martedì 31 luglio 2018

31 luglio Santi Italici ed Italo greci



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Santo Calimero di nazionalità greca e vescovo di Milano e martire verso il 190(in altri codici  verso il 280)

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http://www.santiebeati.it/dettaglio/91965

Nato da nobile famiglia, dopo un viaggio a Roma, fu consacrato prete. Alla morte del vescovo di Milano, S. Castriziano, di cui fu fedele coadiutore, s. Calimero fu eletto dalla gente a succedergli.
L’episcopato di S. Calimero si pone nel periodo che va dal 270 al 280.
La tradizione vuole S. Calimero martire, in quanto gettato alcuni pagani in un pozzo dove trovò la morte.
San Calimero è sepolto nella basilica a lui dedicata a Milano. Nel VIII secolo, nella cripta della basilica, le sue reliquie furono ritrovate in un pozzo, ancora oggi esistente, immerse nell’acqua.
Un tempo in occasione della festa del santo, l’acqua del pozzo veniva distribuita ai malati.
La chiesa milanese commemora il suo quarto vescovo martire il 31 luglio. Insieme agli altri santi vescovi milanesi, S. Calimero è festeggiato anche il 25 settembre.

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Calimero, quarto vescovo di Milano, vissuto verso la metà del terzo secolo, era originario della Grecia, fu allievo spirituale del Papa S.Telesforo, venne aggregato al clero milanese e successivamente consacrato vescovo alla morte di S.Castriziano. Il suo episcopo fu eccezionalmente lungo nonostante le persecuzioni. La notizia, piuttosto tarda, del martirio di S. Calimero sembra legata ad un fatto particolare: si ritiene che Tommaso, Arcivescovo di Milano, nel 755 – 83, in occasione di alcuni restauri alla tomba, costruita dopo le persecuzioni, abbia trovato il corpo del Santo immerso nell'acqua ed abbia fatto scavare un pozzo per prosciugare la cripta. Una lettura errata della lapide che ricordava questo fatto avrebbe originato la notizia di S. Calimero ucciso e gettato in un pozzo. In località Prabello, questo è il nome del luogo dove sorge la chiesetta, anticamente sembra sorgessero torri, luoghi di guardia, da dove i soldati potevano avvistare e segnalare l'arrivo di eventuali nemici; forse queste persone nei momenti di solitudine, sentivano il bisogno di pregare, pertanto costruirono, nelle vicinanze, una cascina dedicata al culto. La dedica della chiesa a S. Calimero è probabilmente legata al fatto che il Santo è considerato protettore dell'acqua, dei laghetti e delle sorgenti. Bisogna sapere che Prabello era una zona a pascolo molto bella, dove i mandriani con il bestiame si recavano a trascorrere i mesi estivi, ma nei periodi di siccità necessitava d' acqua. I mandriani decisero allora di sfruttare una depressione del terreno per farvi convogliare dell'acqua da utilizzare nei periodi di bisogno, fino a farne un laghetto artificiale. Perchè questo restasse sempre colmo, serviva molta acqua, che veniva a mancare, soprattutto dopo un'estate secca e asciutta. Ecco che poco distante dal "lavac", così veniva chiamato il laghetto, fu dedicata una chiesa a S. Calimero; tutti si recavano in devota processione, il 31 luglio, per chiedere al Santo pioggia abbondante per mantenere colmo il laghetto e avere da dissetare il bestiame. La devozione dei pasturesi è antichissima e fervente, è dimostrata anche nelle continue attenzioni rivolte alla chiesa. Essa infatti è stata restaurata ben due volte, il primo intervento risale al 1937/38 ad opera di don Riccardo Cima, furono rifatti: la pavimentazione, alcune opere murarie e l'altare. Il secondo intervento restauro radicale e avvenuto nel 1968, il vecchio tetto il legno fu sostituito da uno in ferro, i muri perimetrali sono stati risanati, sono stati cambiati tutti gli infissi e anche il quadro, raffigurante S. Calimero, del Reali, sovrastante l'altare, fu affidato a mani esperte che l'hanno riportato alla primitiva bellezza. In occasione di tutto ciò, Mons. E. Assi, prevosto di Lecco, ha riaperto la chiesa al culto alla presenza di molti affezionati, ritornati lassù fedeli alle tradizioni. La ricorrenza annuale intende riproporre la processione che dal paese salirà con preghiere e canti fino alla chiesa, non per chiedere pioggia, ma per consolidare la fede che da secoli accompagna la devozione per "questa vetusta chiesetta". In occasione del restauro del quadro del Santo, opera del Reali (lavoro eseguito in memoria di Pigazzi Tommaso, proprietario di "Prabel") è stata rinnovata la scritta della facciata "A S. Calimero patrono dei nostri monti" incisa su tavola di legno da Angelo Ticozzi.


BASILICA DI SAN CALIMERO A MILANO

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Di origine antichissima (V sec.) la basilica si presenta oggi con tratti moderni, a causa di un restauro operato nel 1882. Della fase romanica si conserva, esternamente, l’abside (IX-X sec) ritmata da arcatelle a bocca di forno, e il fianco destro che presenta un paramento di mattoni a vista inframmezzati da corsi disposti a spina di pesce. 
Durante gli scavi compiuti nel 1905 nella cripta della chiesa si rinvennero dei mattoni con una marca di fabbrica che risultò essere quella di re Teodorico (493-526 d.C.). Il luogo in cui sorge la Basilica era anticamente un’area cimiteriale fuori dalle porte della città, lungo la via di Roma: ancora oggi murate sul fianco destro della chiesa vi sono alcune lapidi funerarie, pagane e cristiane, provenienti dalla vecchia necropoli. Della fase romanica S. Calimero conserva, esternamente, l’abside e il fianco destro che presenta un paramento di mattoni a vista inframmezzati da corsi disposti a spina di pesce. Un elemento particolare è il campanile, la cui cella campanaria è frutto di ricostruzione secentesca. Oggi è possibile ammirare la bellezza suggestiva e raccolta dell’ambiente, dall’architettura sobria, con ampia navata, terminante nella dolce linea incurvata dell’abside.
La chiesa è dedicata a San Calimero, un nobile che dopo un viaggio a Roma fu consacrato al sacerdozio.
Contemporaneo di S. Castriziano gli succedette come vescovo. La tradizione  vuole San Calimero martire, in quanto gettato da alcuni pagani in un pozzo dove trovò la morte. Il luogo in cui sorse la Basilica era anticamente un’area cimiteriale fuori dalle porte della città: ancora oggi murate sul fianco destro della chiesa  vi sono alcune lapidi funerarie pagane e cristiane provenienti dalla vecchia necropoli. Qui si tramanda fosse stato sepolto San Calimero e la chiesa a lui dedicata, probabilmente esistente fin dai tempi del vescovo Ambrogio, doveva essere una basilica cimiteriale almeno fino al XIII secolo. Sembra che la Basilica sia stata edificata, nel V secolo, sui resti di un tempio dedicato ad Apollo come riferisce una cronaca del IX-X secolo. 
IL POZZO CON L'ACQUA SANTA DI SAN CALIMERO

a non perdere

La pala con la natività, opera di un artista cinquecentesco influenzato da Gaudenzio Ferrari.

La tela della Crocifissione, attribuita a G. B. Crespi, detto il Cerano che si trovaaccanto all’ingresso di destra.

