguardi del giudaismo (Sermo 164, in Sermoni III, 8, p. 250, rr. 75-103), dell’eresia (Sermo 109, in Sermoni II, 4, pp. 329 s., rr. 74-88) e della persistenza delle ritualità pagane (Sermo 155, in Sermoni III, pp. 188-190; 155 bisibid., pp. 192-194).
Insieme a Galla Placidia, alla quale si rivolge con l’epiteto di mater christiani perennis et fidelis imperii in un’omelia di ordinazione episcopale pronunciata alla presenza della famiglia imperiale (Sermo 130, in Sermoni III, 3, p. 43, rr. 35-45), edificò la basilica petriana a Classe e quella di S. Giovanni Evangelista a Ravenna (420-430), nella cui abside, sopra la cattedra episcopale, l’augusta volle effigiata l’immagine del vescovo affiancato da un angelo e raffigurato con una lunga barba e le mani protese nell’atto di celebrare la messa (Liber Pontificalis 27, ed. Holder-Egger, p. 291; ed. Mauskopf Deliyannis, p. 174).
La notizia in Agnello della consacrazione della basilica dei Ss. Giovanni e Barbaziano da parte di Pietro (Liber Pontificalis 51, ed. Holder-Egger, p. 313; ed. Mauskopf Deliyannis, p. 215), invece, non può ritenersi attendibile.
Nel 448 Pietro accolse nella propria sede il vescovo Germano di Auxerre (378-448), giunto a Ravenna per intercedere a favore degli Armoricani presso Valentiniano III. In seguito alla morte improvvisa del presule gallico dopo una malattia durata sette giorni, il vescovo ravennate ne serbò la cocolla e il cilicio mentre all’imperatrice Galla Placidia, che si era presa personalmente cura del morente, fu riservata la capsella contenente alcune sante reliquie (Constance de Lyon, 1965, VI, 28, p. 174; VII, 35, p. 188; VII, 42, p. 198; VIII, 43, p. 200).
Nel 449, in quanto vescovo della sede imperiale d’Occidente, Pietro fu interpellato dal presbitero e archimandrita costantinopolitano Eutiche che era stato condannato per la posizione monofisita nel corso della sinodo di Costantinopoli (448) presieduta dal patriarca Flaviano (m. 449). Il nostro ribadì la sua posizione dottrinale sulla questione cristologica e si mantenne al di fuori della controversia in assenza di un riscontro scritto da parte di Flaviano, quindi esortò Eutiche a sottomettersi alle decisioni del papa Leone I (440-461) (ACO II, 3,1, pp. 6 s.; SermoniIII, pp. 340-342).
La lettera risale probabilmente allo stesso periodo in cui Eutiche rivolse, prima del 18 febbraio 449, un appello al pontefice al quale egli rispose con un tono prudente (ACO II, 4, pp. 3-5). Se nel testo di Pietro si vuole cogliere un riferimento al Tomus ad Flavianum di Leone Magno (ACOII, 2, 1, pp. 24-33), la sua risposta potrebbe essere stata redatta dopo il 13 giugno 449.
È probabile che sia morto fra il 451 e il 458, anno in cui già esercitava la propria attività pastorale il suo successore, il vescovo Neone.
Le circostanze della scomparsa sono descritte da Agnello che, anche in questo caso, si avvale di stilemi agiografici. Il vescovo ravennate fece il proprio ingresso nella basilica di S. Cassiano a Imola, offrì doni preziosi al martire («cratere aureo uno e patera argentea altera et diademata aurea magna preciosissimis gemmis ornata») che furono santificati attraverso il contatto con le spoglie di quest’ultimo («omnia a sancti Cassiani corpore imbuit»), poi li depose sull’altare. Pietro benedisse la folla e pronunciò una lunga preghiera di commiato. Infine, dopo aver ricordato la propria formazione in seno alla chiesa imolese, affidò l’anima a Dio e il proprio corpo al santo spirando fra le lacrime dei presenti il giorno 3 dicembre. Fu seppellito per sua volontà dietro la chiesa in luogo da lui indicato (Liber Pontificalis 52, ed. Holder-Egger, pp. 314 s.; ed. Mauskopf Deliyannis, p. 218).
La scelta della sepoltura nei pressi della tomba di Cassiano, secondo la prassi della inumazionead santos, sarebbe avvenuta, dunque, al di fuori della sede episcopale ma pur sempre in una località sottoposta alla giurisdizione territoriale del vescovo ravennate.
La notizia è stata oggetto di dibattito da parte degli studiosi, tuttavia una tale decisione, che potrebbe essere dipesa dalla volontà di farsi inumare accanto al patrono della chiesa che lo aveva cresciuto, non può essere spiegata solo con l’assenza a Ravenna di importanti edifici di culto martiriale, per quanto nel V secolo sia attestata l’esistenza di un piccolo oratorio (ritrovato sotto il pavimento della basilica di S. Vitale), considerato come il primo santuario del martire Vitale, e lo stesso Crisologo nel sermone 128 facesse menzione generica della sepoltura in area ravennate del martire Apollinare. La basilica dedicata al patrono ravennate sorse a Classe solo nel VI secolo.
Fonti e Bibl.: Sancti Petri Chrysologi Collectio sermonum a Felice episcopo parata, sermonibus extravagantibus adiectis, a cura di A. Olivar, in Corpus Christianorum, Series Latina, 24-24A, Turnhout 1975-1981; Opere di San Pier CrisologoSermoni [1-62 bis], a cura di G. Banterle et al., I, Milano-Roma 1996; Sermoni [63-124], II, Milano-Roma 1997; Sermoni [125-179] e Lettera a Eutiche, III, Milano-Roma 1997; Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis, a cura di O. Holder-Egger, in MGHScriptores rerum langobardicarum et italicarum saec. VI-IX, Hannover 1878;Agnellus Ravennas Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis, a cura di D. Mauskopf Deliyannis, inCorpus Christianorum, Continuatio Mediaevalis, 199, Turnhout 2006; Constance de Lyon, Vie de Saint Germain d’Auxerre, a cura di René Borius, Paris 1965; Acta conciliorum oecomenicorum (=ACO), a cura di. E. Schwartz, II, Berolini-Lipsiae 1932; G. Lucchesi, Note intorno a san Pier Crisologo, in Studi Romagnoli, III (1952), pp. 97-104; Patrologia, III, Dal Concilio di Nicea (325)al Concilio di Calcedonia (451). I padri latini, a cura di A. Di Berardino, Torino 1978 (rist. 1992), pp. 544 s.; G. Cortesi, Cinque note su san Pier Crisologo, in Felix Ravenna, CXXVII-CXXX (1984-1985), pp. 117-132; J.-C. Picard, Les souvenir des évêques. Sépultures, listes épiscopales et culte des évêques en Italie du Nord des origines au Xsiècle, Roma 1988, pp. 148 s., 177 s., 484; R. Benericetti, Il Cristo nei sermoni di S. Pier Crisologo, Cesena 1995, pp. 57-66; Prosopographie de l’Italie chrétienne (313-604), sous la direction de C. Pietri - L. Pietri, II (L-Z), Roma 2000, pp. 1728-1730; D. Mauskopf Deliyannis, Ravenna in late antiquity, Cambridge 2010, pp. 68 s., 84-86, 196 s.; F. Trisoglio, Introduzione a Pietro Crisologo, Brescia 2012.



