Sinassario
Santi italici ed italo greci per 12 aprile
Santa
Vissia di Fermo asceta e martire
Tratto da http://www.santiebeati.it/dettaglio/91652
Al 12 aprile le sante Vissia e Sofia
vergini e martiri di Fermo nel Piceno Italia; detto questo, di certo non si sa
altro, né della loro vita né del perché sono celebrate insieme.
Per il resto abbiamo qualche notizia sparsa, lo storico Ughelli nella sua “Italia Sacra” vol. II, parlando della diocesi di Fermo (Ascoli Piceno), attesta che il corpo di santa Vissia riposa nella cattedrale e in effetti nella chiesa metropolitana della città, esistono parecchi reliquiari, fra i quali in un’urna distinta in ebano con ornamenti in metallo dorato di stile barocco, è conservato il capo di santa Vissia martire, stranamente in un’altra urna è pure conservato il capo di santa Sofia martire.
Questa coincidenza dei due crani, fa supporre che esse furono martirizzate nello stesso tempo, se non insieme e probabilmente decapitate.
Secondo tradizioni locali Sofia e Vissia subirono il martirio verso il 250, sotto l’impero di Decio (249-251) durante la settima persecuzione da lui indetta. Esiste nella cattedrale una lapide che descrive santa Vissia che nobilita la città natale con il suo martirio; i loro nomi facevano parte di una lista di santi venerati a Fermo, trasmessa il 5 agosto 1581 da un prelato locale, ad un sacerdote oratoriano e amico di Cesare Baronio, il quale come è risaputo compilò il primo “Martirologio Romano”, e inserì le due sante vergini e martiri insieme allo stesso giorno del 12 aprile.
Secondo alcuni documenti locali s. Sofia è stata celebrata anche il 30 aprile; a tutto ciò bisogna aggiungere che alcuni studiosi ritengono s. Sofia di Fermo, come del resto altre Sofie, come la vedova Sapienza (Sofia) martire, che in Occidente è venerata al 30 settembre insieme alle figlie Fede, Speranza, Carità e il cui culto è diffuso anche in Oriente con i nomi di Sofia, Pistis, Elpis, Agape e ricordate nel culto greco il 1° agosto.
Per il resto abbiamo qualche notizia sparsa, lo storico Ughelli nella sua “Italia Sacra” vol. II, parlando della diocesi di Fermo (Ascoli Piceno), attesta che il corpo di santa Vissia riposa nella cattedrale e in effetti nella chiesa metropolitana della città, esistono parecchi reliquiari, fra i quali in un’urna distinta in ebano con ornamenti in metallo dorato di stile barocco, è conservato il capo di santa Vissia martire, stranamente in un’altra urna è pure conservato il capo di santa Sofia martire.
Questa coincidenza dei due crani, fa supporre che esse furono martirizzate nello stesso tempo, se non insieme e probabilmente decapitate.
Secondo tradizioni locali Sofia e Vissia subirono il martirio verso il 250, sotto l’impero di Decio (249-251) durante la settima persecuzione da lui indetta. Esiste nella cattedrale una lapide che descrive santa Vissia che nobilita la città natale con il suo martirio; i loro nomi facevano parte di una lista di santi venerati a Fermo, trasmessa il 5 agosto 1581 da un prelato locale, ad un sacerdote oratoriano e amico di Cesare Baronio, il quale come è risaputo compilò il primo “Martirologio Romano”, e inserì le due sante vergini e martiri insieme allo stesso giorno del 12 aprile.
Secondo alcuni documenti locali s. Sofia è stata celebrata anche il 30 aprile; a tutto ciò bisogna aggiungere che alcuni studiosi ritengono s. Sofia di Fermo, come del resto altre Sofie, come la vedova Sapienza (Sofia) martire, che in Occidente è venerata al 30 settembre insieme alle figlie Fede, Speranza, Carità e il cui culto è diffuso anche in Oriente con i nomi di Sofia, Pistis, Elpis, Agape e ricordate nel culto greco il 1° agosto.
Tratto
da
http://ordovirginumsicily.blogspot.it/2012/01/le-sante-vergini-consacrate-del-mese-di_13.html
Co-protettrice della città
di Fermo insieme a san Savino. Cesare Baronio la inserì
nel Martirologio Romano il 12 aprile insieme a S. Sofia. Secondo la
tradizione locale Vissia e Sofia subirono il martirio per decapitazione
verso il 250, sotto l’impero di Decio. Le notizie al riguardo sono scarse.
Nella cripta della cattedrale, fra i numerosi reliquiari, se ne trova uno in
ebano con ornamenti in metallo dorato di stile barocco che custodisce il capo
di S. Vissia. In una lapide se ne legge un elogio: «Firmi
in Piceno S. Vissiae virginis et martyris, quae nobilibus orta natalibus virginitatem
martyrio illustravit, patriam suam magis ipsa nobilitavit. Eius sacrum caput
honorifice asservatur in hac Ecclesia Metropolitana, ubi corpus etiam conditum
esse perhibetur (Di S. Vissia, vergine e martire di Fermo, nel Piceno, la quale
nata da nobile famiglia rese illustre col martirio la sua verginità e rese
ancor più nobile la sua patria. Il suo sacro capo viene conservato con tutti
gli onori in questa Chiesa Metropolitana, dove si dice che anche il corpo sia
stato sepolto)». È raffigurata in uno dei pannelli delle porte in
bronzo collocate nel 1980 nella cattedrale di Fermo, opera dello scultore Aldo
Sergiacomi di Affida. Nella lettera indirizzata ai sacerdoti il 25 marzo 2011
l’arcivescovo dell’arcidiocesi di Fermo Mons. Luigi Conti ha annunciato
la dedicazione dell’altare con la deposizione delle reliquie di Santa Vissia il
20 aprile 2011.
Santo
Giulio I Papa e Patriarca di Roma che
confessa la fede ortodossa nei confronti dell’eresia ariana (verso il 352)
Martirologio
Romano: A Roma nel cimitero di Calepodio al terzo miglio della via Aurelia,
deposizione di san Giulio I, papa, che, durante la persecuzione ariana, custodì
tenacemente la fede nicena, difese Atanasio dalle accuse ospitandolo durante
l’esilio e convocò il Concilio di Sardica.
Tratto
da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/49250
Proprio in concomitanza con la
proclamazione dell’Editto di Milano, con cui nel 313 Costantino concesse
libertà di culto ai cristiani e sdoganò così un credo praticato da moltissimi
sudditi imperiali, nasce l’arianesimo,
dottrina eretica diffusa dal prete berbero Ario che negava l’eternità del
Figlio e la sua coincidenza col Padre, eresia destinata a guadagnarsi
tantissimi proseliti.
