venerdì 31 agosto 2018

31 agosto Santi Italici ed italo greci



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San Cesidio e i suoi compagni martiri a Trasacco 



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http://www.santiebeati.it/dettaglio/91135

E' un santo della regione dei Marsi, martirizzato con molti altri cristiani a Trasacco (AQ) presso il lago Fucino, durante la persecuzione di Massimino (235-237). Secondo un’antica ‘passio’ composta verso la fine del sec. IX, si racconta che nella
città di Amaria (nel Ponto), durante l’impero di Domnino (secondo altri fontidi
Massimino), scoppiò una persecuzione contro i cristiani; Rufino e Cesidio suo figlio,
furono scoperti e imprigionati, il proconsole Andrea li sottopose a tormenti inviando nel carcere anche due meretrici per tentare i cristiani, ma essi superando le prove, ottennero invece la conversione di molti pagani, compreso lo stesso Andrea.
Una volta liberati Rufino e Cesidio, si trasferirono in Italia, nella regione dei Marsi, facendo apostolato; dopo un certo tempo Rufino si spostò ad Assisi, mentre il figlio rimase a Trasacco. Dopo alterne vicende Rufino divenuto 1° vescovo di Assisi e poi patrono della città, fu
martirizzato lì vicino. Cesidio trafugò il suo corpo portandolo a Trasacco, questo gesto segnò la sua condanna, infatti il magistrato romano ordinò la sua morte; fu ucciso mentre celebrava la Messa insieme a Placido ed Eutichio.
Gli studiosi affermano che la storia della vita e martirio dei santi Rufino e Cesidio è frutto della necessità presentatasi nel secolo IX di giustificare la presenza di antiche chiese, già esistenti a Trasacco e nella regione, dedicate separatamente ai due santi, distrutte poi dagli Ungari.
Questo spiega il culto esistente verso i due santi, che gli agiografi antichi finirono per considerare parenti, come di solito si tendeva a considerare i personaggi i cui santuari erano ravvicinati. Ad ogni modo tutti gli ‘Atti’ hanno sempre classificato Cesidio come prete, morto martire a Trasacco.
Il Martirologio Romano lo riporta insieme ai due compagni al 31 agosto.



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http://www.diocesisora.it/pdigitale/vita-dei-santi-cesidio-e-rufino-e-compagni-martiri-di-trasacco-dettata-da-abate-muzio-febonio-editoriale-eco-teramo-2014-pp-67/



La Passio dei santi Cesidio e Rufino, oggetto di ristampa nel 2014 da parte del parroco di Trasacco don Francesco Grassi, riunisce al suo interno interessanti spunti di riflessione per la conoscenza agiografica del nostro territorio e costituiscono un’ulteriore conferma di come gli studi agiografici possano offrire anzitutto un esempio affinato e molto efficace di metodologia storica e di innovazione storiografica. In quest’ultimi anni, grazie al lavoro di alcuni studiosi dell’Università degli Studi di Roma Tre, la storia della santità e della religiosità in genere, è stata liberata dalle prospettive anguste e spesso apologetiche nella quale era stata relegata, facendone emergere all’opposto la notevole potenzialità conoscitiva ed interpretativa. Nel suo insieme il lavoro che presentiamo si inserisce appieno in questo nuovo ambito disciplinare ancora poco esplorato dagli studiosi locali della nostra Diocesi. La Passio “marsicana” dei santi Cesidio e Rufino era stata già analizzata dalle pubblicazioni di Evaristo Angelini (Rufino e Cesidio, Pero dei Santi, 1987) e Stefania Mezzazappa (Cesidio e Rufino martiri: tracce archeologiche del culto, in: Baronio e le sue fonti, Sora, 2009). Francesco Grassi, presentando nuovamente tale lavoro, induce il lettore ad indossare gli abiti dell’ottica interpretativa agiografica. Non entrando nel merito dell’attendibilità storica, o meglio agiologica, della Passio proposta, l’elemento di maggiore interesse del testo è quello degli interscambi che intercorrono tra il culto dei santi abruzzesi e il territorio della nostra Diocesi. Il primo elemento di contatto è la particolare devozione che il cardinale sorano Cesare Baronio nutrì nei confronti di questi due martiri, che lo spinse nel 1581 ad inserire i loro nomi nel Martirologio Romano (la madre del Baronio, Porzia Febonio, era originaria di Trasacco). Il secondo elemento, di carattere prettamente antropologico, lo ritroviamo a San Donato Val di Comino la cui devozione verso san Cesidio, nel corso del tempo si esplicava in due forme di pietà popolare: la processione del santo assieme a santa Costanza l’ultima domenica di agosto; e il tradizionale pellegrinaggio a piedi da San Donato a Trasacco, 43 kilometri di tragitto tra montagna e pianura, iniziato in tempi passati e ripristinato da alcuni anni. Contemporaneamente al cammino vi era anche il percorso con i carretti, in seguito sostituito con le auto prima e con i pullman poi. Infine non si può dimenticare che la festa di S. Caesidii M. (dup.) è presente alla data del 31 agosto nei due Officia Propria Sanctorum della Diocesi di Sora-Aquino-Pontecorvo del vescovo Giuseppe Montieri (1850), ed Ignazio Persico (1886).





























Santo Primiano martire a Spoleto



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l’articolo ha come titolo “IL DUOMO DI SPOLETO Delle origini, secondo i documenti.





Incominciamo dal confessare che di S. Primiano Martire, primitivo titolare, secondo alcuni scrittori, del Duomo di Spoleto, sappiamo poco o nulla.

Bernardino di Campello nel suo volume a stampa Delle Historie di Spoleti, lib. sesto, pag. 176 (Spoleti, Ricci, 1672), narra che Primiano
«nato in Ancona, e quindi venuto a Spoleti vi fu preso per la confessione della fede di Christo, e dopo haver tollerato virilmente i tormenti dell’Equuleo, la crudeltà degli uncini di ferro, e l’incendio delle accese fiaccole, finalmente perseverando nella costanza della fede, fu nella stessa Città di Spoleti dicapitato l’ultimo giorno di Agosto per gli anni 307 dell’humana salute. Et essendo il suo Corpo restato abbandonato, fu sepolto furtivamente dentro della Città quasi su ’l Muro in parte all’hora discoscesa, et impraticabile; dove poi, procedendo i tempi, e prosperata la Chiesa, si edificò la Ducal Basilica di S. Maria, che è oggi la Chiesa Pontificale il Choro della quale, fino al nostro tempo chiamato Tribuna di S. Primiano, con la memoria del suo antico Sepolcro conserva anche quello del nome del medesimo, con perpetua ricordanza di lui nei sacri Ufici, che vi si celebrano, quantunque il Corpo trasportatone alla Città di Ancona in tempo e con occasione, che non sappiamo, ivi al presente nella chiesa del suo proprio titolo si conservi.» E in una nota, pag. 194, lo stesso Autore dichiara di aver tolte quelle notizie dalla Vita di S. Primiano «che attesta haver veduta fra gli antichi monumenti dell’Archivio della chiesa Spoletina, la citazione di un’antica Vita manoscritta esistente nell’Archivio della Cattedrale di Ancona8.
Esaminando ponderatamente ciò che di S. Primiano ci hanno lasciato scritto gli storici spoletini e anconetani11, questo parrebbe risultare: che il S. Primiano di Spoleto nulla abbia a vedere col S. Primiano di Ancona, il quale fu Vescovo e non Martire, mentre Martire e non Vescovo sarebbe stato quello di Spoleto. Del Primiano spoletino è asserito il martirio, sulla fede, come abbiamo visto, di antiche fonti, nei primi anni del IV secolo: dell’altro, nulla si sa, tranne che fu Vescovo e Greco, secondo l’iscrizione incisa nella tavola di marmo che chiudeva il loculo in cui erano state nascoste le sue ossa; iscrizione e loculo scoperti nel 137311.
Ma, senza entrare nella discussione, del resto per noi inutile, di tanto incerta materia, questo non è dubbio: che, cioè, la memoria di un Martire, di nome Primiano, abbia avuto realmente culto assai antico presso il Duomo di Spoleto.

giovedì 30 agosto 2018

30 AGOSTO SANTI ITALICI ED ITALO GRECI


Santa Gaudenzia  asceta e martire a Roma



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http://www.santiebeati.it/dettaglio/92900



Nel Martirologio Geronimiano il 30 agosto è riportata, dopo alcuni martiri romani, questa lezione: "Gaudentiae virginis et aliorum trium". Questa menzione è l'unica notazione antica che si possiede di Gaudenzia. Alcuni critici ritengono che non si tratti di una martire romana, ma di un'errata trascrizione di copisti per cui Gaudenzia dovrebbe essere identificata con la martire romana Candida, ricordata dal Geronimiano il 29 agosto. Affermazione tuttavia non sufficientemente provata.