 

lunedì 19 novembre 2018

This past day (Nov. 20 [OS] / Dec. 3 [NS] )was also the Feast of St. Bernward of Hildesheim (+1022 AD).


Risultati immagini per icon di bernardo di Hildesheim

Nel primo settore un personaggio regale è circondato da sette donne; al di sopra di esso è inscritto il nome bonitas; anche al di sopra delle altre figure sono indicati nomi che corrispondono ai sette nomi divini: justitia, virtus, ratio, veritas, essentia, vita, sapientia. Il tema non è nuovo: le sette arti liberali, la Sapientia e le sue sette figlie si incontrano spesso.
Nel secondo riquadro un mostro è posto all’interno di un medaglione circondato da queste parole: materia informis; esso simboleggia la terra « informe e vuota » della Genesi. Alla sua sinistra una donna regge una banderuola sulla quale è scritta la parola locus; alla sua destra un vegliardo porta l’iscrizione tempus. Così, in questo secondo riquadro, sono rappresentati il tempo e lo spazio.
Il terzo riquadro è occupato da un insieme di quattro miniature che raffigurano la creazione. La prima rappresenta gli angeli, la seconda gli uccelli, la terza i pesci e la quarta le piante, gli animali e la coppia umana.
Nell’ultimo riquadro si trova il volto aureolato di Cristo che sostiene tutto il cosmo e lo attira a sé per mezzo di un insieme di legami simbolici.