Nel 337 si registrò l’apice della crisi che contrapponeva cristiani ortodossi, seguaci cioè della dottrina confermata dal Concilio ecumenico niceno, il quale stabiliva la consustanzialità tra le Persone della Trinità nell’Uno, e cristiani ariani, avversari del Vero Credo e dichiarati eretici dai vescovi.
In questo anno di tribolazioni, che rischiava di generare un’insanabile spaccatura all’interno della neonata Chiesa, venne eletto papa Giulio I, figlio di un certo Rustico – tutte le informazioni sono dedotte dal Liber Pontificalis, la grande raccolta biografica dei Pontefici risalente al IV secolo – originario di Roma. Poco dopo la sua elezione moriva l’imperatore Costantino, che lasciava l’impero diviso tra i suoi tre figli di cui uno, Costanzo II, ariano.
Appena insediato, fu a Giulio che le due fazioni religiose si rivolsero per decidere l’annosa questione: nel frattempo gli ariani, sostenuti dal morente imperatore, avevano deposto il patriarca trinitario di Alessandria, Atanasio, nel 335, successivamente esiliato a Treviri e sostituito con l’ariano Gregorio di Cappadocia. I due schieramenti inviarono al vescovo di Roma due diverse suppliche, in cui lo invitavano a decidere per l’uno o per l’altro: Giulio I, che le fonti concordemente dipingono come pastore estremamente zelante e ponderato, convocò un Sinodo a Roma per discutere equamente la risoluzione.
Dopo un attento esame dei documenti ed una professione di fede da parte di Atanasio, questi fu reintegrato nella sua sede, e le disposizioni del Concilio di Nicea furono confermate senza esitazione: decisione accettata da tutti i vescovi trinitari ma rifiutata dagli apostati, spalleggiati da Costanzo II.
Il papa, determinato nelle sue scelte ispirate dallo Spirito, non si piegò alle minacce di Costanzo, né si fece intimorire dalla paura di una spaccatura nella Chiesa, convinto dell’assoluta necessità di perseguire nell’ortodossia: domandò dunque a Costante I, imperatore in Occidente, di intercedere presso il fratello ariano al fine di convocare un altro concilio e riportare in seno alla Vera Fede le pecorelle smarrite. La sede designata fu Sardica, in Dacia (l’attuale Sofia); l’anno, il 343. L’assemblea dei vescovi ribadì le decisioni del Sinodo romano
Nel 337 si registrò l’apice della crisi che contrapponeva cristiani ortodossi, seguaci cioè della dottrina confermata dal Concilio ecumenico niceno, il quale stabiliva la consustanzialità tra le Persone della Trinità nell’Uno, e cristiani ariani, avversari del Vero Credo e dichiarati eretici dai vescovi.
In questo anno di tribolazioni, che rischiava di generare un’insanabile spaccatura all’interno della neonata Chiesa, venne eletto papa Giulio I, figlio di un certo Rustico – tutte le informazioni sono dedotte dal Liber Pontificalis, la grande raccolta biografica dei Pontefici risalente al IV secolo – originario di Roma. Poco dopo la sua elezione moriva l’imperatore Costantino, che lasciava l’impero diviso tra i suoi tre figli di cui uno, Costanzo II, ariano.
Appena insediato, fu a Giulio che le due fazioni religiose si rivolsero per decidere l’annosa questione: nel frattempo gli ariani, sostenuti dal morente imperatore, avevano deposto il patriarca trinitario di Alessandria, Atanasio, nel 335, successivamente esiliato a Treviri e sostituito con l’ariano Gregorio di Cappadocia. I due schieramenti inviarono al vescovo di Roma due diverse suppliche, in cui lo invitavano a decidere per l’uno o per l’altro: Giulio I, che le fonti concordemente dipingono come pastore estremamente zelante e ponderato, convocò un Sinodo a Roma per discutere equamente la risoluzione.
Dopo un attento esame dei documenti ed una professione di fede da parte di Atanasio, questi fu reintegrato nella sua sede, e le disposizioni del Concilio di Nicea furono confermate senza esitazione: decisione accettata da tutti i vescovi trinitari ma rifiutata dagli apostati, spalleggiati da Costanzo II.
Il papa, determinato nelle sue scelte ispirate dallo Spirito, non si piegò alle minacce di Costanzo, né si fece intimorire dalla paura di una spaccatura nella Chiesa, convinto dell’assoluta necessità di perseguire nell’ortodossia: domandò dunque a Costante I, imperatore in Occidente, di intercedere presso il fratello ariano al fine di convocare un altro concilio e riportare in seno alla Vera Fede le pecorelle smarrite. La sede designata fu Sardica, in Dacia (l’attuale Sofia); l’anno, il 343. L’assemblea dei vescovi ribadì le decisioni del Sinodo romano
La rettitudine morale di Giulio I
appare come una roccia salda e sicura in tempi difficili per la Chiesa: la sua
sapienza, il suo amore per la giustizia lo portarono ad agire come autentica
guida per la cristianità, e il suo rigore dottrinale permette di identificarlo
– credo univocamente – come “campione dell’ortodossia romana”, custode incorruttibile
della fede nicena. Non ultimo, la sua pietas lo condusse ad edificare le
odierne Basiliche di Santa Maria in Trastevere e dei Santi XII Apostoli, mentre
praticità e forza d’animo lo indussero, ulteriore affermazione
dell’indipendenza religiosa contro quella civile, a decretare che nessun
ecclesiastico utilizzasse tribunali laici, e che solo i notai del clero
registrassero donazioni, lasciti, atti, ordinandoli e classificandoli: in
questo modo pose le basi per la fondazione della biblioteca pontificia. Vissuto
tenacemente, affrontò la morte serenamente nel 352, assurto agli onori degli
altari e ricordato il 12 aprile.
Della sua vita anteriore al pontificato
non si conosce niente di sicuro; secondo il Liber Pontificalis era romano,
figlio di un certo Rustico. Eletto papa nel 337 governò la Chiesalino al 352,
in un periodo molto critico a causa della controversia ariana, inasprita dalle
controversie degli Eusebiani, protetti dall'imperatore Costanzo, contro s.
Atanasio.
Appena conosciuta la sua elezione al sommo pontiíicato, gli ariani gli inviarono delle lettere contro Atanasio ed altri vescovi deposti nel 335; ma Giulio informato sul vero stato delle cose, convocò un concilio a Roma per il giugno 340, al quale invitò anche i vescovi orientali, per decidere secondo giustizia. Gli eusebiani non intervennero, anzi inviarono al papa una lettera arrogante, aspra e piena di calunnie; il concilio fu tenuto egualmente e vi parteciparono cinquanta vescovi che approvarono l'operato di Giulio, riconobbero innocenti e riabilitarono tutti i vescovi deposti e particolarmente s. Atanasio. Agli eusebiani poi, il papa rispose con una lettera che è un capolavoro di dignità e nobiltà, degno in tutto della Sede apostolica, in cui confutava le loro scuse ed accuse, difendeva con fermezza la verità, li rimproverava d'aver violato le leggi canoniche, smantellava i pretesti addotti per non venire al concilio, illustrava l'innocenza di s. Atanasio e la doppiezza del loro operato contro di lui, concludendo con una calda esortazione alla carità e alla pace.