Santo Pammachio senatore romano che fonda a Roma un ospedale e ricovero per i poveri e per i più bisognosi e testimonia la retta fede versus et contra l’eresia donatista



Martirologio Romano: A Roma, commemorazione di san Pammachio senatore, uomo insigne per lo zelo nella fede e per la generosità verso i poveri, alla cui pietà verso Dio si deve la costruzione della basilica recante il suo titolo sul colle Celio.



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http://www.treccani.it/enciclopedia/santo-pammachio/
Pammàchio (lat. Pammachius), santo. - Senatore romano (m. 409), cugino di s. Marcella, discepolo di s. Girolamo. Mortagli nel 397 la moglie (Paolina figlia di s. Paola), vestì l'abito monastico (continuando le sue mansioni senatorie) e si dedicò a opere di beneficenza: il suo nome è infatti legato all'istituzione (398) dello xenodochio di Porto (presso Ostia) e alla fondazione della basilica sull'antico titolo di Bizante al Celio (titulus Pammachii). Il suo nome ricorre spesso nell'epistolario di s. Girolamo, che P. sollecitò perché traducesse il Περί ἀρχῶν ("Sui principî") di Origene e intervenisse nella questione di Gioviniano (contro il quale però non condivise la violenta reazione di Girolamo). Festa, nel Martirologio romano, 30 agosto.
















Santo Fantino il Giovane Monaco del quale si ricorda al 30 agosto probabilmente la traslazione delle reliquie  mentre Nel Sinassario di Costantinopoli la memoria liturgica  del Santo ricorre il 14 novembre.



Consultare e leggere  dal libro di Antonio Monaco, Ombre della storia. Santi dell’Italia Ortodossa – Asterios Editore – 2005 – pagg. 185/198

In conclusione Antonio Monaco così scrive

“La memoria del santo ricorre al 14 novembre; poiché nello stesso giorno l’ortodossa Chiesa cattolica esalta il vanto di Tessalonica, il santissimo pontefice Gregorio il Palamas, Fantino è celebrato al 30 agosto (data che forse ricorda qualche traslazione delle reliquie).”



Il testo intero delle pagine citate dal libro di Antonio Monaco sta in

http://www.ortodossia.it/w/index.php?option=com_content&view=article&id=3652:30-08-memoria-di-san-fantino-il-nuovo&catid=190:agosto&lang=it










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http://www.santiebeati.it/dettaglio/90673



San Fantino il Giovane nacque in una località della Calabria "vicinissima alla Sicilia" nel 927 da Giorgio e Vriena, ricchi possidenti dotati di grandi virtù. Secondo la consuetudine del tempo il bambino fu offerto al Signore nella chiesa di San Fantino il Vecchio e all'età di otto anni fu affidato a Sant'Elia lo Speleota nella grotta di Melicuccà per essere avviato alla vita monastica. Dopo aver seguito per cinque anni gl'insegnamenti di Sant'Elia, ricevette da lui l'abito dei novizi e rimase a Melicuccà per vent'anni, fino alla morte del Santo, esercitando prima l'umile incarico di cuoco e poi quello della custodia della chiesa.
Trasferitosi nella regione del Mercurion trascorse diciotto anni di vita eremitica dedicandosi alla preghiera e alla penitenza e lottando contro le frequenti insidie del demonio. Dopo il lungo tempo passato in solitudine ritornò alla vita cenobitica e fondò un monastero femminile nel quale furono accolte la madre e la sorella Caterina. Seguì la fondazione di monasteri maschili, in uno dei quali trovarono accoglienza il padre e i fratelli Luca e Cosma.
Sentendo vivo il desiderio di un ritorno alla vita eremitica lasciò il fratello Luca la direzione del monastero più grande e si ritirò in un luogo solitario e selvaggio. Dalla nuova dimora di tanto in tanto si recava a visitare i nuovi discepoli, fra i quali vi erano i monaci Giovanni, Zaccaria, Nicodemo e Nilo, e trascorreva parte del suo tempo nel trascrivere codici.
Ripresa la vita cenobitica il Santo continuò a vivere nello spirito della penitenza. Trascorreva lungo tempo senza prendere cibo ed era spesso in estasi.
Ad opera del Santo avvennero alcuni fatti prodigiosi. Un'orsa che devastava gli alveari del monastero fu allontanata definitivamente col solo cenno della mano. All'invocazione del suo nome zampillò d'improvviso un getto d'acqua abbondantissimo per dissetare dei monaci, i quali affaticati andavano in cerca di alcune mule che si erano allontanate dal pascolo.
Il Santo, "poiché la gente in massa affluiva a lui di continuo, al pari di uno sciame, e non gli permetteva di godere senza disturbo il bene della solitudine", si recò al santuario di San Michele al Gargano.
Una notte, dopo la recita dell'ufficio, ebbe una terribile visione che non volle comunicare ai suoi monaci perché erano "cose assolutamente indescrivibili". Poi "gettato via il saio se ne andò nudo per i monti", dove "prese a star senza bere, senza mangiare e senza alcun vestito perfino per venti giorni di seguito". Continuando a vivere in solitudine e in penitenza " si nutrì per quattro anni di erbe selvatiche e di niente altro". Quando i monaci lo rintracciarono e lo trassero a forza al monastero riprese a ritornare "là dove si aggirava prima, preferendo le fiere agli uomini".
Nel monastero San Fantino fu visitato da San Nilo, il quale raccontò una visione di angeli risplendenti e di demoni, "fitti più di sciami di api", che lo riempirono "di timore e di orrore". Infine, trasportato "in una regione risplendente di luce", sentì "echeggiare un inno ineffabile, incessante, di cui non ci si può saziare" e vide sfavillare "un fuoco straordinario", che lo riempì "di divino furore". Seguì la vista dell'inferno, "luogo pieno di fumo maleodorante, privo di luce", popolato di dannati che "sospiravano dal profondo con infiniti lamenti". Trasportato poi "in un luogo splendente ed eterno" ebbe la visione dei beati e l'incontro con i genitori. Tornato in sé il Santo concepì "un totale disprezzo per le cose del mondo".
Dalla vita di San Nilo si ricavano numerose notizie intorno a San Fantino. Un particolare affetto, ispirato dalla santità e dalla carità fraterna, legava San Fantino a San Nilo, dal quale era corrisposto con filiale amorevolezza. Sembrava di vedere in essi la medesima unione di spirito che aveva unito gli apostoli Pietro e Paolo e i santi Basilio e Giorgio. Spesso insieme essi commentavano ai monaci la Sacra Scrittura.
San Fantino, avendo sentito che San Nilo era affetto da un grave male alla gola, si recò nella sua grotta per visitarlo e lo persuase a seguirlo nel monastero per prestargli le cure necessarie. Un altro giorno San Nilo, essendo molto sofferente per le percosse che gli erano state inflitte dal demonio e che gli avevano procurato le paralisi del lato destro del corpo, fu invitato da San Fantino a leggere durante la veglia notturna che precedeva la festa degli apostoli Pietro e Paolo l'elogio in versi scritto in loro onore da San Giovanni Damasceno. Durante la lettura il malore andò scemando a poco a poco fino a scomparire.
Un giorno San Fantino comunicò a San Nilo una sua visione. Aveva visto i monasteri in rovina trasformati in "luride abitazioni di giumenti" e bruciati dal fuoco e i libri gettati nell'acqua e resi inservibili. Il Santo intravide in quella visione la futura sorte dei monasteri che avrebbero subito la distruzione non solo per le incursioni dei Saraceni, ma anche per "il generale decadimento della virtù ed il rilassamento della disciplina".
Il Santo, rispondendo ad una ispirazione che lo spingeva a lasciare la Calabria, all'età di sessant'anni con i discepoli Vitale e Niceforo s'imbarcò alla volta della Grecia. Durante il viaggio, venuta a mancare l'acqua per i passeggeri, il Santo fece riempire tutti i recipienti d'acqua marina, che a un segno di Croce fu trasformata in acqua potabile.
Raggiunta Corinto, si recò ad Atene per visitare il tempio della Madre di Dio. Si mosse quindi verso Larissa, dove dimorò a lungo presso il sepolcro del martire Sant'Achille. Trasferitosi a Tessalonica abitò per quattro mesi nel monastero del santo martire Mena. Lasciato quel cenobio andò ad abitare fuori le mura della città.
A Tessalonica il Santo, dopo aver recitato "la straordinaria preghiera di Filippo di Agira", guarì prodigiosamente un malato di nome Antipa. un giorno, mentre si recava al tempio della santa martire Anisia, s'imbattè nei santi monaci dell'Athos Atanasio e Paolo, che illuminavano "le solitudini come un faro" e rese gloria a Dio per quell'incontro. A Tessalonica indusse pure al pentimento un giudice che angariava la popolazione per avidità del denaro e un personaggio che occupava la carica più alta della città e compiva dei soprusi nei confronti di una vedova indifesa e di un orfano.
San Fantino operò a Tessalonica alcuni prodigi e grandi opere di carità. Una donna fu guarita con della terra cosparsa sugli occhi malati. Un uomo afflitto da cefalea e da mal di denti ottenne d'improvviso la guarigione. Un moribondo ritornò in perfetta salute dopo un bacio datogli dal Santo. Una filatrice che doveva a un tale "molte monete d'oro" per suo mezzo ebbe condonata parte del debito. A una povera vecchia che gli chiedeva qualche spicciolo diede la sua tunica. Predisse l'insuccesso di una tribù di Bulgari che si preparavano a fare razzia nella regione. Due fratelli, "gonfi di veleno e d'inimicizia", furono rappacificati. Fu indotto al pentimento un pentolaio che da sette anni "nutriva un'inimicizia implacabile nei riguardi di suo figlio".
Il Santo, ridotto orma in fin di vita, fu visitato dai monaci Simone e Fozio, ai quali rivelò che Pietro Sclero stava scrivendo un libro per appropriarsi dell'autorità con la ribellione, ignorando la fine alla quale andava incontro.
San Fantino morì intorno all'anno 1000, dopo avere abbracciato e benedetto i monaci che lo assistevano e fu sepolto con grande solennità nel luogo da lui prescelto. La biografia del Santo si chiude con una serie di miracoli da lui compiuti dopo la morte.