La cripta cinquecentesca, dalla volta affrescata dai Fiammenghini. Inoltre, sopravvivono: unpiccolo affresco (Madonna fra due sante, XV secolo, attribuita a Cristoforo Moretti) sul lato destro del catino dell'abside, una Natività di Marco d'Oggiono, alterata da ridipinturerecenti che la rendono illeggibile in più punti e il Martirio di san Sebastiano, attribuito al Morazzone.   


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https://www.culturacattolica.it/cultura/il-calendario-del-marciapiedaio/giorno-per-giorno/il-calendario-del-31-luglio

fu, secondo la maggioranza degli storici del Cristianesimo, vescovo di Milano dal 270 al 280, mentre la tradizione lo indica come vescovo dal 138 al 191. Viene venerato come santo dalla Chiesa cattolica e da quella ortodossa.
Le fonti non sono concordanti sulle sue origini: alcune leggende lo ritengono un romano di famiglia nobile che, dopo una carriera militare col grado di ufficiale, fu prima convertito e battezzato dai santi Faustino e Giovita e, dopo una vita al servizio della sua fede, ordinato vescovo di Milano; altre versioni lo indicano come greco, cresciuto a Roma e educato alla fede cristiana dal Papa Telesforo: fuggito a Milano dopo che quest'ultimo fu ucciso dai suoi persecutori, venne accolto dal Vescovo Castriziano tra i membri del clero meneghino e destinato alla basilica "fausta". Alla morte di quest'ultimo furono gli stessi milanesi ad acclamarlo vescovo e, al suo rifiuto di sottostare alla loro volontà, ad incatenarlo fino al momento della consacrazione episcopale.
Entrambe queste versioni lasciano adito ad innumerevoli perplessità essendo la prima eccessivamente scarna e generica e ritenendolo la seconda contemporaneo di Telesforo e Adriano, vissuti un secolo prima della sua consacrazione vescovile.
Parte minoritaria della storiografia, forse influenzata da tale leggenda, ritiene più probabile che fosse stato vescovo di Milano dal 139 al 192, basando la propria convinzione su una lastra marmorea posta nel Duomo contenente la cronologia dei vescovi milanesi: in realtà tale elemento non sembra probante essendo il Duomo stato costruito diversi secoli dopo la vita del Santo. La retrodatazione della sua vita è tuttavia spiegabile a livello storico: nell'XI secolo infatti i milanesi, in disaccordo con Roma circa l'eresia dei patarini, retrodatarono la storia della loro diocesi per dimostrare una "pari anzianità" con quella di Roma. In tal modo le vite di molti santi vescovi (come Anatalone, Caio e lo stesso Calimero) furono collocate antecedentemente alla loro reale esistenza e ampliate notevolmente per coprire il gap di oltre un secolo che si era in tal modo venuto a creare.
Le due versioni biografiche sono comunque concordi nella descrizione del suo martirio, che sarebbe seguito alla condanna a morte a lui comminata dall'imperatore Adriano per essere andato in forte collisione, nel perseguitare i nemici del cristianesimo, con personaggi influenti legati alla corte imperiale.
Acerrimo persecutore della religione pagana, fautore del battesimo coatto dei non cristiani, pare sia stato trafitto con una lancia da alcuni di essi mentre si trovava in un cimitero di Milano e, come contrappasso per la sua attività di battezzante, sia stato gettato in un pozzo sito in quella che i pagani ritenevano l'area sacra al dio Belenos.
Tuttavia anche il suo martirio non è affatto certo, essendo stato riportato per la prima volta solo nel VIII secolo e non facendone Sant'Ambrogio alcuna menzione nei suoi scritti.
Ciò che risulta tuttavia sicuro è che Calimero fu molto amato dai cittadini di Milano, tanto che, subito dopo la sua morte, fu costruita una basilica per onorarlo che, ristrutturata nel corso dei secoli, è tuttora presente ed ospita nella sua cripta le ossa del santo.
Nel VIII secolo il vescovo Tomaso, durante una ricognizione a queste ultime, trovò il suo scheletro immerso nell'acqua: nella cripta fu quindi scavato un pozzo per farla defluire e in breve tempo, si diffuse la credenza che le sue acque fossero miracolose.
In passato, in occasione della festività di San Calimero, che si svolgeva il 31 luglio, queste venivano distribuite ai malati e, durante i periodi di siccità, una bottiglia di acqua del pozzo veniva consacrata durante la Messa e in seguito rovesciata sul sagrato, per propiziare l'avvento del maltempo.
I suoi emblemi sono il pastorale e la palma.
Oltre alla citata basilica, tra gli altri luoghi sacri dedicati al santo possiamo citare la chiesa di San Calimero a Pasturo (LC) e il santuario della Madonna di San Calimero a Bolladello di Cairate (VA).
Forse fu lui a scrivere la Lettera di Barnaba.

lunedì 30 luglio 2018

30 luglio Santi Italici ed Italo greci


  Cristo incorona i santi Abdon e Sennen, ai lati i santi Milex e Vincenzo. Roma, Catacombe di Ponziano

Santi Abdon e Sennen persiani martiri a Roma

Abdon e Sennen sono originari della Persia. Convertiti al cristianesimo, furono imprigionati durante la persecuzione voluta dall'imperatore Decio (III secolo) e legati insieme in catene furono condotti a Roma, dove furono prima bastonati e quindi subirono il martirio uccisi con la spada probabilmente al Colosseo.
Le loro reliquie sono conservate nella basilica di S. Marco Evangelista al Campidoglio dove furono portate da papa Gregorio IV dal cimitero di Ponziano.