Questa lettera però non riuscí a vincere l'impudenza degli ariani che riuniti in sinodo ad Antiochia nel 341, ribadirono la loro condanna contro Atanasio. Le trattative per una pacificazione furono riprese al concilio di Sardica (343), ma ancora una volta la malafede degli eusebiani fece fallire tutto. Giulio però difese sempre e protesse s. Atanasio, l'accolse a Roma con grandi segni di stima ed affetto e gli diede lettere di congratulazione per la Chiesa di Alessandria, quando poté tornare in sede, dopo l'esilio del 349.
Giulio fu anche molto attivo nel governo interno della Chiesa di Roma; dal Liber Pontificalis sappiamo che stabilí ed organizzò il collegio dei notai ecclesiastici per tutte le questioni amministrative e proibí di citare i chierici ai tribunali laici. Il Catalogo Liberiano attesta di lui che multas fabricas fecit, ed infatti Giulio edificò almeno cinque nuove chiese: una nella settima regione "iuxta forum divi Traiani", corrispondente all'attuale chiesa dei Dodici Apostoli ed un'altra in Trastevere, in città; tre invece nei cimiteri e cioè sulla via Flaminia (S. Valentino), Portuense (S. Felice ad insalatos) ed Aurelia (al III miglio, sul sepolcro del papa Callisto).
Morí il 12 aprile 352 e fu sepolto nella chiesa da lui stesso edificata sulla via Aurelia, dove lo veneravano ancora i pellegrini del sec. VII. Il suo nome fu inscritto subito nella Depositio episcoporum e nel Martirologio Geronimiano: è falso però ch'egli sia morto martire, come pretende sapere l'autore della Notitia Ecclesiarum.
Le sue reliquie, secondo una tradizione, sarebbero state portate nella basilica di S. Prassede dal papa Pasquale I, mentre secondo un'altra tradizione, Innocenzo II le avrebbe trasferite nella basilica di S. Maria in Trastevere; in questa ultima le trovò nel 1505 il card. titolare Marco Vegerio, il quale si adoperò anche per far rifiorire il culto di Giulio, ottenendo a tale scopo un Breve dal papa Giulio II.
Appena conosciuta la sua elezione al sommo pontiíicato, gli ariani gli inviarono delle lettere contro Atanasio ed altri vescovi deposti nel 335; ma Giulio informato sul vero stato delle cose, convocò un concilio a Roma per il giugno 340, al quale invitò anche i vescovi orientali, per decidere secondo giustizia. Gli eusebiani non intervennero, anzi inviarono al papa una lettera arrogante, aspra e piena di calunnie; il concilio fu tenuto egualmente e vi parteciparono cinquanta vescovi che approvarono l'operato di Giulio, riconobbero innocenti e riabilitarono tutti i vescovi deposti e particolarmente s. Atanasio. Agli eusebiani poi, il papa rispose con una lettera che è un capolavoro di dignità e nobiltà, degno in tutto della Sede apostolica, in cui confutava le loro scuse ed accuse, difendeva con fermezza la verità, li rimproverava d'aver violato le leggi canoniche, smantellava i pretesti addotti per non venire al concilio, illustrava l'innocenza di s. Atanasio e la doppiezza del loro operato contro di lui, concludendo con una calda esortazione alla carità e alla pace.
Questa lettera però non riuscí a vincere l'impudenza degli ariani che riuniti in sinodo ad Antiochia nel 341, ribadirono la loro condanna contro Atanasio. Le trattative per una pacificazione furono riprese al concilio di Sardica (343), ma ancora una volta la malafede degli eusebiani fece fallire tutto. Giulio però difese sempre e protesse s. Atanasio, l'accolse a Roma con grandi segni di stima ed affetto e gli diede lettere di congratulazione per la Chiesa di Alessandria, quando poté tornare in sede, dopo l'esilio del 349.
Giulio fu anche molto attivo nel governo interno della Chiesa di Roma; dal Liber Pontificalis sappiamo che stabilí ed organizzò il collegio dei notai ecclesiastici per tutte le questioni amministrative e proibí di citare i chierici ai tribunali laici. Il Catalogo Liberiano attesta di lui che multas fabricas fecit, ed infatti Giulio edificò almeno cinque nuove chiese: una nella settima regione "iuxta forum divi Traiani", corrispondente all'attuale chiesa dei Dodici Apostoli ed un'altra in Trastevere, in città; tre invece nei cimiteri e cioè sulla via Flaminia (S. Valentino), Portuense (S. Felice ad insalatos) ed Aurelia (al III miglio, sul sepolcro del papa Callisto).
Morí il 12 aprile 352 e fu sepolto nella chiesa da lui stesso edificata sulla via Aurelia, dove lo veneravano ancora i pellegrini del sec. VII. Il suo nome fu inscritto subito nella Depositio episcoporum e nel Martirologio Geronimiano: è falso però ch'egli sia morto martire, come pretende sapere l'autore della Notitia Ecclesiarum.
Le sue reliquie, secondo una tradizione, sarebbero state portate nella basilica di S. Prassede dal papa Pasquale I, mentre secondo un'altra tradizione, Innocenzo II le avrebbe trasferite nella basilica di S. Maria in Trastevere; in questa ultima le trovò nel 1505 il card. titolare Marco Vegerio, il quale si adoperò anche per far rifiorire il culto di Giulio, ottenendo a tale scopo un Breve dal papa Giulio II.
Consultare
anche
http://www.vicariatusurbis.org/sangiulio/chi_e_san_giulio.html
San, Zenone, affresco, inizio secolo XV (1426?), Ronco di Gussago,
facciata dell’oratorio di San Zenone, Ronco di Gussago Brescia
Santo
Zeno(in altri codici Zenone) vescovo di Verona
Proveniente dall'Africa, forse dalla
Mauritania, dal 362 alla morte fu vescovo di Verona, dove fondò la prima
chiesa. Dovette confrontarsi con il paganesimo e l'arianesimo, che confutò nei
suoi discorsi. I suoi iscritti ricordano quelli di più affermati scrittori
africani e ci danno notizie importanti su di lui e sulla sua attività
pastorale. Preoccupazione primaria di Zeno fu quella di confermare e rinforzare
clero e popolo nella vita della fede, soprattutto con l'esempio della sua
carità, dell'umiltà, della povertà e della generosità verso i bisognosi.