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Nato in Calabria nel 927, in una località che viene descritta come “molto vicina alla Sicilia” (probabilmente nella Vallis salinoroum nell'attuale provincia di Reggio Calabria) era figlio di Giorgio e Vriena, due ricchi possidenti molto pii, e fu consacrato a Dio durante la sua infanzia, entrando in monastero all'età di otto anni; la sua educazione fu curata da Sant'Elia Speleota. Divenne monaco all'età di tredici anni, dimostrandosi pieno di fervore e di virtù, ed ebbe gli incarichi di cuoco e di portinaio. A trentatré anni si diede all'eremitaggio nella regione del Mercurion dedicandosi alla preghiera e alla penitenza e lottando contro le tentazioni del Diavolo.
Ritornato alla vita cenobitica creò molti monasteri, tra cui almeno uno femminile, che accolsero i suoi genitori, i fratelli Luca e Cosma e la sorella Caterina. Volendo ritornare alla vita eremitica lasciò la carica di abate del monastero più importante al fratello Luca. Anche se viveva tra i boschi selvaggi ritornava tra la gente per insegnare ai suoi discepoli. Il santo ebbe spesso delle visioni del Paradiso e dell'Inferno e compì vari miracoli. Fantino visse sia come eremita che come monaco e abate. Pur essendo un eremita ritornava dai boschi per essere guida e insegnante spirituale dei suoi discepoli, tra i quali vi furono Nilo da Rossano e Nicodemo da Mammola.
All'età di sessant'anni, si trasferì nel Peloponneso con i suoi discepoli Vitalio e Niceforo. Durante la traversata la nave su cui si trovava rimase senza acqua potabile; per questo motivo Fantino trasformò l'acqua di mare contenuta in alcuni contenitori facendo su di essi il segno della croce.Visse quindi per un certo tempo a Corinto passando poi ad Atene dove visitò il tempio della Madre di Dio e recandosi a Larissa dove sostò presso la tomba del santo vescovo Achillio operando vari miracoli in tutte e tre le località. In ultimo si recò a Tessalonica, dove visse quattro mesi in un monastero dedicato a San Mena spostandosi in seguito fuori le mura della città. A Tessalonica egli guarì molte persone e causò il pentimento di un giudice corrotto; gli fu anche riconosciuto il merito di aver impedito la conquista della città da parte dei Bulgari. Secondo la tradizione morì il 30 agosto dell'anno 1000 dopo otto anni di predicazione.









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http://www.ortodoxia.it/San_Fantino_il_Giovane.html