San Bernoardo (Bernwardo) di Hildesheim Vescovo

tratto da 
http://www.santiebeati.it/Detailed/91805.html

Il vescovo metallurgico: si può chiamarlo anche così. Mentre studiava Scritture e dottrina della Chiesa, era attratto pure dall’arte di forgiare, fondere e modellare i metalli nelle fucine e botteghe artigiane di Hildesheim, forte centro di commerci nella Bassa Sassonia. Figlio di aristocratici, è nato quando il duca sassone Ottone diventava l’imperatore Ottone I, il più potente sovrano d’Europa. Dopo di lui, ha visto salire al trono suo figlio Ottone II, morto a Roma nel 983 dopo una sconfitta (per opera dei Saraceni) che ha rischiato di abbattere l’Impero. E poi, da giovane sacerdote, viene chiamato a corte come maestro del nuovo imperatore Ottone III, che è ancora un bambino. Un incarico di forte peso, motivato dalle buone doti che Bernoardo sta rivelando, e anche dalla sua stretta parentela con la grande nobiltà di Sassonia. 
E nel 992 eccolo nominato vescovo di Hildesheim, anche per la buona prova che ha dato come educatore a corte. Ora questa buona prova deve ripeterla assai più in grande: si tratta di consolidare tra la sua gente una fede che tanto solida veramente non è, in ogni parte del territorio. Due secoli prima, infatti, tra i Sassoni non sono arrivati i missionari a predicare: è arrivato Carlo Magno con l’esercito, “cristianizzando” la gente a mano armata, in massa; e il ricordo di tanta brutalità è durato a lungo. Per questo Bernoardo comincia col fondare monasteri, centri di evangelizzazione con la parola e l’esempio. 
È lui a introdurre nel territorio i primi benedettini. Poi fa ricorso all’arte figurativa, che parla anche a chi non sa leggere i libri della fede calligrafati dai suoi scriptores, con lui a guidarli. Chiama pittori, scultori, orafi della città, e altri ne fa arrivare col moltiplicarsi delle sue iniziative. Ma non è il “committente” che ordina e paga. Lui è “del mestiere” e ogni giorno passa nelle botteghe a seguire e a stimolare gli artisti. 
All’epoca, i sovrani tedeschi affidano a vari vescovi anche responsabilità civili e militari. Bernoardo, mentre innalza a Hildesheim il grande monastero di San Michele, partecipa anche a spedizioni militari, fortifica la sua città e altri luoghi del territorio diocesano. E negli anni 1000-1001 è in Italia per fronteggiare una rivolta, al fianco dell’imperatore Ottone III, che ha 18 anni e morirà prima dei 20. 
Il monastero di San Michele è infine ultimato nel 1022, poche settimane prima della sua morte. E lì Bernoardo viene sepolto. Hildesheim conserva tuttora alcune opere d’arte realizzate per suo impulso. Come le porte di bronzo destinate a San Michele e assegnate poi alla cattedrale; l’imponente “collana di Bernoardo” in bronzo, il suo crocifisso d’argento, la Bibbia e l’Evangeliario miniati. Nel 1150 Bernoardo è stato canonizzato localmente dal vescovo del tempo. Nel dicembre 1193 il papa Celestino III lo ha proclamato santo.


consultare anche
https://it.wikipedia.org/wiki/Bernoardo_di_Hildesheim

http://www.treccani.it/enciclopedia/bernoardo-di-hildesheim-santo_%28Enciclopedia-dell%27-Arte-Medievale%29/


mercoledì 14 novembre 2018

Santo Fantino il Giovane Monaco del quale si ricorda al 30 agosto probabilmente la traslazione delle reliquie mentre Nel Sinassario di Costantinopoli la memoria liturgica del Santo ricorre il 14 novembre.





Santo Fantino il Giovane Monaco del quale si ricorda al 30 agosto probabilmente la traslazione delle reliquie  mentre Nel Sinassario di Costantinopoli la memoria liturgica  del Santo ricorre il 14 novembre.

Consultare e leggere  dal libro di Antonio Monaco, Ombre della storia. Santi dell’Italia Ortodossa – Asterios Editore – 2005 – pagg. 185/198
In conclusione Antonio Monaco così scrive
“La memoria del santo ricorre al 14 novembre; poiché nello stesso giorno l’ortodossa Chiesa cattolica esalta il vanto di Tessalonica, il santissimo pontefice Gregorio il Palamas, Fantino è celebrato al 30 agosto (data che forse ricorda qualche traslazione delle reliquie).”