Tratto
da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/49300
La città di Verona, ha per il suo santo
patrono, una devozione “affettuosa e brusca”, che dura ininterrotta da sedici
secoli; per il santo vescovo “moro e pescatore”, i veronesi eressero nel tempo
una magnifica Basilica, più volte ricostruita e centro del suo culto.
San Zeno o Zenone, secondo la “Cronaca”, leggenda medioevale di Coronato, un notaio veronese vissuto sulla fine del VII secolo, era originario dell’Africa settentrionale, più precisamente della Mauritania.
Tale provenienza, mancando una documentazione certa, è stata confermata dal tenore dei suoi scritti, che rispecchiano lo stile e la sostanza di tanti altri celebri autori, dell’effervescente Africa dell’epoca, come Apuleio di Madaura, Tertulliano, Cipriano e Lattanzio.
Non si sa, se egli giunse a Verona con la famiglia, né il motivo del trasferimento; d’altra parte bisogna considerare che nel IV secolo, dopo la fine delle grandi persecuzioni contro i cristiani, la Chiesa prese davvero un respiro universale, con scambio, viaggi e trasferimenti, di personaggi di grande dottrina e santità, si ricorda che africani erano s. Venanziano († 367) vescovo di Aquileia, Donato prete in Milano, il grande sant’Agostino, Fortunaziano, ecc.
Si è ipotizzato che Zeno fosse figlio d’un impiegato statale finito in Italia settentrionale, a seguito delle riforme burocratiche volute dall’imperatore Costantino; altra ipotesi è che Zeno si trovava al seguito del patriarca d’Alessandria, Atanasio, esule e in visita a Verona nel 340.
Rimasto nella bella città veneta, Zeno (Zenone il suo nome originario), avrebbe fatto vita monastica, fino a quando nel 362, fu eletto successore del defunto vescovo Cricino, divenendo così l’ottavo vescovo di Verona, il suo episcopato durò una decina d’anni, perché morì il 12 aprile del 372 ca.; la prima testimonianza su di lui si trova in una lettera di sant’Ambrogio al vescovo Siagro, terzo successore di san Zeno, che lo nomina come un presule “di santa memoria”; qualche anno dopo Petronio, vescovo di Verona fra il 412 e il 429, ne ricorda le grandi virtù e conferma la venerazione che gli era già tributata.
La conferma del culto di s. Zeno o Zenone, si ha anche da un antico documento, il “Rhytmus Pipinianus” o “Versus de Verona”, un elogio in versi della città, scritto fra il 781 e l’810, in cui si afferma che Zeno fu l’ottavo vescovo di Verona e poi c’è il cosiddetto “Velo di Classe”, dell’ottavo secolo, una preziosa tovaglia conservata a Ravenna, in cui sono ricamati i ritratti dei vescovi veronesi, fra i quali s. Zeno.
Anche il papa s. Gregorio Magno, alla fine del VI secolo raccontò un prodigio avvenuto in città, attribuito alla potente intercessione del santo; verso il 485 una piena del fiume Adige, sommerse Verona, giungendo fino alla chiesa dedicata a san Zeno, che aveva le porte aperte; benché l’acqua del fiume avesse raggiunto l’altezza delle finestre, non penetrò attraverso la porta aperta, quasi come se avesse incontrato una solida parete ad arginarla.
Ciò che maggiormente testimonia l’origine africana del santo, sono i suoi 93 “Sermones” o trattati, di cui 16 lunghi e 77 brevi, con la cui stesura, a detta degli studiosi, Zeno aprì la grande schiera degli scrittori cattolici, fu il primo dei grandi Padri latini e meriterebbe quindi di essere collocato fra i Dottori della Chiesa, per la scienza testimoniata con i suoi scritti.
I temi dei ‘Sermoni’ sono quelli affrontati nella predicazione: la genuinità della dottrina trinitaria, la mariologia, l’iniziazione sacramentale (l’Eucaristia e il Battesimo, con cui egli ammetteva i pagani solo dopo un’adeguata preparazione e un severo esame), la liturgia pasquale, le virtù cristiane della povertà, umiltà, carità e l’aiuto ai poveri e sofferenti.
Gli argomenti dogmatici, morali, cristologici, biblici e gli episodi cui fa riferimento, sono espressi dal santo con uno stile che ne testimonia l’origine; dicono gli esperti che il suo latino è “caldo e conciso”, ricorda quello degli scrittori africani “abituati a tormentare le frasi e a coniare nuovi vocaboli, per scolpire in tutta la sua luminosa bellezza l’idea”.
Lo stile africano è ricordato anche in quel “procedere sentenzioso, nei giochi di parole e di immagini, in quei larghi sviluppi oratori, nei quali l’anima del Santo trasfonde tutta l’irruenza dell’entusiasmo e dello sdegno…” (Mons. Guglielmo Ederle, per lunghi anni abate della Basilica).
L’eleganza dello stile, accomunata alle espressioni sovrabbondanti e all’improvvisa mescolanza di lingua letteraria e di volgare, fece si che san Zeno fosse definito il “Cicerone cristiano”.
Condusse con le sue predicazioni, trascritte da qualche suo discepolo nei “Sermones”, vivaci battaglie contro i Fotiniani (ariani) e la rinascita nelle campagne, del paganesimo (dovuta soprattutto all’apostasia di Giuliano); le sue prediche erano affollate da neoconvertiti ma anche da pagani, attratti dalla sua abile oratoria.
Dal panegirico pronunciato da s. Petronio vescovo di Bologna, nella prima metà del V secolo, nella chiesa dove riposavano i resti del santo, si apprende che Zeno fu vescovo insigne per carità, umiltà, povertà, liberalità verso i poveri; sollecitava con forza clero e fedeli alla pratica delle virtù cristiane, dando loro l’esempio.
Costruì a Verona la prima chiesa, che si trovava probabilmente nella zona dell’attuale Duomo, dove si riconoscono le tracce dei primi edifici cristiani; si tratta della chiesa già citata, che prodigiosamente non fu allagata dalla piena del fiume Adige nel 588, e per questo fu donata a Teodolinda, moglie di re Autari, che fu testimone oculare dell’avvenuto prodigio.
Quella chiesa fu rifatta ai tempi di re Teodorico e nell’804 venne danneggiata, insieme al vicino monastero, da ‘uomini infedeli’, probabilmente dagli Unni e anche dagli Avari.
Il vescovo Rotaldo la volle ricostruire, commissionando il nuovo progetto all’insigne arcidiacono Pacifico; l’8 dicembre 806, il nuovo tempio fu consacrato e dal romitaggio sul Monte Baldo sopra Malcesine, scesero gli eremiti Benigno e Caro, ritenuti degni di trasportare le reliquie del santo nel nuovo tempio, dove furono poste in un basamento di marmi levigati, nella cripta sorretta da colonne.