Di San Fantino non si conosce con precisione né il luogo di nascita, né la data di nascita. Ma dall’agiografo che ha vissuto a fianco del santo calabrese per grandi approssimazioni si può ricavare che Fantino nacque in una terra vicinissima alla Sicilia e non lontana da Roma. Presumibilmente, Fantino nacque nella zona di Mesa, a Nord di Reggio Calabria e ciò lo si può dedurre dal nome della madre, Vriena, che è il nome della madre di Santa Febronìa, a cui venne dedicato un monastero femminile, proprio nel territorio di Mesa. Fantino, all’età di otto anni, fu affidato dai genitori a Sant’Elia lo Speleota di Melicuccà (RC), questo è un ulteriore dato che fa propendere per la sua nascita nella Calabria meridionale. All’incirca visse tra il primo decennio ed il penultimo decennio del decimo secolo. La sua vita monastica iniziò sotto la guida spirituale di Sant’Elia lo Speleota, la cui fama giunse sino a Roma. Il grande Elia era diviso dalla necessità di guidare i confratelli e dal desiderio di ritirarsi per contemplare l’immensità di Dio. Infatti, egli si recava presso il monastero solo il sabato e la domenica, stando il resto dei giorni immerso nella contemplazione. Quindi, Sant’Elia assegnò a Fantino la mansione di cuoco del monastero ed egli serviva i suoi confratelli come molto amore ed al contempo iniziò una dura ascesi spirituale praticando lunghi digiuni, che nel tempo divennero totale astensione da qualsiasi cibo e bevanda. Percorrendo le orme del padre spirituale, Fantino, in special modo nel periodo calabrese, praticò una durissima lotta spirituale, quasi aggressiva, tale era la tenacia con cui si purificava. Essa pian piano maturò in un amore sconfinato verso il prossimo, che andava oltre i limiti e la convenienza umana, arricchita dal carisma delle guarigioni, questa maturazione spirituale contrassegnò, essenzialmente, la sua esperienza tessalonicese ove ne trassero grande giovamento i poveri ed i malati. Con riferimento all’esperienza calabrese, Fantino lasciò il monastero di Sant’Elia a trent’anni. Da tale momento si ritirò in una solitudine assoluta in cui come compagni ebbe la violenza del demonio, del freddo e della fame. L’agiografo narra un episodio in cui il santo dovette contendersi due pere selvatiche con dei cinghiali oppure l’abito monastico totalmente consunto, che costrinse il santo a correre sulla spiaggia per riscaldarsi, sino a che trovò un po’ di lino per coprirsi lasciato da un tessitore, ma, essendo insufficiente cadde in deliquio per il freddo e si svegliò solo perché sentì i topi che lo rosicchiavano. Fantino condusse tale vita per diciotto anni, sino a quando un cacciatore lo trovò e così i suoi parenti poterono andare a trovarlo, ma essi raggiunto il santo con la motivazione di dissuaderlo dalla suddetta vita, invece, lo seguirono come suoi discepoli. Ben presto la fama di Fantino raggiunse i territori circostanti e molti giovani chiesero di poter essere suoi discepoli. Egli l’istruì nella fede con amore e li mandò a popolare le aspre terre del Mercurion, ove i monasteri strapparono il territorio sino a quel momento infestato dai diavoli. La gestione di questi monasteri la affidò a suo fratello Luca. Il desiderio della vita eremitica lo divorava, tanto che vestito di una tunica di pelli di capra scappò dal monastero nottetempo e giunse in un paese (Mercure?) ove fu scambiato per una spia e rinchiuso in cella, qui assalito dagli insetti, si difendeva raschiandosi con dei cocci. Ormai, il diavolo capì che l’ardore religioso di Fantino era inattaccabile e sconfitto si allontanò, la gente riconobbe l’errore e vennero perdonati con la benedizione dell’asceta. Ritornò a vivere nel monastero: mangiando verdure crude e pane secco, dormendo per terra e per le domeniche e le festività pregava incessantemente in piedi dall’ora nona (tre del pomeriggio) sino alla Divina liturgia (mattino seguente). Un giorno decise di recarsi in pellegrinaggio al Monte Gargano ove apparve San Michele Arcangelo ed il pellegrinaggio durò diciotto giorni di cammino costante, mangiando, praticamente quasi nulla. Ed anche lì attese l’inizio della Divina liturgia incessantemente in piedi. Il periodo calabrese si conclude con una visione che radicalizza la vita del santo. Una visione che apparentemente affronta temi differenti, ma che in realtà si completano, in quanto nella vita di San Fantino, tale visione contrappone alla dannazione dell’inferno la beatitudine dei santi. Mentre nella vita di San Nilo, viene riportata tale medesima visione, la quale riguardò in particolar modo la desolazione dei monasteri, chiese e biblioteche greco-ortodosse, evidentemente la visione si rifà alla situazione attuale. Quindi le due versioni toccano temi simili. A causa di tale visione, i confratelli di Fantino gli diedero del pazzo, al punto che dovette intervenire San Nilo, già stimato asceta, ad ammonirli. Grazie a tale intervento, il santo calabrese ebbe un breve periodo di sollievo. In seguito, Fantino scappò sulle montagne ed ogni volta che veniva ripreso con la forza dai confratelli, egli cercava l’attimo opportuno per scappare nuovamente. In tale periodo, Fantino ebbe un’ulteriore visione che gli suggerì di lasciare la Calabria per Tessalonica, ove si recò con due discepoli, Vitale e Niceforo, quest’ultimo è San Niceforo il nudo, che proseguì il suo cammino sino al Monte Athos sotto la guida spirituale di Sant’Atanasio, che ne smussò la durezza della lotta spirituale sino a quel momento insegnatagli da Fantino, il quale si incontrò con Sant’Atanasio ed il suo compagno Paolo proprio a Tessalonica, ove si scambiarono fraterni saluti. L’esperienza tessalonicese, come già anticipato, si connotò per lo smisurato amore con cui il santo si relazionava con il prossimo anche se all’inizio ancora vi furono elementi tipici della sua fierezza, come nel caso in cui Fantino sanò un uomo che aveva il mal di denti con uno schiaffo. Ma ben presto questi connotati, furono persi per sempre, sostituiti da un amore viscerale per il prossimo. Una volta per saldare il debito che una filatrice aveva con dei creditori, Fantino si finse suo debitore facendosi trascinare tirato da una corda attaccata al collo davanti ai potenti del paese ottenne l’estinzione del debito. Oppure in un periodo di intenso freddo, Fantino diede la sua tunica, tutto ciò che aveva, ad una donna che gliela chiese. Ed ancora, dopo la sua dormizione che avvenne in un monastero di Tessalonica, ancora inebriato dalla forte fragranza che accompagnò il trapasso del santo, la quale avvenne all’età di 73 anni. Fantino sanò un sacerdote iconografo mandato da Costantinopoli a dipingere la sua icona, egli era idropico ed il santo gli apparve e stette due notti in posa, affinché l’iconografo, dopo esser stato guarito, poté dipingerlo. Alcuni testi indicano che fu dedicata a Tessalonica una chiesa a San Fantino e che vi sia una sua icona. Ma ad oggi, non vi sono documentazioni certe.

Per le preghiere di San Fantino, Signore Gesù Cristo, Dio nostro, abbi misericordia di noi. Amìn!


San Fantino il Nuovo di Calabria, Taumaturgo di Salonicco
Tratto da https://www.johnsanidopoulos.com/2016/08/saint-phantinos-younger-of-calabria.html
Traduzione a cura di Giovanni Fumusa


 http://www.ortodossia.it/w/index.php?option=com_content&view=article&id=5495:30-08-san-fantino-il-nuovo-di-calabria-taumaturgo-di-salonicco&catid=190:agosto&lang=it

 San Fantino era originario della Calabria e nacque nell’anno 902. Suo padre si chiamava Giorgio e sua madre era Vryeni. Fin dall’infanzia, si dedicò a Dio e, quando raggiunse gli 8 anni di età, entrò nel monastero di Sant’Elia e divenne suo discepolo. Lì intraprese lo sforzo nell’acquisizione delle virtù. Fu tonsurato monaco e servì in qualità di cuoco del monastero. Sebbene fosse continuamente circondato dal cibo, nel suo secondo anno di vita monastica, mangiava verdure e legumi crudi e soltanto una volta a settimana. Avendo sopraffatto la gola ed essendosi del tutto purificato dalle sue passioni, fu elevato a servire come ecclesiarca.
Dopo vent’anni di obbedienza in monastero, successivamente al riposo di Sant’Elia, Fantino fu reso degno del dono del discernimento e delle divine rivelazioni e decise di vivere una vita da eremita in Lucania, nell’Italia Meridionale. Lì il diavolo tentò di intimorirlo ed allontanarlo da quel luogo con rumori e serpenti, e persino assumendo l’aspetto dei suoi genitori, ma Fantino rimase indifferente, facendo svanire le sue tentazioni con il segno della Croce. Lì continuò a lottare tra fame e privazioni, al punto che i suoi vestiti si consumarono rimanendo nudo anche durante l’inverno, cosa che lo portò quasi a morire congelato. Lottò in questo modo per diciotto anni.
Un giorno alcuni cacciatori giunsero al luogo in cui Fantino lottava in ascesi e lo riconobbero. Tornarono indietro e lo raccontarono ai suoi genitori che andarono a trovarlo e lì si incontrarono in lacrime. Fantino dunque li convinse ad abbracciare la vita monastica e, dopo aver distribuito i propri averi ai poveri, i due genitori si unirono al figlio. Fantino costruì quindi un monastero per la madre e la sorella e, a un po’ di distanza da questo, un altro monastero per suo padre e per i suoi fratelli Luca e Cosmas e divenne, in quella vita solitaria, il padre spirituale di tutti loro. Ma ben presto le montagne divennero come le città per il gran numero di seguaci che attirava e ciò, ogni tanto, lo portò a cercare la solitudine, tornando poi al suo monastero per guidare i fratelli.
Quando raggiunse l’età di 60 anni, su rivelazione divina, partì per Salonicco a causa di una imminente invasione di Saraceni al fine d’ispirare il popolo ad una vita di virtù. Quindi partì per la Grecia con due suoi discepoli, Vitale e Niceforo. Passò da Corinto, Atene e Larissa, dove rimase per qualche tempo presso la tomba di Sant’Achilleo, e giunse infine a Salonicco. Lì affrontò molte difficoltà, ma compì anche molti miracoli e annunciò varie profezie. Dopo aver trascorso otto anni in quel luogo, riposò in pace nell’anno 974 all’età di 73 anni. E subito dopo il suo riposo continuò a compiere molti miracoli.
Apolytikion, Tono Primo
Vanto della Calabria e gran sole dei monaci, protettore di Salonicco, sei apparso come divinamente ispirato o Padre, prendendo la croce da bambino, hai cercato Dio o Fantino, e ritirandoti meravigliosamente ti sei arricchito col dono della taumaturgia: Gloria a Cristo che ti ha sigillato, gloria a Colui che ti ha reso miracoloso, gloria a Colui che ci ha donato te come mediatore e maestro.
Kontakion, Tono Terzo
Fin dal grembo, o Santo, fosti dedicato a Dio e, per Lui come precursore, Lo lodasti con inni ancor prima di nascere; partisti dalla tua patria, dalla famiglia e dagli amici ed illuminasti divinamente molti dall’errore con la tua straordinariamente grande ascesi ed i tuoi miracoli, venerabile Fantino.
Megalynarion
Come germoglio della Calabria santificasti tutta la Grecia, o Fantino taumaturgo, con la grazia del Signore e con la tua ascesi e riposi a Salonicco.