Tratto da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/90207
Abdon e Sennen sono due martiri certamente esistiti nel III secolo, che subirono il martirio a Roma; le notizie che riguardano la loro vita sono leggendarie, ma un fondo di verità ci deve essere senz’altro. Per prima cosa essi sono ricordati da un gran numero di testi ufficiali e martirologi, come il “Depositio Martyrum”, il “Martirologio Geronimiano”, il “Calendario marmoreo di Napoli”, nei “Sacramentari Gelasiano e Gregoriano”.
Questi testi citano la deposizione delle reliquie, nel Cimitero di Ponziano dei santi martiri di Roma ‘Abdos et Sennes’; questo cimitero era sulla via Portuense, presso l’attuale via Alessandro Poerio e citano alcuni come il ‘Martirologio Geronimiano’, la celebrazione al 30 luglio, data che poi è passata nel ‘Martirologio Romano’, testo ufficiale in vigore nella Chiesa Cattolica.
Ancora celebri testi medioevali, ricordano che tanti pellegrini giunti a Roma, visitavano la via Portuense, entrando nella basilica dove riposavano i loro corpi, questa chiesa era abbastanza grande e nel ‘Liber Pontificalis’ si dice che fu restaurata dai papi Adriano I (772-795) e Niccolò I (858-867).
L’ignoto autore della ‘passio’ dei due santi, forse indotto dai loro nomi esotici, li classifica come due principi persiani, che nella loro condizione di schiavi o di liberti a Roma, si prodigavano a seppellire i martiri.
Questo loro impegno li fa accusare presso l’imperatore Decio (200-251), artefice della settima persecuzione contro i cristiani, che li fa mettere in prigione; in seguito essi compaiono davanti al Senato, rivestiti da abiti dignitosi ma incatenati. Giacché rifiutarono, secondo la prassi, di sacrificare agli idoli, vennero condannati a morte e condotti nell’anfiteatro dove sorgeva il Colosso di Nerone, fra l’Anfiteatro Flavio e il tempio di Venere, per essere divorati dalle belve feroci.
Ma essi miracolosamente ammansirono gli animali, che li evitarono, allora Abdon e Sennen vennero decapitati dai gladiatori. I loro corpi vennero gettati davanti alla statua del Sole, dove rimasero tre giorni, finché il diacono Quirino li raccolse nascondendoli nella sua casa, dove restarono per lunghissimo tempo.
In seguito, grazie ad una rivelazione (fenomeno che compare in molte vite di santi), vennero ritrovati e portati nel Cimitero di Ponziano. In questo cimitero vi è un affresco del VI secolo che li raffigura con barba, vestiti di tunica, con il berretto frigio, sopra l’affresco una iscrizione latina li nomina senza equivoci; nell’affresco Abdon appare più maturo con barba corta e rotonda, mentre Sennen ha la barba a punta e senz’altro più giovane; ancora nello stesso cimitero fu ritrovata una lampada di terracotta del V secolo, con l’immagine di un personaggio in preghiera, coperto da un ricco mantello persiano con barba breve e rotonda, in cui si è voluto identificare Abdon.
Le loro reliquie furono poi ‘depositate’ nella basilica di S. Marco papa, al tempo di papa Sisto IV (1471-1484), infatti nel 1948 si rinvenne sotto l’altare maggiore, un’arca granitica contenente una grande cassa di cipresso con molte reliquie e una pergamena datata 1474, che indicava la deposizione delle reliquie dei santi Marco papa, Abdon e Sennen martiri, Restituto ed altri.
Nel Medioevo una parte delle reliquie furono trasferite ad Arles-sur-Tech nei Pirenei Orientali; la diocesi francese di Perpignon, appunto nei Pirenei, li venera come suoi patroni. I due santi sono stati oggetto privilegiato di molte opere artistiche in varie chiese e cattedrali, in Italia ed in Europa; oltre la ricchezza delle vesti per indicarne l’origine persiana, spesso portano un diadema regale come quello attribuito a volte ai Re Magi che appunto erano orientali; ma la presenza costante è la spada con cui vennero decapitati.
Nella basilica di S. Marco di Roma c’è un altare con le reliquie ed a loro dedicato.
ATTI DEL MARTIRIO
DEI SANTI ABDON E SENNEN

Tratto da
http://www.oodegr.com/tradizione/tradizione_index/vitesanti/abdonsennen.htm
   1. A quel tempo cominciò Decio a cercare con premura i cristiani, ed estese a tale uopo la sua autorità su di tutta la Persia. Allora perché non fu possibile di tenere nascoste le lucerne sotto del moggio, furono poste invece sul candelabro, affinché risplendessero a tutti quei, che trovavansi nella casa del Signore. Vennero pertanto a Decio i pagani e gli dissero: “Ecco che quegli a cui tu donasti il sangue e la vita nella tua vittoria, raccolgono i corpi dei cristiani, e li nascondono in un lor podere; e non si umiliano agli dei, né obediscono ai tuoi comandi col prestare ad essi i dovuti onori”. Disse Decio: “Chi sono mai questi profani?”. Risposero quelli: essere Abdon e Sennen. Nella medesima ora ordinò Decio che gli fossero presentati Abdon e Sennen, i quali come che vennero al cospetto di Decio disse ad essi: “Così dunque voi siete divenuti stolti? Oppure non vi rammentate, che come ribelli agli dei siete stati da essi consegnati nelle mani dei romani e nostre?”. Rispose Abdon: “Noi divenimmo maggiormente vincitori coll’ajuto di Dio, e del nostro Signore Gesù Cristo che regna in eterno”. Decio adirato soggiunse: “Non sapete voi che la vostra vita è umiliata nelle mie mani?”. Rispose Abdon e disse: “Noi siamo umiliati al nostro Dio Padre e Signore Gesù Cristo, che degnossi per la nostra salute di venir sulla terra, ed umiliarsi”. Quindi comandò Decio che fossero legati da catene, e chiusi in una stretta prigione. Allora dissero Adon e Sennen: “Ecco la gloria, che abbiamo sempre sperato da Signore”.
2. Nel medesimo tempo fu annunziata a Decio la morte di Galba (ossia di Gordiano), e si mosse alla volta di Roma. Venne poi Decio dopo quattro mesi a Roma seco conducendo i beatissimi regoli Abdon e Sennen stretti da catene per il nome del nostro Signore Gesù Cristo, riserbandoli, perché erano nobili, per la gloria del trionfo, onde servissero di spettacolo ai romani…
3. Allora Decio ordinò che si convocasse il senato; ed avendo conferito e presi i concerti sul proposito con Valeriano prefetto ai ventotto del mese di luglio, vollero gli si presentassero i regoli cristiani Abdon e Sennen, ch’egli avea condotto dalla Persia, macerati dal carcere: e disse Decio al senato: “Ascolti il vostro consesso o padri coscritti: i numi diedero nelle nostre mani questi nemici ferocissimi; ecco gl’inimici della repubblica e del romano impero”. E furono introdotti legati da catene, e riccamente vestiti con molto oro e pietre preziose; appena furono veduti dai senatori, rimasero questi presi da meraviglia per il loro aspetto; imperciocché tanta grazia diede il Signore ai suoi servi, ch’eccitasse piuttosto negli astanti la compassione, che lo sdegno.
4. Quindi ordinò Decio che venisse Claudio capo de’ sacerdoti[1] del Campidoglio, e questi recossi sul luogo dell’adunanza seco portando il tripode; e disse allora Decio cesare ad Abdon e Sennen: “Sagrificate agli dei, e siate regoli della romana libertà, e possederete le cose tutte nostre, la pace dell’impero, e sarete premiati con ricchezze ed onori; provvedete a voi stessi”. Risposero Abdon e Sennen: “Noi immeritevoli e peccatori abbiamo offerto una volta per sempre il sagrificio e l’oblzione al Signor nostro Gesù Cristo, e non ai tuoi numi”. Decio disse: “Devono prepararsi a costoro acerbissimi tormenti”, e comandò che si tenessero pronti gli orsi feroci, e i leoni. Risposero Abdon e Sennen: “A che tardi? Fa ciò che credi: noi viviamo sicuri nel Signor nostro Gesù Cristo, che può distruggere tutt’i tuoi pensamenti, e te stesso”.
5. Nel giorno appresso vennero taluni e enunciarono a Decio che molti orsi e leoni erano periti nelle custodie del vivario. Allora Decio adirato ordinò, che gli si preparasse il suo posto nell’anfiteatro[2]; ma come però vi giunse non volle entrarvi, ma prescrisse al prefetto di Roma Valeriano, che se quelli non avessero adorato il dio Sole, morissero lacerati dai morsi delle belve. Valeriano all’istante disse ad Abdon e Sennen: “Provvedete alla nobiltà della vostra nascita, e presentate l’incenso al dio Sole; lo che se voi non effettuerete, dovrete perire per i morsi delle fiere”. Risposero Abdon e Sennen: “Noi adoriamo il Signor nostro Gesù Cristo; e non ci siamo mai umiliati con culto ai vani simulacri lavorati dalle mani degli uomini”. Sul momento li fece spogliare dei loro vestimenti, e pieno di furore li condusse avanti il simulacro del Sole, ch’era posto d’appresso all’anfiteatro. Quei beatissimi martiri dispreggiando il simulacro, e sputandogli d’innanzi, dissero a Valeriano: “Fa pure adesso ciò, che hai stabilito di fare”.
6. Comandò allora Valeriano al banditore che mentre i martiri venivano battuti colle piombarle dicesse ad alta voce: “Non vogliate bestemmiare i dei”; poscia li fece introdurre nell’anfiteatro, affinché fossero consumati dalle belve. Ed appena entrarono i santi Abdon e Sennen dissero al cospetto di Valeriano: “Nel nome del Signor nostro Gesù Cristo entriamo alla corona; egli t’inibisca immondo spirito di recarci nocumento”, e segnatisi col segno della croce entrarono nell’anfiteatro. Presentati che furono al cospetto di Valeriano nudi coi loro corpi, ma rivestiti del corpo di Cristo, disse il prefetto: “Siano lasciati due leoni e quattro orsi”; i quali appena furono liberi vennero ruggendo ai piedi dei santi Abdon e Sennen, e non si scostarono punto da essi, ma stavano bensì alla loro custodia. Disse Valeriano: “Ora apparisce la loro arte magica”: e niuno poteva accostarsi ai santi per l’impeto delle belve.
            7. Valeriano pieno di furore comandò ai gladiatori ch’entrassero armati dei loro tridenti, e gli uccidessero: i quali appena caddero morti, gli furono legati i piedi per ordine di Valeriano, e balzati avanti il simulacro del Sole vicino all’anfiteatro, giacquero ivi i corpi per tre giorni ad esempio e terrore de’ cristiani. Dopo il terzo giorno venne un tal Quirino cristiano suddiacono, che abitava non lungi dall’anfiteatro, e raccolse di notte tempo quei corpi, e li ripose ai 30 di luglio in un arca di piombo, e li seppellì in sua casa. Riposarono in quel luogo nascosti i corpi dei santi Abdon e Sennen per molti anni fino al tempo di Costantino: allora avvenne che essendo già Costantino addivenuto cristiano[3], questi beati martiri rivelassero il luogo della loro sepoltura; dalla quale tolti i santi loro corpi furono trasportati e tumulati nel cimiterio di Ponziano[4].