Alla consacrazione furono presenti, il re Pipino, figlio di Carlo Magno, il vescovo di Verona, quelli di Cremona e Salisburgo, più una folla immensa.
Ma dal Nord Europa, ancora una volta calarono eserciti barbari, giungendo nell’antichissima e celebre città a cavallo dell’Adige; Verona è stata nei secoli la prima tappa dei popoli germanici e dell’Est europeo, che varcavano le Alpi per invadere e conquistare la Penisola e verso la fine del IX secolo, gli Ungheri assalirono Verona e saccheggiarono le chiese dei sobborghi.
Ma le reliquie di san Zeno erano state messe in salvo in cattedrale e solo nel 921, poterono tornare nella cripta della chiesa a lui dedicata. Per mettere al sicuro definitivamente le reliquie del santo e la tranquillità del culto per il Patrono, in quegli anni si decise di costruire una grande basilica, più vasta e più protetta. Non fu impresa facile; per la nuova basilica romanica, giunsero aiuti finanziari e tecnici dai re d’Italia Rodolfo e Ugo; lo stesso imperatore Ottone I, lasciando Verona nel 967, donò una cospicua somma al vescovo realizzatore Raterio.
La basilica, nel 1120, 1138, 1356, ebbe altre ristrutturazioni, modifiche e ampliamenti, specie all’interno, mentre il campanile fu eretto nel 1045 per iniziativa dell’abate Alberico; attualmente la vicina Torre merlata, è quanto resta della ricca abbazia benedettina, in cui furono ospitati, re, imperatori, cardinali.
Il portale bronzeo della Basilica, è da tempo chiamato, ‘il libro di bronzo’ e la ‘Bibbia dei poveri’; esso racconta in successive 48 formelle, episodi biblici e della vita di Gesù, oltre ai miracoli di San Zeno.
I miracoli raffigurati, furono tratti dai racconti del già citato notaio veronese Coronato, e dalle formelle si può apprendere quelli più eclatanti; quando san Zeno fu eletto vescovo di Verona, prese ad abitare con dei monaci, in un luogo solitario verso la riva dell’Adige e giacché viveva povero, era solito pescare nel fiume per cibarsi; e un giorno mentre stava pescando, vide più in là un contadino trascinato nella corrente del fiume, insieme al suo carro, dai buoi stranamente imbizzarriti.
Avendo intuito che si trattava di un’opera del demonio, fece un segno di croce, che ebbe l’effetto di far calmare i buoi, che riportarono così il carro sulla riva.
È uno dei tanti episodi di lotta con i demoni, che il santo vescovo, dovette affrontare lungo tutto il suo episcopato; poiché diverse volte lo disturbavano e tante volte san Zeno li scacciava adeguatamente; infatti nell’affresco della lunetta del protiro della basilica e nei bassorilievi di marmo che le fanno da base, s. Zeno è raffigurato fra l’altro mentre calpesta il demonio.
In un’altra formella del portale, si vede il demonio scacciato dai buoi nel fiume, che indispettito si trasferisce nel corpo della figlia di Gallieno, che doveva essere un nobile locale, ma poi individuato erroneamente come l’imperatore, in tal caso le date non corrispondono.
Gallieno, saputo del vescovo Zeno, che combatteva efficacemente i demoni, lo mandò a chiamare e così l’unica sua figlia fu liberata; per riconoscenza Gallieno gli concesse piena libertà di edificare chiese e predicare il cristianesimo, donandogli anche il suo prezioso diadema, che s. Zeno divise tra i poveri.
Nella basilica esiste una bella vasca di porfido, pesantissima, che la tradizione vuole regalata da Gallieno al vescovo, il quale volendo punire l’impertinente demonio, gli ordinò di trasportarla fino a Verona; il demonio obbedì, ma con tanta rabbia, tanto da lasciare sulla vasca l’impronta delle sue unghiate; al di là della tradizione, la vasca può essere un importante reperto archeologico, delle antiche terme romane della città.
Decine sono gli episodi miracolosi e i prodigi, che la tradizione e la leggenda, attribuiscono a san Zeno, sempre in lotta con i diavoli, perlopiù dispettosi, che cercavano sempre di ostacolarlo nella predicazione e nel suo ministero episcopale; si tratta di una particolare lotta del santo, che secondo alcune leggende avrebbe visto e scacciato il demonio, sin da quando era un chierico, mentre era in compagnia di s. Ambrogio.
Infine non si può soprassedere sull’ipotesi, che san Zeno fosse un uomo oltre che istruito e saggio, anche bonario e gioviale; lo attestano due importanti opere, un’anta dell’antico organo, ora custodita nella chiesa di San Procolo, e la grande statua in marmo colorato, della metà del XIII secolo, nella basilica, che lo raffigurano entrambe sorridente fra i baffi; la statua raffigura san Zeno seduto, vestito dai paramenti vescovili, con il viso scuro per le sue origini nord africane, che sorride e benedice con la mano destra, mentre con la sinistra sorregge il pastorale, a cui è appeso ad un amo un pesce, a ricordo della sua necessità di pescare nell’Adige per i suoi pasti frugali.
I veronesi indicano questa statua, come “San Zen che ride”; il santo è patrono dei pescatori d’acque dolci, il grosso sasso lustrato su cui, secondo la tradizione, sedeva mentre pescava nel fiume, è conservato in una piccola chiesetta denominata San Zeno in Oratorio, non lontano dalla millenaria basilica veronese, in cui riposa il santo Patrono.
La festa liturgica di san Zeno è il 12 aprile; nella diocesi di Verona, però, la ricorrenza è stata spostata al 21 maggio, a ricordo del giorno della traslazione delle reliquie nella basilica, avvenuta il 21 maggio 807.
San Zeno o Zenone, secondo la “Cronaca”, leggenda medioevale di Coronato, un notaio veronese vissuto sulla fine del VII secolo, era originario dell’Africa settentrionale, più precisamente della Mauritania.
Tale provenienza, mancando una documentazione certa, è stata confermata dal tenore dei suoi scritti, che rispecchiano lo stile e la sostanza di tanti altri celebri autori, dell’effervescente Africa dell’epoca, come Apuleio di Madaura, Tertulliano, Cipriano e Lattanzio.
Non si sa, se egli giunse a Verona con la famiglia, né il motivo del trasferimento; d’altra parte bisogna considerare che nel IV secolo, dopo la fine delle grandi persecuzioni contro i cristiani, la Chiesa prese davvero un respiro universale, con scambio, viaggi e trasferimenti, di personaggi di grande dottrina e santità, si ricorda che africani erano s. Venanziano († 367) vescovo di Aquileia, Donato prete in Milano, il grande sant’Agostino, Fortunaziano, ecc.