Il 30 di Agosto, memoria del nostro santo padre Teodosio, Vescovo di Oria in Puglia.

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Il 30 Agosto, memoria della nostra santa madre Vriena, madre di san Fantino, detto il Giovane.

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mercoledì 29 agosto 2018

29 Agosto santi italici ed italo greci


 Cattolica monogramma JHS — Foto Stock


Santa Sabina martire a Roma e si fa memoria anche della sua ancella Serapia martire



Tratto dal quotidiano Avvenire

Patrizia romana del II secolo, uccisa in spregio alla fede allo stesso modo: decapitata. Nella sua «Passione» si legge che era una nobile pagana, moglie del senatore Valentino, convertitasi al cristianesimo per influenza dell’ancella Serapia. Con lei di notte scendeva nelle catacombe, dove i cristiani si riunivano clandestinamente per sfuggire alle persecuzioni imperiali. Quando Serapia venne catturata e bastonata a morte, anche Sabina venne allo scoperto subendo il martirio intorno all’anno 120. Le reliquie delle due martiri, insieme a quelle di Alessandro, Evenzio e Teodulo si trovano nella basilica di Santa Sabina all’Aventino, fondata nel 425 da Pietro d’Illiria, sui resti di un antico «Titulus Sabinae» (forse la santa, oltre che patrona, ne fu fondatrice e protettrice). San Domenico vi fondò il suo ordine nel 1219. Si può ancora vedere la sua cella, trasformata in cappella. Nel chiostro del convento si può ammirare l’arancio che il santo avrebbe piantato alla fondazione dei Predicatori. Anche uno dei più celebri figli dei Domenicani, san Tommaso, ha insegnato in questo convento. Santa Sabina viene raffigurata con libro, palma e corona. Con questi ultimi due attributi compare in una delle sue prime rappresentazioni (VI secolo) nella chiesa di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna.



Tratto da

http://www.lastampa.it/2013/08/29/vaticaninsider/santa-sabina-RCXZSAx25Wf6zgY8xdKUoL/pagina.html

Morta nel II secolo
Subisce il martirio a Roma sotto Adriano. E con Serapia: entrambe sono conosciute attraverso una “Passio” leggendaria. Si narra che Serapia, oriunda di Antiochia, sarebbe schiava della vedova matrona Sabina di Vinsena presso Terni. E la schiava convertirebbe al cristianesimo la padrona. E per questo verrebbe decapitata; un mese dopo anche Sabina farebbe la stessa fine, e verrebbe deposta presso Serapia.
Le due salme sarebbero trasferite a Roma all'inizio del IX secolo: risulta – il nome Sabina - dall’iscrizione sul sarcofago in cui papa Eugenio II (823) raccoglie le reliquie dei martiri nomentani. Le reliquie di santa Sabina sono nella basilica di Santa Sabina sull'Aventino, edificata nel 425 da Pietro d'Illiria.





Tratto da

http://www.webalice.it/santa.sabina/Varie/StoriaSSabina.pdf

S. Sabina fu una patrizia romana del II secolo, che subì il martirio intorno

all’anno 120. Nella sua “passione” si legge che era una nobile pagana, vedova del senatore Valentino, convertitasi al cristianesimo per l’influenza dell’ancella Serapia.

Con lei di notte scendeva nelle catacombe, dove i  cristiani si riunivano  clandestinamente per sfuggire alle persecuzioni imp eriali, Quando vennero scoperte vennero uccise ambedue a distanza di un mese a moti

vo della loro fede : Serapia il 29

luglio, Sabina il 29 agosto per ordine del prefettoErpidio.

Le reliquie delle due martiri, insieme a quelle di  Alessandrino, Evenzio e Teodulo si trovano nella basilica di Santa Sabina all’Aventino  (Roma), fondata nel 425 da Pietro

d’Illiria, sui resti di un antico “Titulus Sabinae”

(forse la santa, oltre che patrona, ne

fu fondatrice e protettrice

Santa Sabina viene raffigurata con libro, palma e corona, con questi due ultimi attributi compare in una delle sue prime rappresentazioni (VI secolo) nella chiesa di +Sant’Apollinare Nuova a Ravenna.







Santa Candida asceta e martire venerata a Roma

Tratto da

http://www.santiebeati.it/dettaglio/95561



È venerata in Roma nella chiesa di Santa Prassede, dove il suo corpo fu trasferito dal papa Pasquale I (817-24).
Il suo nome figura in un'epigrafe redatta mentre il papa era ancora vivo, insieme con quelli di altri martiri ivi sepolti. È commemorata il 29 agosto. Non si sa se fosse nativa di Roma, né se sia da identificare con sante omonime della stessa città.
La precedente edizione del Martirologio romano recitava: "Romae sanctae Candidae, Virginis et Martyris; cujus corpus beatus Paschalis Primus Papa in Ecclesiam sanctae praxedis transtulit".





Santo Eutimio morto in pace a Perugia



Tratto da

http://www.santiebeati.it/dettaglio/90516

Sant'Eutimio onorato a Perugia, dove egli si sarebbe rifugiato, da Roma, durante la persecuzione di Diocleziano. Portò con sé la moglie e il figlio Crescenzio, e fu proprio a Perugia che l'intera famiglia, cristiana di sentimenti, ricevette il Battesimo da parte del presbitero Pimerio, il quale sarebbe morto Martire durante la persecuzione di Giuliano l'Apostata.
A Perugia, Eutimio mori in pace, e venne sepolto dal figlio. Non si sa perciò a qual titolo venga onorato come Santo, dato che non fu Martire, se non per una temporanea prigionia. Più celebre di lui fu il figlio, Crescenzio, il quale, secondo la passio, tornò a Roma e cadde sotto i rigori della persecuzione, benché avesse soltanto undici anni.
La sua sepoltura fu lungo la Via Salaria, visitata e venerata dai pellegrini del Medioevo. Nel 1058, una parte delle sue reliquie venne trasferita a Siena, dove la devozione per il giovanissimo Martire Crescenzio ebbe, nei secoli successivi, accenti di grande popolarità, così che la città toscana può essere considerata come la seconda patria di questo Santo romano, come l'etrusca e augustea Perugia fu la seconda patria del padre di lui, Eutimio, morto in pace, ma considerato degno degli onori della santità anche per i meriti del figlio Martire
.



Santo Alberico eremita in Emilia Romagna



Tratto dal quotidiano Avvenire



Vissuto nella prima metà del XI secolo, Alberico apparteneva a una nobile famiglia di Ravenna. Da giovane si votò a una vita eremitica fatta di rigorosa penitenza, preghiera e contemplazione, dimorando a Valle Sant'Anastasio presso San Marino. Poi visse nell'eremo di Ocri, in diocesi di Cesena-Sarsina, eretto da san Pier Damiani, e da qui passò a condurre una vita ascetica in una località detta Balze, situata in una gola sul Monte Fumaiolo. Morì intorno al 1050. L'eremo che prese il nome di «Celle di Sant'Alberico» fu abitato dagli eremiti camaldolesi. Il santo è invocato dai pellegrini che salgono all'eremo contro le malattie addominali e le ernie dei bambini. La prima memoria certa del suo culto risale al 1300 quando, nel timore che i fiorentini potessero impossessarsi del corpo, fu trasferito nella chiesa dell'abbazia benedettina di Valle Sant'Anastasio. Casualmente ritrovato nel 1640, fu collocato in un nuovo altare dedicato al santo dove si trova tuttora.