Il testo intero delle pagine citate dal libro di Antonio Monaco sta in
http://www.ortodossia.it/w/index.php?option=com_content&view=article&id=3652:30-08-memoria-di-san-fantino-il-nuovo&catid=190:agosto&lang=it




Tratto da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/90673

San Fantino il Giovane nacque in una località della Calabria "vicinissima alla Sicilia" nel 927 da Giorgio e Vriena, ricchi possidenti dotati di grandi virtù. Secondo la consuetudine del tempo il bambino fu offerto al Signore nella chiesa di San Fantino il Vecchio e all'età di otto anni fu affidato a Sant'Elia lo Speleota nella grotta di Melicuccà per essere avviato alla vita monastica. Dopo aver seguito per cinque anni gl'insegnamenti di Sant'Elia, ricevette da lui l'abito dei novizi e rimase a Melicuccà per vent'anni, fino alla morte del Santo, esercitando prima l'umile incarico di cuoco e poi quello della custodia della chiesa.
Trasferitosi nella regione del Mercurion trascorse diciotto anni di vita eremitica dedicandosi alla preghiera e alla penitenza e lottando contro le frequenti insidie del demonio. Dopo il lungo tempo passato in solitudine ritornò alla vita cenobitica e fondò un monastero femminile nel quale furono accolte la madre e la sorella Caterina. Seguì la fondazione di monasteri maschili, in uno dei quali trovarono accoglienza il padre e i fratelli Luca e Cosma.
Sentendo vivo il desiderio di un ritorno alla vita eremitica lasciò il fratello Luca la direzione del monastero più grande e si ritirò in un luogo solitario e selvaggio. Dalla nuova dimora di tanto in tanto si recava a visitare i nuovi discepoli, fra i quali vi erano i monaci Giovanni, Zaccaria, Nicodemo e Nilo, e trascorreva parte del suo tempo nel trascrivere codici.
Ripresa la vita cenobitica il Santo continuò a vivere nello spirito della penitenza. Trascorreva lungo tempo senza prendere cibo ed era spesso in estasi.
Ad opera del Santo avvennero alcuni fatti prodigiosi. Un'orsa che devastava gli alveari del monastero fu allontanata definitivamente col solo cenno della mano. All'invocazione del suo nome zampillò d'improvviso un getto d'acqua abbondantissimo per dissetare dei monaci, i quali affaticati andavano in cerca di alcune mule che si erano allontanate dal pascolo.
Il Santo, "poiché la gente in massa affluiva a lui di continuo, al pari di uno sciame, e non gli permetteva di godere senza disturbo il bene della solitudine", si recò al santuario di San Michele al Gargano.
Una notte, dopo la recita dell'ufficio, ebbe una terribile visione che non volle comunicare ai suoi monaci perché erano "cose assolutamente indescrivibili". Poi "gettato via il saio se ne andò nudo per i monti", dove "prese a star senza bere, senza mangiare e senza alcun vestito perfino per venti giorni di seguito". Continuando a vivere in solitudine e in penitenza " si nutrì per quattro anni di erbe selvatiche e di niente altro". Quando i monaci lo rintracciarono e lo trassero a forza al monastero riprese a ritornare "là dove si aggirava prima, preferendo le fiere agli uomini".
Nel monastero San Fantino fu visitato da San Nilo, il quale raccontò una visione di angeli risplendenti e di demoni, "fitti più di sciami di api", che lo riempirono "di timore e di orrore". Infine, trasportato "in una regione risplendente di luce", sentì "echeggiare un inno ineffabile, incessante, di cui non ci si può saziare" e vide sfavillare "un fuoco straordinario", che lo riempì "di divino furore". Seguì la vista dell'inferno, "luogo pieno di fumo maleodorante, privo di luce", popolato di dannati che "sospiravano dal profondo con infiniti lamenti". Trasportato poi "in un luogo splendente ed eterno" ebbe la visione dei beati e l'incontro con i genitori. Tornato in sé il Santo concepì "un totale disprezzo per le cose del mondo".