Si è ipotizzato che Zeno fosse figlio d’un impiegato statale finito in Italia settentrionale, a seguito delle riforme burocratiche volute dall’imperatore Costantino; altra ipotesi è che Zeno si trovava al seguito del patriarca d’Alessandria, Atanasio, esule e in visita a Verona nel 340.
Rimasto nella bella città veneta, Zeno (Zenone il suo nome originario), avrebbe fatto vita monastica, fino a quando nel 362, fu eletto successore del defunto vescovo Cricino, divenendo così l’ottavo vescovo di Verona, il suo episcopato durò una decina d’anni, perché morì il 12 aprile del 372 ca.; la prima testimonianza su di lui si trova in una lettera di sant’Ambrogio al vescovo Siagro, terzo successore di san Zeno, che lo nomina come un presule “di santa memoria”; qualche anno dopo Petronio, vescovo di Verona fra il 412 e il 429, ne ricorda le grandi virtù e conferma la venerazione che gli era già tributata.
La conferma del culto di s. Zeno o Zenone, si ha anche da un antico documento, il “Rhytmus Pipinianus” o “Versus de Verona”, un elogio in versi della città, scritto fra il 781 e l’810, in cui si afferma che Zeno fu l’ottavo vescovo di Verona e poi c’è il cosiddetto “Velo di Classe”, dell’ottavo secolo, una preziosa tovaglia conservata a Ravenna, in cui sono ricamati i ritratti dei vescovi veronesi, fra i quali s. Zeno.
Anche il papa s. Gregorio Magno, alla fine del VI secolo raccontò un prodigio avvenuto in città, attribuito alla potente intercessione del santo; verso il 485 una piena del fiume Adige, sommerse Verona, giungendo fino alla chiesa dedicata a san Zeno, che aveva le porte aperte; benché l’acqua del fiume avesse raggiunto l’altezza delle finestre, non penetrò attraverso la porta aperta, quasi come se avesse incontrato una solida parete ad arginarla.
Ciò che maggiormente testimonia l’origine africana del santo, sono i suoi 93 “Sermones” o trattati, di cui 16 lunghi e 77 brevi, con la cui stesura, a detta degli studiosi, Zeno aprì la grande schiera degli scrittori cattolici, fu il primo dei grandi Padri latini e meriterebbe quindi di essere collocato fra i Dottori della Chiesa, per la scienza testimoniata con i suoi scritti.
I temi dei ‘Sermoni’ sono quelli affrontati nella predicazione: la genuinità della dottrina trinitaria, la mariologia, l’iniziazione sacramentale (l’Eucaristia e il Battesimo, con cui egli ammetteva i pagani solo dopo un’adeguata preparazione e un severo esame), la liturgia pasquale, le virtù cristiane della povertà, umiltà, carità e l’aiuto ai poveri e sofferenti.
Gli argomenti dogmatici, morali, cristologici, biblici e gli episodi cui fa riferimento, sono espressi dal santo con uno stile che ne testimonia l’origine; dicono gli esperti che il suo latino è “caldo e conciso”, ricorda quello degli scrittori africani “abituati a tormentare le frasi e a coniare nuovi vocaboli, per scolpire in tutta la sua luminosa bellezza l’idea”.
Lo stile africano è ricordato anche in quel “procedere sentenzioso, nei giochi di parole e di immagini, in quei larghi sviluppi oratori, nei quali l’anima del Santo trasfonde tutta l’irruenza dell’entusiasmo e dello sdegno…” (Mons. Guglielmo Ederle, per lunghi anni abate della Basilica).
L’eleganza dello stile, accomunata alle espressioni sovrabbondanti e all’improvvisa mescolanza di lingua letteraria e di volgare, fece si che san Zeno fosse definito il “Cicerone cristiano”.
Condusse con le sue predicazioni, trascritte da qualche suo discepolo nei “Sermones”, vivaci battaglie contro i Fotiniani (ariani) e la rinascita nelle campagne, del paganesimo (dovuta soprattutto all’apostasia di Giuliano); le sue prediche erano affollate da neoconvertiti ma anche da pagani, attratti dalla sua abile oratoria.
Dal panegirico pronunciato da s. Petronio vescovo di Bologna, nella prima metà del V secolo, nella chiesa dove riposavano i resti del santo, si apprende che Zeno fu vescovo insigne per carità, umiltà, povertà, liberalità verso i poveri; sollecitava con forza clero e fedeli alla pratica delle virtù cristiane, dando loro l’esempio.
Costruì a Verona la prima chiesa, che si trovava probabilmente nella zona dell’attuale Duomo, dove si riconoscono le tracce dei primi edifici cristiani; si tratta della chiesa già citata, che prodigiosamente non fu allagata dalla piena del fiume Adige nel 588, e per questo fu donata a Teodolinda, moglie di re Autari, che fu testimone oculare dell’avvenuto prodigio.
Quella chiesa fu rifatta ai tempi di re Teodorico e nell’804 venne danneggiata, insieme al vicino monastero, da ‘uomini infedeli’, probabilmente dagli Unni e anche dagli Avari.
Il vescovo Rotaldo la volle ricostruire, commissionando il nuovo progetto all’insigne arcidiacono Pacifico; l’8 dicembre 806, il nuovo tempio fu consacrato e dal romitaggio sul Monte Baldo sopra Malcesine, scesero gli eremiti Benigno e Caro, ritenuti degni di trasportare le reliquie del santo nel nuovo tempio, dove furono poste in un basamento di marmi levigati, nella cripta sorretta da colonne.
Alla consacrazione furono presenti, il re Pipino, figlio di Carlo Magno, il vescovo di Verona, quelli di Cremona e Salisburgo, più una folla immensa.
Ma dal Nord Europa, ancora una volta calarono eserciti barbari, giungendo nell’antichissima e celebre città a cavallo dell’Adige; Verona è stata nei secoli la prima tappa dei popoli germanici e dell’Est europeo, che varcavano le Alpi per invadere e conquistare la Penisola e verso la fine del IX secolo, gli Ungheri assalirono Verona e saccheggiarono le chiese dei sobborghi.
Ma le reliquie di san Zeno erano state messe in salvo in cattedrale e solo nel 921, poterono tornare nella cripta della chiesa a lui dedicata. Per mettere al sicuro definitivamente le reliquie del santo e la tranquillità del culto per il Patrono, in quegli anni si decise di costruire una grande basilica, più vasta e più protetta. Non fu impresa facile; per la nuova basilica romanica, giunsero aiuti finanziari e tecnici dai re d’Italia Rodolfo e Ugo; lo stesso imperatore Ottone I, lasciando Verona nel 967, donò una cospicua somma al vescovo realizzatore Raterio.
La basilica, nel 1120, 1138, 1356, ebbe altre ristrutturazioni, modifiche e ampliamenti, specie all’interno, mentre il campanile fu eretto nel 1045 per iniziativa dell’abate Alberico; attualmente la vicina Torre merlata, è quanto resta della ricca abbazia benedettina, in cui furono ospitati, re, imperatori, cardinali.