TRATTO DA

http://www.santiebeati.it/dettaglio/91843

l suo nome si perpetua soprattutto per l’esistenza del suo antico eremo, ancora oggi funzionante, che prese appunto il nome di Sant’Alberico. Pochissimo sappiamo della sua vita, vissuto nella prima metà del sec. XI, secondo la tradizione Alberico appartenne ad una nobile e ricca famiglia di Ravenna.
Da giovane si votò ad una vita eremitica fatta di rigorosa penitenza, preghiera e contemplazione, dimorando a Valle Sant’Anastasio presso San Marino; in questo luogo, si racconta, che fece scaturire una fonte di acque salutari, tuttora esistente.
Poi abitò per qualche tempo nell’eremo di Ocri in diocesi di Sarsina (Forlì), eretto da s. Pier Damiani (1007-1072); da qui passò a condurre sempre una vita eremitica, in una località detta Balze, situata in una profonda gola a m. 1147 sul Monte Fumaiolo, che dipendeva dal monastero di S. Giovanni Battista, sempre nella diocesi di Sarsina; appartenente all’Ordine Camaldolese, fondato da s. Romualdo (952-1027).
Qui visse in perfetta solitudine per molti anni, finché lo colse la morte verso il 1050; l’eremo che poi prese il nome di “Celle di s. Alberico”, dopo la sua morte fu abitato da più eremiti dell’Ordine Camaldolese, sotto la giurisdizione del già citato monastero, che ne tenne la proprietà fino al 1821; fu poi venduto a dei privati e dopo nel 1872, fu ceduto alla Diocesi di Sarsina.
La prima memoria certa del suo culto risale al 1300, quando nel timore che i Fiorentini potessero impossessarsi del corpo, questo fu trasferito di nascosto nella chiesa dell’abbazia benedettina di Valle Sant’Anastasio e tumulato in una parete.
Casualmente fu ritrovato nel 1640 dal vescovo Consalvo Durante ed esposto alla venerazione dei fedeli nell’altare della Madonna del Rosario.
Un altro vescovo Bernardino Bellucci, nel 1698 lo fece collocare in un nuovo altare dedicato appunto a S. Alberico, dov’è tuttora.
Il santo eremita, che già in vita operava molti prodigi, è invocato dai pellegrini che salgono all’Eremo, contro le malattie addominali e le ernie dei bambini. In questi secoli è continuato l’avvicendarsi degli eremiti, che sia pure a fasi alterne, hanno fatto funzionare l’eremo e la chiesetta annessa, accogliendo ed assistendo i pellegrini devoti del santo. S. Alberico è celebrato il 29 agosto, come data probabile della sua morte

martedì 28 agosto 2018

28 agosto santi italici ed italo greci


Alexander Chashkin Contemporary Iconographers of Russia – Orthodox Arts Journal




Santo Ermete martire a Roma



Tratto da

http://www.enrosadira.it/santi/e/ermete.htm

Ermete, santo, martire a Roma, fu sepolto nel cimitero di Bassilla. Papa Pelagio I (579-590) gli dedicò il cimitero e una basilica poi restaurata da Adriano I (772-795). Il corpo si vuole traslato nell’829 da papa Gregorio IV a S. Marco Evangelista in Campidoglio. Nel XVIII secolo si venerava alcuni resti a S. Alessio e a S. Clemente, un suo braccio si esponeva a S. Maria Maggiore. La reliquia di un dito, traslata in Francia, operò diversi miracoli




Martoirologio Romano : 28 agosto - A Roma il natale di sant'Ermete, uomo illustre, il quale (come si legge negli Atti del beato Alessandro Papa), posto prima in prigione, quindi insieme a moltissimi altri ucciso colla spada, compì il martirio sotto il Giudice Aureliano





Tratto da

http://www.santiebeati.it/dettaglio/67810



Il suo nome ricorre nella passio apocrifa dei santi Evenzio, Alessandro e Teodulo, la quale fa di Alessandro il papa del tempo di Traiano e di Ermete il contemporaneo prefetto di Roma, convertito dal papa insieme con la moglie, i figli, la sorella Teodora e milleduecentocinquanta schiavi. Traiano, avutane notizia, avrebbe spedito a Roma Aureliano, il quale avrebbe fatto arrestare Ermete, consegnandolo al tribuno Quirino, che lo fece decapitare. Il corpo del martire sarebbe stato raccolto dalla sorella Teodora e deposto «in Salaria veteri, non longe ab urbe Roma sub die quinto kalendas septembris». La passio non indica il nome del cimitero, ma il riferimento topografico è esatto. La Depositio Martyrum, alla stessa data, segnala: «Hermetis in Basille, Salaria vetere»; così pure il Martirologio Geronimiano; sempre in detto giorno è menzionato nel Sacramentario Gregoriano e nel Sacramentario Gelasiano.
Nel 1932, nel sopratterra del cimitero di Bassilla, si identificarono due frammenti marmorei in caratteri filocaliani, appartenenti ad un carme tramandatoci dalla sola silloge Laureshamense quarta; il De Rossi lo pubblicò dicendolo di provenienza incerta, pur sospettando fosse stato tra l’Appia e la Latina, ammettendo che il Terribilini l’avesse ritenuto l’elogio damasiano di san Ermete. Il Mantechi, invece, vi riconobbe il carme in onore di Ippolito del gruppo dei martiri greci. I due frammenti del 1932 appartengono ai primi due esametri del carme; nel maggio 1940 si identificò un terzo piccolo frammento della terza riga. La scoperta epigrafica conferma l’ipotesi del Terribilini: è l’elogio del martire Ermete. Esso, però, sfata la passio: storicamente non è mai esistito un Ermete prefetto di Roma; il cimitero di Bassilla, in cui il martire fu deposto, non si può fare risalire al tempo di Traiano. Per Damaso, il martire non è però di epoca recente: «jam dudum, quod fama refert, te Graecia misit, / sanguine mutasti patriam, civemque fratrem / fecit amor legis: sancto pro nomine passus, / incolla nunc Domini, servas qui altaria Christi / ut Damasi praecibus faveas precor, inclite martyr».
Poiché nell’epigramma manca il nome del martire, giustamente il Ferma pensa vi fosse un sesto verso, non tramandatoci dalla silloge di Lortsch, contenente la dedica di Damaso al martire Ermete. Il nome stesso tradisce l’origine ellenica di un liberto o di uno schiavo.
Il suo sepolcro venne già abbellito alla fine del secolo IV non solo col carme di Damaso, ma anche con opere architettoniche, come dimostra l’epistilio marmoreo, rinvenuto in quello stesso luogo da A. Bosio, dove su una faccia si legge Herme e sull’altra Inherens. Egli fu sepolto a una quota del secondo piano del cimitero di Bassilla, dove il papa Pelagio I (579-90) «fecit cymiterium b. Hermetis martyris». Si tratta della prima costruzione o di un restauro? Al tempo di san Gregorio Magno (590-604) un tale Giovanni recò l’olio delle lampade poste sul suo sepolcro alla regina Teodolinda. Sia la Notitia ecclesiarum, sia il Liber de locis, l’itinerario inserito da Guglielmo di Malmesbury nella Notitia portarum viarum et ecclesiarum urbis Romae e l’itinerario di Einsiedeln localizzano sulla Salaria il suo sepolcro «longe sub terra». Adriano I (772-95) restaurò la basilica presso la quale fiorì un monastero; un Eugenius... praepositus Mon. Sci Hermetis venne deposto a san Saba; l’abbazia di Ermete viene ancora ricordata tra il 1169 e il 1188. Al monastero appartenne l’oratorio in cui fu rinvenuta la sua immagine, ma forse egli era stato già rappresentato nell’abside stessa della basilica, che nel Catalogo di Torino, circa l'anno 1320, "non habet servitorem", cioè non era più officiata. La basilica fu riscoperta al tempo di A,. Bosio, all'inizio del secolo XVII; venne allora rinforzata; fu restaurata ancora dal p. G. Marchi nel 1844. Fuori Roma, il martire era venerato in Anzio già alla prima metà del V secolo: infatti, nel 418, Eulalio, il competitore del papa Bonifacio I, si rifugiò in quella cittadina "ad sanctus Hermen".
Nel 598 san Gregorio Magno spedì
brandea, che erano stati deposti sul sepolcro del martire Ermete, al vescovo Crisanto di Spoleto per la chiesa di san Maria in Rieti; l'anno seguente, consentì che in Napoli venisse eretta una chiesa in onore dei santi Ermete, Sebastiano, Ciriaco e Pancrazio; al suo tempo esisteva un monastero di Ermete in Sicilia e un altro in Sardegna.