Dalla vita di San Nilo si ricavano numerose notizie intorno a San Fantino. Un particolare affetto, ispirato dalla santità e dalla carità fraterna, legava San Fantino a San Nilo, dal quale era corrisposto con filiale amorevolezza. Sembrava di vedere in essi la medesima unione di spirito che aveva unito gli apostoli Pietro e Paolo e i santi Basilio e Giorgio. Spesso insieme essi commentavano ai monaci la Sacra Scrittura.
San Fantino, avendo sentito che San Nilo era affetto da un grave male alla gola, si recò nella sua grotta per visitarlo e lo persuase a seguirlo nel monastero per prestargli le cure necessarie. Un altro giorno San Nilo, essendo molto sofferente per le percosse che gli erano state inflitte dal demonio e che gli avevano procurato le paralisi del lato destro del corpo, fu invitato da San Fantino a leggere durante la veglia notturna che precedeva la festa degli apostoli Pietro e Paolo l'elogio in versi scritto in loro onore da San Giovanni Damasceno. Durante la lettura il malore andò scemando a poco a poco fino a scomparire.
Un giorno San Fantino comunicò a San Nilo una sua visione. Aveva visto i monasteri in rovina trasformati in "luride abitazioni di giumenti" e bruciati dal fuoco e i libri gettati nell'acqua e resi inservibili. Il Santo intravide in quella visione la futura sorte dei monasteri che avrebbero subito la distruzione non solo per le incursioni dei Saraceni, ma anche per "il generale decadimento della virtù ed il rilassamento della disciplina".
Il Santo, rispondendo ad una ispirazione che lo spingeva a lasciare la Calabria, all'età di sessant'anni con i discepoli Vitale e Niceforo s'imbarcò alla volta della Grecia. Durante il viaggio, venuta a mancare l'acqua per i passeggeri, il Santo fece riempire tutti i recipienti d'acqua marina, che a un segno di Croce fu trasformata in acqua potabile.
Raggiunta Corinto, si recò ad Atene per visitare il tempio della Madre di Dio. Si mosse quindi verso Larissa, dove dimorò a lungo presso il sepolcro del martire Sant'Achille. Trasferitosi a Tessalonica abitò per quattro mesi nel monastero del santo martire Mena. Lasciato quel cenobio andò ad abitare fuori le mura della città.
A Tessalonica il Santo, dopo aver recitato "la straordinaria preghiera di Filippo di Agira", guarì prodigiosamente un malato di nome Antipa. un giorno, mentre si recava al tempio della santa martire Anisia, s'imbattè nei santi monaci dell'Athos Atanasio e Paolo, che illuminavano "le solitudini come un faro" e rese gloria a Dio per quell'incontro. A Tessalonica indusse pure al pentimento un giudice che angariava la popolazione per avidità del denaro e un personaggio che occupava la carica più alta della città e compiva dei soprusi nei confronti di una vedova indifesa e di un orfano.
San Fantino operò a Tessalonica alcuni prodigi e grandi opere di carità. Una donna fu guarita con della terra cosparsa sugli occhi malati. Un uomo afflitto da cefalea e da mal di denti ottenne d'improvviso la guarigione. Un moribondo ritornò in perfetta salute dopo un bacio datogli dal Santo. Una filatrice che doveva a un tale "molte monete d'oro" per suo mezzo ebbe condonata parte del debito. A una povera vecchia che gli chiedeva qualche spicciolo diede la sua tunica. Predisse l'insuccesso di una tribù di Bulgari che si preparavano a fare razzia nella regione. Due fratelli, "gonfi di veleno e d'inimicizia", furono rappacificati. Fu indotto al pentimento un pentolaio che da sette anni "nutriva un'inimicizia implacabile nei riguardi di suo figlio".
Il Santo, ridotto orma in fin di vita, fu visitato dai monaci Simone e Fozio, ai quali rivelò che Pietro Sclero stava scrivendo un libro per appropriarsi dell'autorità con la ribellione, ignorando la fine alla quale andava incontro.
San Fantino morì intorno all'anno 1000, dopo avere abbracciato e benedetto i monaci che lo assistevano e fu sepolto con grande solennità nel luogo da lui prescelto. La biografia del Santo si chiude con una serie di miracoli da lui compiuti dopo la morte.