Da: Gli Atti della Passione degli illustri santi martiri Abdon e Sennen, illustrati colla storia e coi monumenti da monsignore Domenico Bartolini, Roma, 1859, 13-18.
[1] Probabilmente i sacerdoti del tempio di Giove Capitolino.
[2] L’anfiteatro Flavio, più conosciuto come Colosseo, a motivo della colossale statua in origine raffigurante Nerone e fatta collocare nei pressi dell’anfiteatro stesso da Adriano; in odio a Nerone al tempo di Vespasiano la statua era stata modificata e trasformata nel simulacro del dio Apollo citato nel nostro testo. Il Bartolini ipotizza che essendo i due cristiani Persiani, Decio possa aver tentato di riavvicinarli al culto Zoroastriano della luce, che non era loro estraneo.
[3] Costantino fu considerato nell’antichità imperatore cristiano, sebbene secondo un uso dell’epoca avesse atteso la vecchiaia per essere battezzato.
[4] I loro corpi furono prelevati dalle catacombe da papa Gregorio IV e traslati nella basilica di san Marco, ove sono tuttora venerati.


domenica 29 luglio 2018

29 luglio santi italici ed italo greci

 


Santa Serafina Vergine e Martire di Antiochia

 Tratto da: https://www.johnsanidopoulos.com/2011/12/saint-seraphima-virgin-martyr-of.html
Traduzione a cura di Giovanni Fumusa.



La Santa Vergine e Martire Serafina, nativa di Antiochia, visse a Roma durante il regno dell’Imperatore Adriano (117-138) con l’illustre patrizia romana Sabina, convertita al Cristianesimo. Durante la persecuzione contro i cristiani iniziata per ordine dell’imperatore, il governatore Berillo ordinò che Santa Serafina fosse portata a giudizio. Desiderosa di ricevere la corona del martirio dal Signore, alla prima citazione, si diresse senza timore verso il boia. L’accompagnava la devota Sabina. Notando la donna illustre, Berillo inizialmente lasciò libera la giovane, ma qualche giorno dopo riconvocò Santa Serafina e il processo ebbe inizio.
Il governatore invitò la santa ad onorare gli dei pagani e ad offrire loro sacrifici, ma confessò coraggiosamente la sua vede nell’Unico Vero Dio – Gesù Cristo. Quindi Berillo la consegnò a due giovani spudorati affinché la deflorassero. La santa martire supplicò il Signore di difenderla. Improvvisamente vi fu un terremoto ed I due giovani caddero paralizzati al suolo. Il giorno successivo, il governatore apprese che il suo piano era fallito. Pensando che la santa fosse esperta nella magia, Berillo la implorò di far tornare i due giovani in salute e di ridare loro il dono della parola, affinché potessero essi stessi raccontare il miracolo. La Santa, pregando il Signore, ordinò ai giovani di alzarsi ed essi immediatamente si alzarono e raccontarono al giudice che un Angelo del Signore aveva protetto la santa, impedendo loro di avvicinarsi a lei. Il feroce governatore non credette ai suoi servi e continuò ad insistere su Santa Serafina, affinché offrisse sacrifici agli idoli. Ma la santa martire rimase irremovibile, anche mentre la bruciavano con candele accese e la percuotevano spietatamente con delle canne. Una severa punizione colpì il crudele governatore: delle schegge dai bastoni con cui veniva picchiata la santa, lo colpirono negli occhi e, dopo tre giorni, il tormentatore divenne cieco. Impotente di fronte all’irremovibile cristiana, il giudice ordinò che venisse decapitata. Sabina, con riverenza, seppellì il corpo della sua santa maestra.


 
Santi Lucilla, Flora, Eugenio e compagni Martiri a Roma verso il 262

Tratto da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/65000
Il Martirologio Romano li ricorda il 29 luglio e attesta che perirono a Roma al tempo dell'imperatore Gallieno. La passio, scritta probabilmente nel sec. IX, non è altro che un plagio di quella dei santi Luceia e Auceia con qualche insignificante variazione. Con molta verosimiglianza essa fu composta nel monastero di S. Fiora sul monte Amiata, perché, in appendice, si racconta che i loro corpi, seppelliti dapprima in un suburbio di Ostia, al tempo del papa Benedetto III sarebbero stati trasferiti ad Arezzo; durante il viaggio però la giumenta che li trainava si fermò sul monte Titano, a due miglia da Arezzo ed ivi sorsero una basilica ed un monastero che, insieme col paesetto vicino, presero il nome di S. Fiora.
Da quel luogo il culto dei nostri santi si diffuse non soltanto in Italia, ma anche in Germania, Svizzera, Francia e Spagna, dove parecchie città dicono di possederne alcune reliquie.