Il portale bronzeo della Basilica, è da tempo chiamato, ‘il libro di bronzo’ e la ‘Bibbia dei poveri’; esso racconta in successive 48 formelle, episodi biblici e della vita di Gesù, oltre ai miracoli di San Zeno.
I miracoli raffigurati, furono tratti dai racconti del già citato notaio veronese Coronato, e dalle formelle si può apprendere quelli più eclatanti; quando san Zeno fu eletto vescovo di Verona, prese ad abitare con dei monaci, in un luogo solitario verso la riva dell’Adige e giacché viveva povero, era solito pescare nel fiume per cibarsi; e un giorno mentre stava pescando, vide più in là un contadino trascinato nella corrente del fiume, insieme al suo carro, dai buoi stranamente imbizzarriti.
Avendo intuito che si trattava di un’opera del demonio, fece un segno di croce, che ebbe l’effetto di far calmare i buoi, che riportarono così il carro sulla riva.
È uno dei tanti episodi di lotta con i demoni, che il santo vescovo, dovette affrontare lungo tutto il suo episcopato; poiché diverse volte lo disturbavano e tante volte san Zeno li scacciava adeguatamente; infatti nell’affresco della lunetta del protiro della basilica e nei bassorilievi di marmo che le fanno da base, s. Zeno è raffigurato fra l’altro mentre calpesta il demonio.
In un’altra formella del portale, si vede il demonio scacciato dai buoi nel fiume, che indispettito si trasferisce nel corpo della figlia di Gallieno, che doveva essere un nobile locale, ma poi individuato erroneamente come l’imperatore, in tal caso le date non corrispondono.
Gallieno, saputo del vescovo Zeno, che combatteva efficacemente i demoni, lo mandò a chiamare e così l’unica sua figlia fu liberata; per riconoscenza Gallieno gli concesse piena libertà di edificare chiese e predicare il cristianesimo, donandogli anche il suo prezioso diadema, che s. Zeno divise tra i poveri.
Nella basilica esiste una bella vasca di porfido, pesantissima, che la tradizione vuole regalata da Gallieno al vescovo, il quale volendo punire l’impertinente demonio, gli ordinò di trasportarla fino a Verona; il demonio obbedì, ma con tanta rabbia, tanto da lasciare sulla vasca l’impronta delle sue unghiate; al di là della tradizione, la vasca può essere un importante reperto archeologico, delle antiche terme romane della città.
Decine sono gli episodi miracolosi e i prodigi, che la tradizione e la leggenda, attribuiscono a san Zeno, sempre in lotta con i diavoli, perlopiù dispettosi, che cercavano sempre di ostacolarlo nella predicazione e nel suo ministero episcopale; si tratta di una particolare lotta del santo, che secondo alcune leggende avrebbe visto e scacciato il demonio, sin da quando era un chierico, mentre era in compagnia di s. Ambrogio.
Infine non si può soprassedere sull’ipotesi, che san Zeno fosse un uomo oltre che istruito e saggio, anche bonario e gioviale; lo attestano due importanti opere, un’anta dell’antico organo, ora custodita nella chiesa di San Procolo, e la grande statua in marmo colorato, della metà del XIII secolo, nella basilica, che lo raffigurano entrambe sorridente fra i baffi; la statua raffigura san Zeno seduto, vestito dai paramenti vescovili, con il viso scuro per le sue origini nord africane, che sorride e benedice con la mano destra, mentre con la sinistra sorregge il pastorale, a cui è appeso ad un amo un pesce, a ricordo della sua necessità di pescare nell’Adige per i suoi pasti frugali.
I veronesi indicano questa statua, come “San Zen che ride”; il santo è patrono dei pescatori d’acque dolci, il grosso sasso lustrato su cui, secondo la tradizione, sedeva mentre pescava nel fiume, è conservato in una piccola chiesetta denominata San Zeno in Oratorio, non lontano dalla millenaria basilica veronese, in cui riposa il santo Patrono.
La festa liturgica di san Zeno è il 12 aprile; nella diocesi di Verona, però, la ricorrenza è stata spostata al 21 maggio, a ricordo del giorno della traslazione delle reliquie nella basilica, avvenuta il 21 maggio 807.
Consultare
anche
San Zeno o San Zenone – Vita
e immagini dell’africano che diventò santo dei lombardo-veneti
PRELIMINARI
PER UNA RICOGNIZIONE
SUL
CULTO DI SAN ZENO VERONESE
A
MONTODINE E A CAPRALBA
http://www.comune.crema.cr.it/sites/default/files/web/File/FDMuseo/Insula_Fulcheria/35/MARIADELE_PIANTELLI_-_Preliminari_per_una_ricognizione_sul_culto_di_San_Zeno_Veronese_a_Montodine_e_a_Capralba.pdf
Santo
Damiano di Pavia Vescovo
Martirologio Romano: A Pavia, san
Damiano, vescovo, la cui lettera sulla retta fede circa la volontà e l’agire in
Cristo fu letta nel Concilio Costantinopolitano III.
Tratto da
http://www.treccani.it/enciclopedia/santo-damiano_%28Dizionario-Biografico%29/
D. compare citato per la. prima volta nelle nostre fonti nel 679, l'anno successivo a quello in cui l'imperatore Costantino IV aveva chiesto al pontefice di inviare a Costantinopoli rappresentanti delle Chiese occidentali per un concilio ecumenico che avrebbe dovuto mettere: fine alla crisi provocata dal monotelismo, la dottrina che affermava che Cristo aveva due nature, ma una sola volontà. Nel 679, infatti, quando, nel quadro dei sinodi provinciali che si tennero in Occidente per preparare i lavori del successivo concilio ecumenico, anche Mansueto - l'arcivescovo di Milano che aveva chiuso l'esilio secolare della Chiesa ambrosiana rientrando, dopo la restaurazione del re Perctarit (671), nella sua sede metropolitica - riunì il suo clero ed i suoi suffraganei, D., aliora semplice chierico. ricevette l'incarico di redigere in greco la professione di fede diotelica approvata in questa sede e la lettera da inviare all'imperatore in cui quella professione fu inserita.
Questo documento ci è pervenuto. Costantino IV vi è invitato a imitare l'esempio degli imperatori di perfetta fede cristiana, Costantino e Teodosio; il sinodo vi proclama poi il suo attaccamento ai cinque concili ecumenici, quindi fa una lunga professione di fede nella Trinità, nelle due nature di Cristo e nel dogma dell'Incarnazione, prima di riaffermare (questo era il punto cruciale) l'esistenza di due volontà in Cristo. La lettera fu letta e approvata all'unanimità nel corso dei lavori del VI concilio ecumenico (III di Costantinopoli: novembre 680-settembre 681): la professione di fede in essa contenuta costituì, insieme con l'altra inviata dalla Chiesa di Roma con la synodica del 27 marzo 680 sulla materia controversá mandata dal papa Agatone, la base essenziale della condanna del monotelismo e dei monotelitici pronunziata da quel concilio. Tale successo spiega senza dubbio la leggenda tardiva, secondo la quale D. sarebbe stato inviato presso Giorgio, patriarca di Costantinopoli (679-686) per ricondurlo all'unione con Roma.