Tratto da
https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=1955867467843420&id=100002605583903&__tn__=K-R

Nato in Calabria nel 927, in una località che viene descritta come “molto vicina alla Sicilia” (probabilmente nella Vallis salinoroum nell'attuale provincia di Reggio Calabria) era figlio di Giorgio e Vriena, due ricchi possidenti molto pii, e fu consacrato a Dio durante la sua infanzia, entrando in monastero all'età di otto anni; la sua educazione fu curata da Sant'Elia Speleota. Divenne monaco all'età di tredici anni, dimostrandosi pieno di fervore e di virtù, ed ebbe gli incarichi di cuoco e di portinaio. A trentatré anni si diede all'eremitaggio nella regione del Mercurion dedicandosi alla preghiera e alla penitenza e lottando contro le tentazioni del Diavolo.
Ritornato alla vita cenobitica creò molti monasteri, tra cui almeno uno femminile, che accolsero i suoi genitori, i fratelli Luca e Cosma e la sorella Caterina. Volendo ritornare alla vita eremitica lasciò la carica di abate del monastero più importante al fratello Luca. Anche se viveva tra i boschi selvaggi ritornava tra la gente per insegnare ai suoi discepoli. Il santo ebbe spesso delle visioni del Paradiso e dell'Inferno e compì vari miracoli. Fantino visse sia come eremita che come monaco e abate. Pur essendo un eremita ritornava dai boschi per essere guida e insegnante spirituale dei suoi discepoli, tra i quali vi furono Nilo da Rossano e Nicodemo da Mammola.
All'età di sessant'anni, si trasferì nel Peloponneso con i suoi discepoli Vitalio e Niceforo. Durante la traversata la nave su cui si trovava rimase senza acqua potabile; per questo motivo Fantino trasformò l'acqua di mare contenuta in alcuni contenitori facendo su di essi il segno della croce.Visse quindi per un certo tempo a Corinto passando poi ad Atene dove visitò il tempio della Madre di Dio e recandosi a Larissa dove sostò presso la tomba del santo vescovo Achillio operando vari miracoli in tutte e tre le località. In ultimo si recò a Tessalonica, dove visse quattro mesi in un monastero dedicato a San Mena spostandosi in seguito fuori le mura della città. A Tessalonica egli guarì molte persone e causò il pentimento di un giudice corrotto; gli fu anche riconosciuto il merito di aver impedito la conquista della città da parte dei Bulgari. Secondo la tradizione morì il 30 agosto dell'anno 1000 dopo otto anni di predicazione.