Un’antica tradizione narra che Flora e Lucilla erano sorelle, cittadine romane, vissute nel terzo secolo. Si distinsero a Roma per fede, amore alla castità e disprezzo del mondo. Un giorno, ad Ostia, furono rapite da un africano di nome Eugenio che in seguito, commosso dal loro esempio, si convertì. Quando l’imperatore Gallieno pubblicò l’editto di condana dei cristiani, Flora e Lucilla diedero prova di straordinario coraggio, sacrificando per Cristo la propria vita. Era circa l’anno 260. La tradizione aggiunge che nel secolo IX le loro reliquie vennero portate ad Arezzo, nel monastero benedettino che sorgeva nei pressi dell’Olmo. Nel 1196 i monaci dovettero lasciare il colle della Torrita (che ancora si chiama S. Flora). Costruirono il monastero ad Arezzo, portando in badia le preziose reliquie, oggi custodite nell’altare dedicato a s. Rita. La festa locale di Flora e Lucilla è fissata al 29 luglio.


Santi Simplicio, Faustino, Viatrice e Rufo Martiri a Roma sotto Diocleziano  nel 302
Tratto da
https://it.wikipedia.org/wiki/Viatrice_di_Roma
 Durante le persecuzioni di Diocleziano, Viatrice (in latino Viatrix) recuperò nell'ansa del Tevere “iuxta locum qui appellatur sextus Philippi” i corpi dei fratelli Simplicio e Faustino, che avevano sofferto il martirio e che erano stati gettati nel fiume Tevere all'altezza dell'isola Tiberina. Viatrice diede sepoltura dei fratelli in quel luogo (ora catacombe di Generosa) aiutata dai presbiteri Crispo e Giovanni, ma fu denunciata per la sua fede cristiana da un parente di nome Lucrezio, che aspirava alla sua eredità. Pertanto, fu imprigionata e nonostante le minacce dei giudici, perseverò nella sua fede. Fu condannata a morte e morì a Roma tra il 303 e 304[2]
Viatrice in seguito fu deposta accanto ai suoi fratelli da una pia matrona romana e cristiana, Lucina che, dopo aver preso i corpi dei martiri, decise di dar loro sepoltura in sua cava di pozzolana, trasformandola così in un cimitero cristiano. La catacomba detta "di Generosa" sorgeva al VI miglio della via Campana/Portuense, per questo i santi furono detti Martiri Portuensi.
Le reliquie della santa e dei fratelli Simplicio e Faustino furono traslate nel piccolo Oratorio dedicato a San Paolo della chiesa di Santa Bibiana all'Esquilino intorno al 682 da Papa Leone II. Il Papa Urbano VIII fece restaurare questa antichissima chiesa: l'opera fu affidata a Gianlorenzo Bernini che decise di abbattere l'antico Oratorio per cui l'arca marmorea del VII secolo fu portata nella Basilica di Santa Maria Maggiore, dove si conserva ancor oggi murata al primo piano della canonica in via Liberiana.
Un "corpo santo", venerato con il nome di santa Beatrice vergine e martire, è custodito nella chiesa di San Nicola dei Greci ad Altamura. La parte più significativa delle reliquie si trova però in Germania, nelle città di Fulda, Lauterbach, Amorbach e Hainzell[3][4]. Reliquie dei santi si trovano anche nelle chiese di San Nicola in Carcere a Monte Savello, in un santuario delle Marche e nella cappella di San Lorenzo all'Escorial di Madrid
La ricorrenza liturgica della santa e dei suoi fratelli si celebra nel giorno in cui furono uccisi Simplicio e Faustino, ovvero l’ante diem IV kalendæ augustæ, cioè il 29 luglio. La stessa data è ripresa dal Martirologio Romano:
« Sempre a Roma nel cimitero di Generosa, santi Simplicio, Faustino, Viatrice e Rufo, martiri.
1.       ^ Matthiae G.,Pittura romana del Medioevo
2.       ^ Nouveau dictionnaire des prénoms de Jean-Maurice Barbé, 1985, Ouest-France Nominis, Sainternet.
3.       ^ Via dei Martiri su Arvalia Stori
4.       ^ [1] su Comitato Catacombe di Generosa





tratto  da
http://www.arvaliastoria.it/public/post/via-dei-martiri-297.asp
La tradizione agiografica, attraverso una Passio altomedievale, riporta la vicenda dei Martiri Portuensi - i fratelli Simplicio, Faustino e Beatrice (in latino Simplicius, Faustinus e Viatrix) -, la cui prima sepoltura avvenne lungo la Via Portuense (dice il De locis sanctis: «ii qui dormiunt iuxta viam Portuensem») nella cava di tufo.
Il racconto colloca l’arresto di Simplicio e Faustino durante l’ultima grande e feroce persecuzione contro i cristiani, nell’anno 303. Scrive Emilio Venditti: «I tempi di Diocleziano sono i più duri per i cristiani, accusati di essere colpevoli di tutti i mali dell’Impero. E quindi, anche se pacifici predicatori della non-violenza, considerati da eliminare drasticamente e con la forza. In genere agli arresti seguiva un sommario processo, durante il quale il cristiano che non avesse abiurato subiva la pena di morte». Succede che Simplicio e Faustino rifiutano di spargere l’incenso di fronte alla statua dell’Imperatore - gesto simbolico che li avrebbe scagionati da ogni accusa -, opponendo il sovversivo messaggio dell’uguaglianza cristiana: «Non più schiavi, ma liberi e fratelli, perché figli dello stesso Padre». I due vengono quindi torturati e gettati a fiume: è il giorno ante diem IV kalendæ augustæ, cioè il 29 luglio, che verrà assunto dalla Chiesa come loro giorno di festa liturgica.
Non si conosce il luogo esatto del loro sacrificio, se non attraverso un versetto che accenna a un ponte «lapideo» («per pontem qui vocatur lapideum»). Per alcuni ponte lapideo significa Ponte Lepido all’Isola Tiberina, ed il fiume è quindi il Tevere; per altri invece il ponte lapideo è un generico ponticello di pietra, e il corso d’acqua potrebbe essere il torrente Affogalasino, affluente del Tevere. Peraltro una suggestiva memoria del martirio trebbe essere contenuta proprio nel nome Affogalasino: asini era infatti lo spregiativo epiteto che i pagani davano ai cristiani, e dar loro la morte per annegamento era consuetudine.
Una volta gettate al fiume, le salme dei due giovani martiri, sospinte dalla corrente, raggiungono l’Ansa della Magliana, dove si arenano «in loco qui appellatur Sextum Philippi», cioè sul possedimento di un tale Filippo al VI miglio, all’interno dell’area sacra del Lucus dei Fratelli Arvali. Qui una terza sorella, Beatrice, aiutata dai presbiteri Crispo e Giovanni, ne cura pietosamente la sepoltura, sebbene in segreto e in gran fretta. Un testo, citato dall’archeologo Giovanni Battista De Rossi, racconta quel momento: «Viatrice, con i preti Crispo e Giovanni / salita per la paurosa via entro i sentieri del bosco / giunse tosto al vicino campicello della cristiana Generosa / E quivi, entro spelonche arenarie / nascose alla meglio il Santo deposito». Il testo contiene un paio di informazioni importanti. La prima sono le spelonche arenarie: da essa colleghiamo il futuro cimitero cristiano alla preesistente cava di tufo. La seconda è la prima apparizione del nome Generosa, che non è un appellativo reale: la prassi ecclesiastica attribuisce infatti, ai personaggi di cui non si conosce esplicitamente il nome, un nome di fantasia che ne indica le virtù cristiane. Generosa è il semplice attributo della coraggiosa matrona, disposta ad accogliere nel suo possedimento le spoglie mortali dei pericolosi santi sovversivi, rischiando ovviamente la propria vita.
Peraltro, anche il nome di Viatrix (Beatrice) sembrerebbe un nome attributivo: da Viatrix, colei che percorre la via, ad indicare il ruolo di pietosa curatrice del percorso dal Tevere alla tomba, e ad evocare anche potenti significati cristiani. Riportiamo le parole di Emilio Venditti: «Il nome vero della Santa era senza alcun dubbio Viatrice, la cui radice Via è chiaramente di origine cristiana - Cristo è Via, Verità, Vita -. Viatrix, femminile di Viator, colei o colui che va, che è in cammino, non è forse anche la condizione di ogni uomo nella vita terrena, quale passeggero in viaggio verso il suo fine ultimo che è il ritorno a Dio? La ragione della trasformazione di Viatrice in Beatrice fu dovuta molto verosimilmente ai tardi trascrittori degli atti dei Santi, i quali, credendo bene di correggere un vecchio errore, corruppero invece il vero nome».
Beatrice segue poco dopo il tragico destino dei due fratelli. Arrestata e condotta di fronte al tiranno Lucrezio, confessa fermamente la sua fede in Cristo, finendo anch’ella uccisa, in un luogo imprecisato. Un’altra matrona, la nobile Lucina, provvede alla sua sepoltura vicino ai fratelli, nella stessa cava della Magliana. Da quel momento il sito, vuole la tradizione, cessa di essere utilizzato come cava, per diventare esclusivo luogo di sepoltura di altri cristiani, e di venerazione delle spoglie dei Martiri.