Santo Vicino vescovo di Sarsina



Tratto dal quotidiano Avvenire




 Vicinio, che la tradizione vuole primo vescovo della diocesi di Sarsina (oggi unita a Cesena), è ritenuto di origine ligure. Si ritirò come eremita su un monte che ora porta il suo nome. Mentre sacerdoti e popolo di Sarsina erano riuniti per scegliere il vescovo, sulla cima del monte apparve un segno divino. Così il solitario Vicinio divenne pastore della comunità romagnola, dai primi del IV secolo al 330, data della morte. Il suo carisma era quello di scacciare i demoni e guarire i fedeli da infermità fisiche o dell'animo attraverso una catena che poneva loro al collo



Tratto da


La ricerca storica su San Vicinio si ferma ad un manoscritto anonimo del XII secolo, denominato Lectionarium. Questo codice è quasi sicuramente la trascrizione di precedenti note scritte sulla vita di San Vicinio, databile almeno un secolo precedente. Da questo manoscritto apprendiamo che Vicinio si ritiene venuto dalla Liguria, ma potrebbe anche essere originario delle contrade della mediovalle del Savio. Sulla scia della più consolidata tradizione, lo diciamo proveniente dalla Liguria nel periodo a cavallo fra il terzo ed il quarto secolo, nell'imminenza della persecuzione di Diocleziano e Massimiano, databile dal 303 al 313. Sempre sulla scia della tradizione, lo diciamo protovescovo di Sarsina, pur non trascurando l'opinione di coloro che vogliono l' origine della Chiesa sarsinate legata al ravennate Sant' Apollinare o ai discepoli nel I secolo.
Il racconto evangelico del "Giovane ricco" e la scelta di uno stile di vita da penitente nella povertà ha sempre affascinato gli spiriti con l'inquietudine della santità. Anche Vicinio, spinto dall' amore della solitudine, si dedicò alla preghiera, alla meditazione ed alla penitenza in luogo solitario che la tradizione identifica col Monte San Vicinio, ubicato a circa sei chilometri da Sarsina.
La vita santa di Vicinio fu di tale gradimento al Signore che lo scelse pastore della comunità cristiana insediata in Sarsina. La preghiera e la penitenza avevano certamente accresciuto lo zelo per la Casa del Signore e Vicinio si dedicò alla strutturazione del gregge divino diffondendo il Vangelo anche nelle zone più impervie della Diocesi. La cronotassi dei vescovi sarsinati lo colloca primo vescovo della diocesi e afferma che fu guida di questa porzione di Chiesa fino al 28 agosto 330, giorno della sua nascita al cielo.
Penitenza e preghiera, evangelizzazione e conduzione del popolo di Dio sono i cardini a cui San Vicinio aveva incatenato la sua vita e sono pure la strada maestra da lui scelta per realizzare la sua personale chiamata alla santità. Ogni santo incarna un particolare carisma e San Vicinio esprime la potenza di Dio nella lotta contro il maligno nella spirituale battaglia di adesione al Vangelo.
Il suo ingresso nella schiera dei beati con la morte alla vita eterna è da considerarsi avvenuto non prima del 330, dopo ventisette anni e tre mesi di ministero episcopale nel sarsinate.
Anche prima della morte, l' intercessione di San Vicinio si rivelò potente in favore di coloro che portavano infermità nel corpo e nello spirito. In tanti ricorrevano e ricorrono a lui quando si manifestano malanni nel corpo, anche molto gravi, ansie, fatiche, dolori, turbamenti, ma soprattutto,quando si manifestano problemi esistenziali e spirituali e attraverso l' utilizzo di una catena che il Santo stesso usava ponendola intorno al collo dei fedeli, riescono a ritrovare pace e serenità.


Alcuni aneddoti:
Si narra che l'elezione a Vescovo avvenne per chiamata visibile da parte di Dio. Mentre Presbiterio (nome di persona? nome collettivo dei sacerdoti?) e popolo riuniti, pregavano per la scelta di un nuovo pastore, nel cielo sul monte dove Vicinio pregava apparve un infula episcopale sorretta da angeli. Presbiterio e popolo accorsero sul luogo e acclamarono Vicinio Vescovo della città.
Si narra che un giorno, mentre il santo si recava nel silenzio della montagna per pregare, una quercia devota e riverente piegò i suoi rami fino a terra, inchinandosi alla santità.


Miracoli:
Nel Lectionarium si legge di un indemoniato trascinato in vari santuari nel tentativo di riuscire nell' intento di liberarlo dai lacci del demonio. Finchè in Arezzo, sulla tomba del martire Donato, il demonio diede l' indicazione utile: "A nessuno dei Martiri o dei Confessori della fede mi sento obbligato a cedere, se non a San Vicinio, Vescovo di Sarsina, che anche da vivo si oppose sempre a me ed ai miei soci". Fu condotto non senza gravi difficoltà alla tomba di San Vicinio dal Signore e fu liberato dal dominio del demonio nel mentre i sacerdoti celeb-ravano la Santa Messa.
Si legge ancora nel Lectionarium di un mendicante che attribuendo alla catena di san Vicinio un alto valore venale, pensò ben presto di rubarla e darsi alla fuga. Giunse intanto al fiume Savio tentando di allontanarsi il più possibile, ma in realtà passò la notte a correre a vuoto per ritrovarsi al mattino nello stesso punto del fiume. Colto da timore e rimorso, malconcio e ferito, gettò la catena in un gorgo del fiume, ove fu ritrovata tre giorni dopo galleggiante vicino alla riva.



Tratto da

http://www.camminodisanvicinio.it/Storia/SanVicinio



A Vicinio la terra sarsinate e la media valle del Savio, ancora popolate di culti e divinità pagani, sono tributarie della prima evangelizzazione: i primi dati sicuri, a cui ci si possa appoggiare non per notizie riconducibili al santo ma per elevate testimonianze sull'antichità della locale comunità cristiana, conducono agli anni 455 e 507-511. Alla prima data risale una iscrizione cristiana conservata nel Museo Archeologico sarsinate; alla seconda va riferita una lettera – registrata nelle Variae di Cassiodoro (480/485-580ca.) - che il re Teoderico (454 ca.-526) invia a Gudila, vescovo ariano di Sarsina.

Dobbiamo partire da un dato che può meravigliare ma che corrisponde a verità: della vita di san Vicinio - primo vescovo di Sarsina - e delle sue vicende storiche sappiamo pochissimo, quasi nulla. Tra gli specialisti autorevoli annoveriamo gli agiologi faentini Francesco Lanzoni e Giovanni Lucchesi. Il primo asseriva che «Vicinio, forse non senza ragione, suole assegnarsi al secolo IV», mentre il secondo ribadiva che «è comunque verosimile l'episcopato di san Vicinio nel secolo IV, o anche agli inizi del V».

La Vita sancti Vicinii Saxenatis episcopi è il solo documento che ci parla del santo, un testo agiografico composto in età medievale con finalità edificatorie, devozionali e cultuali; si tratta dunque di uno scritto commissionato (molto probabilmente dall'autorità vescovile e/o capitolare) e chi l'ha scritto (un anonimo di area romagnola e probabilmente d'àmbito riminese) si prefiggeva l'illustrazione di un modello di santità episcopale, la glorificazione del protagonista e la propaganda del santuario.

La Vita è tramandata da cinque manoscritti: il Passionario della Biblioteca Gambalunga di Rimini della seconda metà del secolo XII; il codice 1622 della Biblioteca Universitaria di Padova, del secolo XV; il codice Vaticano Latino 5834, scritto verso la metà del secolo XVI e compilato dall'erudito ravennate Gian Pietro Ferretti (1482-1557); i manoscritti H.8.1 e H.9 della Biblioteca Vallicelliana di Roma, fine XVI-inizio XVII secolo

Il testo, volgarizzato dal sacerdote sarsinate Filippo Antonini, 1560 -1621 (Vita et miracoli del glorioso confessore s. Vicinio vescovo, et protettore di Sarsina. Nouamente posta in luce d'ordine di monsignor Nicolò Brautio vescouo di Sarsina. Ad instanza del Capitolo della medesima Città, Sarsina 1609), viene édito per la prima volta dai Bollandisti. La Vita sancti Vicinii fu composta a cavallo dei secoli XI-XII, e comunque non oltre la prima metà del XII, a motivo della datazione del codice riminese che per primo la tramanda; un riferimento interno al vescovo sarsinate Uberto (documentato da prima del 20 maggio 1028 a dopo il 1053) funge da indicatore e spartiacque cronologico.