Tratto da
http://www.ortodoxia.it/San_Fantino_il_Giovane.html
Di San Fantino non si conosce con precisione né il luogo di nascita, né la data di nascita. Ma dall’agiografo che ha vissuto a fianco del santo calabrese per grandi approssimazioni si può ricavare che Fantino nacque in una terra vicinissima alla Sicilia e non lontana da Roma. Presumibilmente, Fantino nacque nella zona di Mesa, a Nord di Reggio Calabria e ciò lo si può dedurre dal nome della madre, Vriena, che è il nome della madre di Santa Febronìa, a cui venne dedicato un monastero femminile, proprio nel territorio di Mesa. Fantino, all’età di otto anni, fu affidato dai genitori a Sant’Elia lo Speleota di Melicuccà (RC), questo è un ulteriore dato che fa propendere per la sua nascita nella Calabria meridionale. All’incirca visse tra il primo decennio ed il penultimo decennio del decimo secolo. La sua vita monastica iniziò sotto la guida spirituale di Sant’Elia lo Speleota, la cui fama giunse sino a Roma. Il grande Elia era diviso dalla necessità di guidare i confratelli e dal desiderio di ritirarsi per contemplare l’immensità di Dio. Infatti, egli si recava presso il monastero solo il sabato e la domenica, stando il resto dei giorni immerso nella contemplazione. Quindi, Sant’Elia assegnò a Fantino la mansione di cuoco del monastero ed egli serviva i suoi confratelli come molto amore ed al contempo iniziò una dura ascesi spirituale praticando lunghi digiuni, che nel tempo divennero totale astensione da qualsiasi cibo e bevanda. Percorrendo le orme del padre spirituale, Fantino, in special modo nel periodo calabrese, praticò una durissima lotta spirituale, quasi aggressiva, tale era la tenacia con cui si purificava. Essa pian piano maturò in un amore sconfinato verso il prossimo, che andava oltre i limiti e la convenienza umana, arricchita dal carisma delle guarigioni, questa maturazione spirituale contrassegnò, essenzialmente, la sua esperienza tessalonicese ove ne trassero grande giovamento i poveri ed i malati. Con riferimento all’esperienza calabrese, Fantino lasciò il monastero di Sant’Elia a trent’anni. Da tale momento si ritirò in una solitudine assoluta in cui come compagni ebbe la violenza del demonio, del freddo e della fame. L’agiografo narra un episodio in cui il santo dovette contendersi due pere selvatiche con dei cinghiali oppure l’abito monastico totalmente consunto, che costrinse il santo a correre sulla spiaggia per riscaldarsi, sino a che trovò un po’ di lino per coprirsi lasciato da un tessitore, ma, essendo insufficiente cadde in deliquio per il freddo e si svegliò solo perché sentì i topi che lo rosicchiavano. Fantino condusse tale vita per diciotto anni, sino a quando un cacciatore lo trovò e così i suoi parenti poterono andare a trovarlo, ma essi raggiunto il santo con la motivazione di dissuaderlo dalla suddetta vita, invece, lo seguirono come suoi discepoli. Ben presto la fama di Fantino raggiunse i territori circostanti e molti giovani chiesero di poter essere suoi discepoli. Egli l’istruì nella fede con amore e li mandò a popolare le aspre terre del Mercurion, ove i monasteri strapparono il territorio sino a quel momento infestato dai diavoli. La gestione di questi monasteri la affidò a suo fratello Luca. Il desiderio della vita eremitica lo divorava, tanto che vestito di una tunica di pelli di capra scappò dal monastero nottetempo e giunse in un paese (Mercure?) ove fu scambiato per una spia e rinchiuso in cella, qui assalito dagli insetti, si difendeva raschiandosi con dei cocci. Ormai, il diavolo capì che l’ardore religioso di Fantino era inattaccabile e sconfitto si allontanò, la gente riconobbe l’errore e vennero perdonati con la benedizione dell’asceta. Ritornò a vivere nel monastero: mangiando verdure crude e pane secco, dormendo per terra e per le domeniche e le festività pregava incessantemente in piedi dall’ora nona (tre del pomeriggio) sino alla Divina liturgia (mattino seguente). Un giorno decise di recarsi in pellegrinaggio al Monte Gargano ove apparve San Michele Arcangelo ed il pellegrinaggio durò diciotto giorni di cammino costante, mangiando, praticamente quasi nulla. Ed anche lì attese l’inizio della Divina liturgia incessantemente in piedi. Il periodo calabrese si conclude con una visione che radicalizza la vita del santo. Una visione che apparentemente affronta temi differenti, ma che in realtà si completano, in quanto nella vita di San Fantino, tale visione contrappone alla dannazione dell’inferno la beatitudine dei santi. Mentre nella vita di San Nilo, viene riportata tale medesima visione, la quale riguardò in particolar modo la desolazione dei monasteri, chiese e biblioteche greco-ortodosse, evidentemente la visione si rifà alla situazione attuale. Quindi le due versioni toccano temi simili. A causa di tale visione, i confratelli di Fantino gli diedero del pazzo, al punto che dovette intervenire San Nilo, già stimato asceta, ad ammonirli. Grazie a tale intervento, il santo calabrese ebbe un breve periodo di sollievo. In seguito, Fantino scappò sulle montagne ed ogni volta che veniva ripreso con la forza dai confratelli, egli cercava l’attimo opportuno per scappare nuovamente. In tale periodo, Fantino ebbe un’ulteriore visione che gli suggerì di lasciare la Calabria per Tessalonica, ove si recò con due discepoli, Vitale e Niceforo, quest’ultimo è San Niceforo il nudo, che proseguì il suo cammino sino al Monte Athos sotto la guida spirituale di Sant’Atanasio, che ne smussò la durezza della lotta spirituale sino a quel momento insegnatagli da Fantino, il quale si incontrò con Sant’Atanasio ed il suo compagno Paolo proprio a Tessalonica, ove si scambiarono fraterni saluti. L’esperienza tessalonicese, come già anticipato, si connotò per lo smisurato amore con cui il santo si relazionava con il prossimo anche se all’inizio ancora vi furono elementi tipici della sua fierezza, come nel caso in cui Fantino sanò un uomo che aveva il mal di denti con uno schiaffo. Ma ben presto questi connotati, furono persi per sempre, sostituiti da un amore viscerale per il prossimo. Una volta per saldare il debito che una filatrice aveva con dei creditori, Fantino si finse suo debitore facendosi trascinare tirato da una corda attaccata al collo davanti ai potenti del paese ottenne l’estinzione del debito. Oppure in un periodo di intenso freddo, Fantino diede la sua tunica, tutto ciò che aveva, ad una donna che gliela chiese. Ed ancora, dopo la sua dormizione che avvenne in un monastero di Tessalonica, ancora inebriato dalla forte fragranza che accompagnò il trapasso del santo, la quale avvenne all’età di 73 anni. Fantino sanò un sacerdote iconografo mandato da Costantinopoli a dipingere la sua icona, egli era idropico ed il santo gli apparve e stette due notti in posa, affinché l’iconografo, dopo esser stato guarito, poté dipingerlo. Alcuni testi indicano che fu dedicata a Tessalonica una chiesa a San Fantino e che vi sia una sua icona. Ma ad oggi, non vi sono documentazioni certe.
Per le preghiere di San Fantino, Signore Gesù Cristo, Dio nostro, abbi misericordia di noi. Amìn!