La dispersione delle reliquie
Le spoglie dei Martiri rimarranno lì fino al 682, anno della traslazione in Santa Bibiana all’Esquilino, accanto alla quale il Papa fece costruire un piccolo Oratorio dedicato ai Santi Martiri.
Da questa traslazione alla dispersione delle reliquie il passo è breve, tanto è vero che, nella canonica della Basilica di Santa Maria Maggiore, murata alla parete del primo piano, esiste il coperchio, ormai vuoto, di un sarcofago risalente al VII secolo che contenne i sacri corpi sul quale, con caratteri molto semplici, si legge la seguente dedica:
MARTYRES SIMPLICIVS ET FAVSTINVS
QVI PASSI SVNT IN FLVMEN TIBERE
ET POSITI SVNT IN CIMITERIVM
GENEROSES SVPER FILIPPI
Loro reliquie si trovano anche nelle chiese di San Nicola in Carcere a Monte Savello, in un santuario delle Marche e nella Cappella di San Lorenzo all’Escorial di Madrid. La parte più significativa delle reliquie si trova però in Germania, nelle città di Fulda, Lauterbach, Amorbach e Hainzell.
Una breve appendice è utile a questo punto, per dare notizie della memoria dei Santi Martiri quale attualmente viene celebrata nella Chiesa di Roma e fuori dai confini di questa; è necessario pertanto seguire l’ordine cronologico delle notizie che conosciamo. Come già accennato in precedenza, gli atti del Liber Pontificalis narrano della traslazione delle reliquie in Santa Bibiana ai tempi di Leone Il dove, in un piccolo Oratorio dedicato a San Paolo, tenuto dalle monache Benedettine, si continuò a celebrare il culto ai Santi che, per forza maggiore, era stato interrotto alla Magliana. Ma, anche in questa sede, la sistemazione non fu definitiva.
C’era nella Chiesa la norma che stabiliva di deporre alcune reliquie di martiri incastonandole nella pietra di ogni altare dove si officiava la Santa Messa. Si rese, pertanto, necessario ai Vescovi di attingere presso tutti i reliquiari dei Martiri esistenti in Roma, per fornire di reliquie il sempre crescente numero di altari che si consacravano.
Fu questa la causa del quasi totale frazionamento delle venerate spoglie dei Santi fratelli in piccole particole che finirono in moltissime chiese di Roma, d’Italia ed anche all’estero.
Il fenomeno di questa dispersione dei resti dei Santi Simplicio, Faustino e Beatrice, se da un lato portò alla quasi disgregazione delle reliquie, dall’altra, in compenso, allargò enorme mente la notorietà ed il culto dei Martiri a tutta la Chiesa, arricchendo di profondi valori spirituali le comunità toccate dal contatto con questi sacri avanzi.

L’Arca di Santa Maria Maggiore
Si aggiunse, attorno alla metà del 1600, un fatto che cambiò la storia della venerata tomba conservata in Santa Bibiana.
Il Pontefice Urbano VIII Barberini decise di restaurare questa antichissima chiesa, ormai fatiscente, e di affidarne l’incarico a Gianlorenzo Bernini. Questo grande artista che lavorò per oltre 30 anni a completare ed abbellire la Basilica di San Pietro e che affermava esplicitamente di voler lavorare unicamente per opere grandiose, decise di abbattere l’antico Oratorio dei Santi Martiri, per cui l’arca marmorea che vi si conservava fin dal VII secolo fu portata nella basilica di S. Maria Maggiore, dove si può ancor oggi vedere murata al primo piano della canonica in via Liberiana.
Questo documento marmoreo (riferito alo frontone con l’epigrafe “stino Viatrici”) conferma dunque che il complesso cimiteriale dell’Oratorio e delle Catacombe sono effettivamente il luogo storico della primitiva sepoltura dei Martiri Portuensi. Conclude Venditti: “La soluzione del rebus, ricercata da secoli, era stata finalmente trovata. Questo cimitero è effettivamente il «Coemeterium Generoses super Filippi» vanamente cercato per secoli sulla riva destra del Tevere seguendo l’incerta traccia della dedica che copriva l’antico sarcofago”.

L’Arca di San Nicola in carcere
Le notizie sul frazionamento di queste reliquie datano, comunque, da tempi molto più remoti, anche se la tradizione che ci è tramandata dal Medio Evo è abbastanza complessa e confusa.
A Roma su molti altari furono depositate piccole particelle delle sacre ossa, mentre la parte più consistente delle reliquie è attualmente conservata nella chiesa di S. Nicola in Carcere a Monte Savello.
Sotto l’altare maggiore di questa piccola e graziosa chiesina, costruita sui resti del «carcere tulliano» al Foro Olitorio, proprio accanto al Teatro di Marcello, in un prezioso sarcofago di porfido si conservano i resti mortali dei nostri Santi, raffigurati in un dipinto all’interno dell’arco absidale, dominato dall’affresco riproducente il Concilio di Nicèa.

I reliquiari delle Marche
Parte dei resti di S. Simplicio, sono ripartiti in altri reliquiari fuori Roma, in special modo nelle Marche.

Le reliquie dell’Escorial
Non soltanto a Roma ed in Italia si sparsero comunque queste venerate reliquie, ma anche all’estero, con risvolti di grande interesse storico-civile, oltreché religioso.
I Santi fratelli sono noti da molti secoli in Spagna; sappiamo che, fin dal 1483, Innocenzo VIII, famoso alla Magliana per aver fatto costruire la prima ala della villa papale per gli usi di caccia, ancora esistente, fece dono a Milano di alcune reliquie alla imperatrice Anna d’Austria, madre di Carlo V, che le depose in seguito nella Cappella dedicata a San Lorenzo, presso l’Escuriàl, il palazzo reale di Madrid. La scelta di questo, che è forse il più prestigioso palazzo della intera Spagna, completamente costruito in granito ed arricchito di preziose decorazioni di grandi pittori italiani quali il Tintoretto, il Tiziano ed il Veronese, dimostrano quanto riguardo e venerazione si ebbe per i Santi romani del Cimitero di Generosa.