Che cosa ci racconta di Vicinio? Originario della Liguria, vale a dire dell'Italia nord-occidentale, giunse a Sarsina in tempo di persecuzioni; qui predicò il Vangelo, fu ordinato vescovo e svolse santamente il ministero episcopale, dedito alle virtù pastorali e in particolare a liberare con la preghiera e col digiuno gli infelici oppressi da influsso demoniaco.

Esercitò al sommo grado tutte le virtù evangeliche, ammaestrando clero e popolo, sovvenendo ai poveri, alle vedove, agli orfani e ai sofferenti, praticando la povertà in prima persona, pregando, vegliando e digiunando, aborrendo tutto ciò che era mondano e improntando il proprio essere e il proprio agire alla sequela di Cristo.

La sua presenza fisica determinò molteplici opere miracolose, guarendo da malattie e liberando gli ossessi dal demonio: azione, quest'ultima, nella quale Vicinio eccelleva; una sorta di specializzazione, precisa il testo, constatata e registrata anche al tempo della sua stesura. Dopo ventisette anni e tre mesi di episcopato, ricevette con la morte il premio che Dio riserva ai suoi figli diletti. Con trionfali esequie e un funerale famoso per la solennità della liturgia, fu sepolto in un sarcofago marmoreo collocato nella cripta. Dopo la sepoltura, continuarono i miracoli operati per sua intercessione presso il suo sepolcro e la vita cristiana crebbe rigogliosa.

È una "vita" che non ha notizie biografiche: nulla della famiglia d'appartenenza di Vicinio, nulla su nascita e infanzia; alcun episodio riferito alla vita terrena, al periodo precedente l'elezione episcopale e all'operato da vescovo (ma l'assenza di cronologia e di cronotopi è anche in funzione dell'atemporalità della figura del santo); si fa cenno a miracoli in vita ma non vengono raccontati; gli episodi prodigiosi appartengono tutti al post mortem.

Lo scenario d'azione dell'evangelizzatore rimane su un piano indistinto. Mancano implicazioni urbane da potersi definire sarsinati in senso stretto; la città è soltanto genericamente nominata («si diresse alla volta della città di Sarsina, comunemente chiamata Bobbio») e individuata dai connotati geografico-topografici: è collocata fra gli Appennini, ai suoi piedi scorre il fiume Savio e si trova sulla direttrice viaria Ravenna-Roma.

I secoli posti tra l'esistenza del santo e l'età di redazione della Vita Vicinii hanno inghiottito notizie e informazioni puntuali; del suo protovescovo la Chiesa sarsinate conserva soltanto lineamenti generali, derivati dalla tradizione e poggiati più sull'oralità che sui documenti scritti, dal momento che la memoria storica risulta del tutto offuscata, per non dire definitivamente perduta.

Ma qui l'agiografo si limita a prendere atto dell'esistenza di un culto secolare, attestato e ribadito dalla prassi devozionale di cui è testimone la sua fonte, cui non intende aggiungere nulla o sovrapporre alcunché di forzato; registra un dato tradizionale e lo rispetta pur nell'autocosciente consapevolezza della povertà delle indicazioni. All'autore non rimane che procedere ad un'azione programmatica pressoché obbligata: esaltare, per il tramite dei miracula post mortem registrati e registrabili intorno al sepolcro, il carisma taumaturgico del corpo di Vicinio, e dunque le proprietà esclusive della cattedrale sarsinate (plebs urbana, non si dimentichi), ormai rinomata custode di un locus sanctus, con tutte le prerogative del sanctuarium (di cui i racconti prodigiosi sanciscono le canoniche specificità); del resto la fitta rete di santuari e il ricco panorama di pellegrinaggi denunciati dal testo pongono la città sul Savio fra le mete dei questuanti bisognosi e dei cercatori del Dio-salus, sancendone una sorta di ufficialità e improntando una pubblicizzazione che sortisce l'efficacia maggiore proprio nella spettacolare e puntuale concretezza delle azioni miracolose derivate dai meriti del santo. Il catalogo dei miracoli mette in sequenza storie - che risultano veri e propri quadri di genere - assolutamente indipendenti fra loro, benché manifestino analoghi procedimenti narrativi e medesime modalità stilistiche; la loro conclusione comporta sempre un ravvedimento e una conversione della persona esaudita o guarita, e il malato diventa uno "strumento" del santo.

C'è una coscienza collettiva alla base dei racconti prodigiosi, dai quali si sprigiona un culto che giunge a determinare persino forme di aggregazione sociale (la festa del patrono confluisce in fiere e occasioni di commercio): la solennità liturgica si prolunga così su un versante laico e civile, con più elevata frequenza e densità. I miracoli, vera sopravvivenza postuma del santo, ruotano attorno ai consueti ingredienti (malato, taumaturgo e pubblico) e si sviluppano narrativamente secondo la classica struttura ternaria:
1) l'insorgere di un problema-difficoltà;
2) l'intervento del santo-aiutante;
3) la scomparsa del problema-difficoltà.

La sequenza dei nove racconti miracolosi è così articolata:
• liberazione di un indemoniato
• un ricco cessa di vessare un suo diacono
• furto della «catena», suo prodigioso rinvenimento e liberazione d'indemoniato
• una donna, che ha irriso il santo, dapprima viene punita e poi liberata
• guarigione di un cavallo, in seguito morto per inadempienza del voto
• liberazione di un prete ingiustamente incarcerato
• furto di sacre offerte e conseguente punizione
• guarigione di uno storpio
• la reliquia del santo, dimenticata in un letto per distrazione, si manifesta prodigiosamente e così viene recuperata



Come tutti i santi, anche Vicinio ha un culto ed una devozione documentati nel corso dei secoli. Alquanto significativa, in proposito, è l'età medievale, nella cui lunga durata si appuntano varie e variegate segnalazioni riguardo al santo vescovo di Sarsina. La più antica è costituita da una preghiera attribuita all'abate benedettino san Guglielmo da Volpiano contenuta in un codice del secolo XI: fra i santi venerati troviamo affiancati Apollinare, Vitale e Vicinio. La seconda testimonianza si trova in un altro testo agiografico (Sancti Rophilli episcopi Foropopiliensis miracula post mortem), trasmesso da un codice in gran parte degli inizi del sec. XI; nel secondo episodio narrato san Vicinio è protagonista, insieme al vescovo Rufillo di Forlimpopoli. In un notevole documento iconografico raffigurante Cristo in trono fra i santi Giovanni Battista e Vicinio e donatori, conservato nella Biblioteca Malatestiana di Cesena, con esattezza datato 1104, qualcuno vi riconoscere la figura di s. Vicinio proprio grazie alla presenza del suo tipico attributo: il protovescovo sarsinate (a destra del Cristo) è accompagnato da un'ancella che reca il collare. Un'interessantissima attestazione del culto viciniano, datata 1120, si trova nell'abbazia di Montetiffi, una fondazione benedettina del Montefeltro risalente alla metà del secolo XI: nella chiesa abbaziale si conserva la base dell'antico altare con un'epigrafe che menziona san Vicinio (primo di una lista santorale che comprende Agostino, Nicola, Leonardo, Giorgio e Giovanni Battista). Si devono poi aggiungere: un privilegio di papa Lucio III, del 1182 (cita i mercanti che giungevano a Sarsina per la festa di san Vicinio e che dovevano versare al Capitolo della cattedrale la terza parte delle tasse dovute); il sinodo diocesano del 1380, testimone del fatto che sul monte detto di San Vicinio si trova una chiesa a lui dedicata; un documento notarile del 1404 attestante la solennità di san Vicinio, con la partecipazione obbligatoria di tutti i chierici del circondario. Il culto ritorna prepotente nella seconda metà del Cinquecento, in clima post-tridentino, e agli esordi del Seicento: alimentata da evidenti impulsi di carattere locale, la devozione al santo subì agli inizi del secolo XVII una forte accelerazione ad opera soprattutto di un volumetto composto da Filippo Antonini. La redazione, fa capire l'autore, è voluta dal vescovo Nicola Brauzzi (1602-1632) e verosimilmente rientra in un progetto che intende partire da una riscoperta della tradizione locale, e dunque anche del culto dei santi; una rilettura ed un rinnovamento già iniziati dai presuli predecessori, artefici di riesumazioni, ricognizioni e traslazioni delle reliquie del santo.



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