San Fantino il Nuovo di Calabria, Taumaturgo di Salonicco
Tratto da https://www.johnsanidopoulos.com/2016/08/saint-phantinos-younger-of-calabria.html
Traduzione a cura di Giovanni Fumusa


 http://www.ortodossia.it/w/index.php?option=com_content&view=article&id=5495:30-08-san-fantino-il-nuovo-di-calabria-taumaturgo-di-salonicco&catid=190:agosto&lang=it

 San Fantino era originario della Calabria e nacque nell’anno 902. Suo padre si chiamava Giorgio e sua madre era Vryeni. Fin dall’infanzia, si dedicò a Dio e, quando raggiunse gli 8 anni di età, entrò nel monastero di Sant’Elia e divenne suo discepolo. Lì intraprese lo sforzo nell’acquisizione delle virtù. Fu tonsurato monaco e servì in qualità di cuoco del monastero. Sebbene fosse continuamente circondato dal cibo, nel suo secondo anno di vita monastica, mangiava verdure e legumi crudi e soltanto una volta a settimana. Avendo sopraffatto la gola ed essendosi del tutto purificato dalle sue passioni, fu elevato a servire come ecclesiarca.
Dopo vent’anni di obbedienza in monastero, successivamente al riposo di Sant’Elia, Fantino fu reso degno del dono del discernimento e delle divine rivelazioni e decise di vivere una vita da eremita in Lucania, nell’Italia Meridionale. Lì il diavolo tentò di intimorirlo ed allontanarlo da quel luogo con rumori e serpenti, e persino assumendo l’aspetto dei suoi genitori, ma Fantino rimase indifferente, facendo svanire le sue tentazioni con il segno della Croce. Lì continuò a lottare tra fame e privazioni, al punto che i suoi vestiti si consumarono rimanendo nudo anche durante l’inverno, cosa che lo portò quasi a morire congelato. Lottò in questo modo per diciotto anni.
Un giorno alcuni cacciatori giunsero al luogo in cui Fantino lottava in ascesi e lo riconobbero. Tornarono indietro e lo raccontarono ai suoi genitori che andarono a trovarlo e lì si incontrarono in lacrime. Fantino dunque li convinse ad abbracciare la vita monastica e, dopo aver distribuito i propri averi ai poveri, i due genitori si unirono al figlio. Fantino costruì quindi un monastero per la madre e la sorella e, a un po’ di distanza da questo, un altro monastero per suo padre e per i suoi fratelli Luca e Cosmas e divenne, in quella vita solitaria, il padre spirituale di tutti loro. Ma ben presto le montagne divennero come le città per il gran numero di seguaci che attirava e ciò, ogni tanto, lo portò a cercare la solitudine, tornando poi al suo monastero per guidare i fratelli.
Quando raggiunse l’età di 60 anni, su rivelazione divina, partì per Salonicco a causa di una imminente invasione di Saraceni al fine d’ispirare il popolo ad una vita di virtù. Quindi partì per la Grecia con due suoi discepoli, Vitale e Niceforo. Passò da Corinto, Atene e Larissa, dove rimase per qualche tempo presso la tomba di Sant’Achilleo, e giunse infine a Salonicco. Lì affrontò molte difficoltà, ma compì anche molti miracoli e annunciò varie profezie. Dopo aver trascorso otto anni in quel luogo, riposò in pace nell’anno 974 all’età di 73 anni. E subito dopo il suo riposo continuò a compiere molti miracoli.
Apolytikion, Tono Primo
Vanto della Calabria e gran sole dei monaci, protettore di Salonicco, sei apparso come divinamente ispirato o Padre, prendendo la croce da bambino, hai cercato Dio o Fantino, e ritirandoti meravigliosamente ti sei arricchito col dono della taumaturgia: Gloria a Cristo che ti ha sigillato, gloria a Colui che ti ha reso miracoloso, gloria a Colui che ci ha donato te come mediatore e maestro.
Kontakion, Tono Terzo
Fin dal grembo, o Santo, fosti dedicato a Dio e, per Lui come precursore, Lo lodasti con inni ancor prima di nascere; partisti dalla tua patria, dalla famiglia e dagli amici ed illuminasti divinamente molti dall’errore con la tua straordinariamente grande ascesi ed i tuoi miracoli, venerabile Fantino.
Megalynarion
Come germoglio della Calabria santificasti tutta la Grecia, o Fantino taumaturgo, con la grazia del Signore e con la tua ascesi e riposi a Salonicco.