Le reliquie a Fulda
Altre reliquie finirono in Germania dove il culto che vi si instaurò, arrivò ad incarnarsi nella vita stessa della regione dell’Assia.
I martiri delle catacombe della Magliana divennero, infatti, i compatroni della nobile città di Fulda, già capoluogo e splendido insieme barocco, carico di storia e ricco di millenari monumenti, testimonianti la anti chissima fede cristiana del popolo tedesco.
La tradizione parla dell’arrivo di alcune reliquie dei Santi Martiri in questa città portate nell’VIII secolo, in seguito all’arrivo di San Bonifacio, evangelizzatore della Germania e proclamato, poi, patrono di questa grande nazione. La leggenda narra che, all’arrivo dei venerati resti, dono del Papa ad una comunità di monaci Benedettini che avevano qui il loro monastero, l’omonimo fiume Fulda, che scorre in questa regione e che all’epoca non aveva ponti, arrestò improvvisamente il suo flusso e, aprendosi, come il mar Rosso si dischiuse dinnanzi a Mosé, permise l’attraversamento a piedi dell’alveo del fiume ai latori del prezioso dono, evitando a questi di bagnarsi perfino i calzari.
Attraverso i secoli si hanno ininterrotte notizie di culto per i nostri Santi, oltre che a Fulda, anche nelle altre città di Lauterbach, Amorbach e nel paesino di Hainzell a 15 chilometri da Fulda dove, attualmente, le reliquie sono conservate nella chiesa parrocchiale dedicata appunto ai Santi Simplicio, Faustino e Beatrice.
Singolarissima è l’impronta lasciata da questi Santi nel tessuto stesso della storia, oltreché religiosa, anche civile di questa regione, tanto che, ad esempio, per molti secoli i sigilli dello Stato, della Magistratura e degli Uffici pubblici riportavano tre gigli, nei quali la tradizione popo lare vedeva il simbolo dei tre Martiri romani. Nell’interessante studio del tedesco Ludwig Weth dal titolo: «I Santi Simplicio Faustino e Beatrice e loro importanza per l’Abbazia ed il territorio di Fulda», si elencano moltissime monete coniate a Fulda ed in altri centri dell’Assia, alcune delle quali risalenti fin dall’anno 1019, con sovraimpressi i tre gigli. Alcune città come Lauterbach, Geisa, Hammelburg e soprattutto Fulda, notevoli per la loro storia e per la loro bellezza, riportano tutt’ora sullo stemma cittadino (Stadtwappen), uniti ad altri elementi, i tre gigli. Lo stemma di Fulda, ad esempio, diviso in due campi, unisce ai gigli la croce, simbolo cristiano per eccellenza ed emblema della celebre Abbazia Benedettina di Fulda.
Interessanti contatti hanno ravvivato di recente il messaggio di fede trasmessoci da quegli antichi autentici testimoni del credo cristiano; tra le comunità di Magliana e di Fulda sono state allacciate iniziative culturali e religiose che, unite a scambi di visite, non mancheranno di dare frutti copiosi di fraternità, fioriti dalla comune radice ideale che è quella del culto degli eroici martiri romani.
Il 29 luglio 1999 si è tenuta una solenne celebrazione, la quale ha aperto un intero anno di festeggiamenti dedicati ai Santi Martiri, alla presenza di monsignor Ludwig Schick, vescovo di Fulda.





sabato 28 luglio 2018

28 luglio Santi italici ed italo greci


 


Santi Nazario e Celso Martiri della Chiesa di Milano (verso il 68.in altri codici anno 76)- (Altra memoria il 14 Ottobre

Tratto da
http://www.ecodisavona.it/santi-nazario-e-celso/

Paolino, biografo di sant’Ambrogio riferisce che il vescovo di Milano ebbe un’ispirazione che lo guidò sulla tomba sconosciuta di due martiri negli orti fuori città. Erano Nazario e Celso. Il corpo del primo era intatto e fu trasportato in una chiesa davanti a Porta Romana, dove sorse una basilica a suo nome. Sulle reliquie di Celso, le ossa, sorse una nuova basilica. Nazario aveva predicato in Italia, a Treviri e in Gallia. Qui battezzò Celso che aveva nove anni. Furono martirizzati a Milano nel 304, durante la persecuzione di Diocleziano.


Tratto da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/64650

" ... San Nazaro, cittadino romano, discepolo di San Pietro, fu battezzato da S. Lino non ancora Papa, incontrò per questo, la disgrazia del di lui padre, di religione Ebreo, e dell’imperatore Nerone persecutore dei Cristiani, per esimersi dalla malignità dell’uno e dell’altro, uscì Nazaro da Roma, e, predicando Gesù Cristo, traversate alcune città lombarde, entrò in Piacenza, portossi indi a Milano: ivi trovò, per fede carcerati i santi fratelli Gervasio e Protasio, ed amorosamente confortatali, li animò a soffrire coraggiosamente il martirio. Di questo fatto informato, il Prefetto Romano condannò Nazaro alla frusta e all’esilio. Volse allora Nazaro alla Francia seguitando a predicare in ogni luogo la fede in Gesù Cristo".
Arrivato in Francia, da una cospicua Matrona gli fu presentato un assai grazioso fanciullo di nove anni. E fu pregato a volerlo avviare nella legge e religione da lui predicata. Con lieta cortesia accettò Nazaro il presentato infante, e dopo la conveniente istruzione, lo battezzò imponendogli il nome di Celso. E trovata angelica la indole del suo allievo, lo dichiarò compagno del suo apostolato, sebbene ancora non fosse uscito da puerizia. Non furono li Santi senza incontri in quella città. Infieriva in quel tempo in Roma e nelle province dell’impero, la dichiarata persecuzione di Nerone ed i Ss. Nazaro e Celso, stretti di catene il collo, furono imprigionati. Atterrita da tristo sogno, la moglie di Prefetto romano, ne ottenne la liberazione. Simile avventura provarono in Treviri dove molto fruttuosa riusciva la loro predicazione. Gran numero di quelli cittadini ricevevano il Battesimo, per tale motivo irritato quel prefetto fece arrestare li due Santi. Imprigionò Nazaro e consegno Celso ad una donna pagana, acciò lo conducesse all’idolatria; ma non riuscì essa all’intento. Non si mosse Celso per carezze, né per schiaffi, né per sferzate dal santo proposito. Invocando Gesù Cristo, mai cessò da piangere fin che fu riunito a Nazaro suo maestro. Nazaro intanto fu indarno tentato a rinunciare alla religione cristiana dal quel prefetto; ma perché cittadino Romano non fu tormentato nella persona, stretto in catene, fu con il suo allievo spedito a Nerone a Roma.
Ivi, come era successo in Treviri, Celso fu separato dal suo maestro e tentato di rinunziare a Gesù Cristo restò sempre fermo nella fede, e con animo virile sopportò ogni tormento e minacciò al prefetto: "Dio a cui servo ti giudicherà" né mai potè acquietarsi privo del suo maestro. Per comando di Nerone fu Nazaro strascinato nel tempio di Giove con la intenzione di sacrificare a quel falso nume sotto pena di morte. Non si sgomentò per questo, entrato egli nel tempio caddero tosto a terra infranti quegli idoli tutti. Si vide Nazaro tutto splendente di luce celeste e comparve vero apostolo di Gesù Cristo. Conosciuta Nerone la ferma risoluzione delli Santi ordinò che fossero ambidue gittati in mare. Scortati perciò a Civitavecchia, rinchiusi furono in una appostata barca ed avviata questa in alto, li nostri Santi furono sommersi in mare. Non erano ancora in allora compiuti i disegni di Dio, a questi la Divina Provvidenza, (a noi genovesi mai sempre propizia, e benefica) li riservava, fu quindi risparmiata la corona del martirio tanto desiderata. Una subita tempesta di mare minacciava di assorbire la barca colla quale erano stati precipitati i Santi, mentre essi andavano a piedi asciutti passeggiando sulle onde del mare in placida calma. Spaventati del temuto naufragio li marinari esecutori del tirrenico decreto di Nerone, ed illuminati dalla prodigiosa situazione dei Santi conobbero il loro fallo risolvettero di riceverli di nuovo in barca e dopo breve preghiera delli medesimi videro il mare in subita bonaccia. Da tali prodigi persuasi quei marinari della santità delle persone da loro oltraggiate, e della religione da essi predicata, chiesero ed ottennero dai Santi istruzione e Battesimo. Dopo tali avvenimenti quei novelli cristiani non si azzardavano ritornare a Nerone, e pieni della speranza in Dio, confortati della compagnia dei Santi abbandonarono le vele alla direzione della Provvidenza. Prosperamente navigando entrato nel nostro mare il fortunato naviglio volse la prora verso Genova città allora libera e alleata col Romano Impero. Distanti ancora da quelle mura 600 incirca passi videro sopra una delle colline di Albaro un tempio e una torre con intorno un’area circondata da macerie. Qui per ispirazione divina approdarono i Santi ed atterrati gli idoli che ritrovarono in quel tempio, consacrato alla falsa deità delli loro morti, cominciarono a predicare la fede in Gesù Cristo con felice riuscimento e senza veruno incontro, battezzarono quanti si convertirono; vi celebrarono il Divino Sacrificio e diedero così ad Albaro il vanto di essere la prima terra, non solo del Genovesato, ma di tutta la Italia, dove si è palesemente predicata e ricevuta la fede di Cristo, e dove è stata celebrata la prima Messa quietamente. Da Albao passarono a predicare in Genova, dove in pochi giorni videro ricevuta e radicata la santa nostra religione, che per grazia particolare dell’Altissimo da poco meno di secoli diciotto conserviamo purissima, mai turbata dalla eresia, né mai amareggiata per sangue sparso da’ martiri della nostra terra. Compiuto con tanta felicità e frutto il loro apostolato in Genova, passarono i nostri Santi a Milano, premuroso Nazaro delli sovra lodati Gervasio e Protasio ivi tutt’ora in catene, di vieppiù fortificarli a soffrire per la fede di Gesù Cristo. Reggeva in allora quella Provincia a nome del crudele Nerone, il crudelissimo Antolino nella qualità di Prefetto. Inteso questo dell’operare dei Santi (che mai cessarono di predicare Gesù Cristo) li fece imprigionare, e trovati inutili quanti seppe trovare, li tentativi, e tormenti, li condannò l’uno e l’altro ad essere decapitati. Fregente e glorioso retaggio dell’Apostolato; e fuori della porta Romana fu eseguita l’empia condanna nel luogo allora detto "le tre muraglie" nell’anno di nostra salute 76. … Informati del glorioso martirio delli suddetti loro Santi Apostoli seguito in Milano, sul terminare del primo secolo, memori de’ benefici da loro ricevuti eressero a loro nome un tempio in distanza dalla prememorata torre di passi circa 60, luogo dove approdato avevano li Santi".


Tratto da
https://www.maranatha.it/Feriale/santiProprio/0728TextLat.htm

Nazario o Nazaro (Roma, 37? - 76) è venerato come santo martire dalla Chiesa cattolica e dalla Chiesa ortodossa. Viene ricordato insieme al suo giovane discepolo Celso, con il quale subì il martirio.

Sappiamo dalla biografia di Ambrogio che questi, nel 395, trovò i corpi di due martiri, Celso e Nazario, sepolti in un campo appena fuori della città di Milano. Il corpo di Nazario era ancora integro, ma il capo era staccato dal tronco. Li fece quindi traslare in una chiesa che si trovava davanti a Porta Romana.

La storia della vita di Nazario ci viene tramandata, per il resto, interamente dalla tradizione.
Era cittadino romano di famiglia ebrea e legionario. Fu discepolo di Pietro e ricevette il battesimo dal futuro papa Lino.

Per sfuggire alle persecuzioni contro i cristiani e forse inviato da papa Lino, lasciò Roma e si recò in alcune zone della Lombardia. Passò in particolare anche a Piacenza e a Milano, dove avrebbe incontrato in carcere i compagni di fede Gervasio e Protasio.

Successivamente iniziò l'evangelizzazione delle Gallie. Qui gli fu affidato come discepolo il giovanissimo Celso, di appena 9 anni, il quale ricevette dal maestro l'educazione alla fede cristiana e il battesimo. Insieme proseguirono nell'opera di diffusione della nuova fede, viaggiando per la Francia meridionale e arrivando a Treviri.

Qui avrebbero subito numerose persecuzioni e sarebbero stati arrestati. Tuttavia Nazario, quale cittadino romano, non subì torture ma venne inviato a Roma per subire un regolare processo. Qui, al suo rifiuto di rinnegare la sua fede e sacrificare agli dèi romani, venne condannato a morte. Secondo altre fonti la condanna a morte venne decisa dal governatore di Ventimiglia. Ad ogni modo, insieme a Celso, venne imbarcato su una nave che doveva portarli al largo e gettarli in mare.

I due tuttavia scamparono alla morte a causa di un nubifragio. La tradizione vuole che, gettati in mare, presero a camminare sulle acque. Si scatenò allora una tempesta che terrorizzò i marinai, i quali chiesero aiuto a Nazario. Le acque si calmarono immediatamente. La nave sarebbe infine approdata a Genova, e qui Nazario e Celso proseguirono la loro opera evengelizzatrice in tutta la Liguria negli anni 66 e 67.

Si spinsero poi fino a Milano, dove infine vennero arrestati e nuovamente condannati a morte dal prefetto Antolino. La sentenza fu eseguita per decapitazione nell'anno 76.

Il loro ricordo si perse fino al ritrovamento dei corpi da parte di sant'Ambrogio, che ne diffuse il culto facendo edificare una chiesa sul luogo della sepoltura.

Chiese dedicate alla loro memoria si trovano a San Nazario (Salerno), Verona, Varazze, Asti, Cantarana, Varese, Arenzano, Poggio Imperiale, Vignola (MO), Gaggio Montano, Trivento (CB) e ad Avella in abbandono.


PER LA MEMORIA DEL 14 OTTOBRE

http://www.ortodossia.it/w/index.php?option=com_content&view=article&id=3896:14-10-memoria-dei-santi-nazario-protasio-gervasio-e-celso-martiri-a-milano-sotto-nerone-tra-il-64-e-il-68&catid=192:ottobre&lang=it