L'elezione di D. come vescovo di P.avia è posteriore al sipodo romano del 679-80 e dovette precedere immediatamente o seguire di poco la terribile epidemia di peste, che colpì Pavia, come Roma ed altre città d'Italia, nell'estate del 680.
Paolo Diacono, parlando del VI concilio ecumenico (III costantinopolitano) voluto da Costantino IV per risolvere definitivamente la questione dell'eresia monotelita, afferma (VI, 4), che "eo tempore Damianus Ticinensis ecclesiae episcopus sub nomine Mansueti Mediolanensis archiepiscopi hac de causa satis utilein rectaeque fidei epistolani conscripsit, quae in praefato sinodo non mediocre suffragium tulit". Prosegue quindi (VI, 5). narrando come "his temporibus per indictionein octavam" - e cioè nel periodo di tempo compreso fra il 1° sett. 679 ed il 31 ag. - 680 - si fosse avuta un'eclissi di luna di poco successiva ad un'eclissi di sole; e come, subito dopo questi due fenomeni astronomici, fosse scoppiata a Roma una terribile epidemia di peste, che infuriò nei mesi di luglio, agosto e settembre, e si propagò in un secondo tempo e con eguale violenza a Pavia. In quella città anzi, - riferisce Paolo Diacono - l'epidemia cessò solo quando, in ottemperanza a ciò che "cuidam per revelationem dictuin est", -non fu innalzato nella locale chiesa di S. Pietro in Vincoli un altare a s. Sebastiano, nel quale fu deposta una reliquia del martire traslata con ogni venerazione da Roma.
La tradizione agiografica pavese, d'altro canto, asserisce che il vescovo D., chieste ed ottenute dal papa reliquie di s. Sebastiano, le fece traslare a Pavia e le ripose in un altare che aveva dedicato, nella chiesa di S. Pietro in Vincoli, al martire romano. Con questo atto di pietà e con il voto di far celebrare ogni anno con la massima solennità dalla Chiesa pavese il dies natalis del santo, D. avrebbe ottenuto la grazia della cessazione dell'epidemia.
Secondo l'epitaffio di D., questo santo sacerdote, tra quanti nati in terra greca vivevano allora nella regione di cui è centro Milano ("... pre omnibus... quos sinus enutrit / Ligurie et gignunt quosquos Athenea rura"), preferì emergere per sapienza cristiana piuttosto che per l'importanza della posizione nella carriera ecclesiastica. Senza vantarsi di tale sua scelta, portava con umiltà i doni celesti: avrebbe anzi potuto ottenere, nel centro stesso della Chiesa, a Roma, di essere posto alla testa del popolo cristiano ("nec [est] se, cuin posset, ceteris preponere nisus i Ecclesie in arce"), ma preferì fuggire, anche se poi fu costretto ad accettare di divenire vescovo di Pavia. Lì, amministrando al suo popolo la mistica parola, rese illustre quella sede episcopale col suo esempio di vita ("... Fugiens, attamen coactus / sumpsit sacerdotium, et Verba Mistica plebi / ut bonus pastor erogans Ticinensem cathedram / decoravit moribus").
Dopo aver ricordato come D. non potesse ancora essere vescovo di Pavia nel marzo del 680, dato che fu il suo predecessore in quella sede, Anastasio, a sottoscrivere - tra gli altri suffraganei del vescovo di Milano Mansueto - gli atti dei sinodo, tenutosi a Roma in quell'anno sotto la presidenza del papa Agatone, in cui furono condannatele dottrine monoteliche; e dopo aver fatto notare come, morto il 10 genn. 681 il papa Agatone, la sede romana fosse rimasta vacante sin quasi alla fine dell'anno, quando fu eletto alla cattedra di S. Pietro Leone II, il Bognetti sottolinea la congruità esistente non solo tra i diversi elementi biografici relativi a D. desumibili dalle fonti appena esaminate, ma anche fra questi elementi ed i dati cronologici risultanti dal quadro storico generale, con'cludendo che'tale congruità, se da un lato testimonia la piena attendibilità delle fonti stesse, suggerisce dall'altro una ricostruzione degli avvenimenti ed una valutazione della personalità e dell'opera di D. diverse da quelle tradizionali (Milano longobarda, pp. 190 s., 193). Premesso dunque che la "qualifica di vescovo ticinese... riferita a Damiano per l'anno 680" deve essere considerata "una anticipazione", lo studioso ritiene che D., greco di origine e di cultura, facesse parte di quel clero "decumano" in gran parte orientale per nascita e formazione, che Roma aveva inviato in diversi momenti con finalità missionarie a Milano e che il vescovo Mansueto, rientrato nella sede metropolitica dopo il secolare esilio genovese della Chiesa ambrosiana, aveva trovato impegnato in una vasta opera di evangelizzazione e di lotta contro il paganesimo e contro l'eresia ariana. Come avrebbe fatto un decennio più tardi per suo incarico il diacono Tommaso, dopo il sinodo pavese del 698, D. portò a Rorna "gli atti della sinodo milanese" da lui "stesi, come appunto dite Paolo Diacono..., per conto del metropolita Mansueto" (ibid., p. 193). A Roma si trovava - come attestano le fonti agiografiche - nell'estate del 680, quando scoppiò l'epidemia di peste. A Roma si trovava ancora ai primi di gennaio del 681, quando morì il papa Agatone: è questo infatti l'unico - momento in cui, non essendo ancora vescovo di Pavia e dipendendo come missionario dalla, Sede apostolica, poté essere stato proposto alla cattedra di S. Pietro, come riferisce il suo epitaffio. "Sarebbe stato", osserva il Bognetti (p. 192), "uno di più nella schiera dei pontefici di origine orientale o africana, che si susseguirono dal quarto decennio del sec. VII al quarto decennio del sec. VIII". Evitò con la fuga un compito, che sentiva troppo grande; non poté evitare invece - appunto per l'esperienza di missionario maturata a Milano - di essere inviato a Pavia, dove forse esercitò, come ipotizza il Bognetti (ibid.), presso quel presule funzioni vicarie. A lui, infatti, la tradizione attribuisce il merito di aver ottenuto dal papa e di aver portato da Roma a Pavia le reliquie di s. Sebastiano, da lui collocate nella chiesa di S. Pietro in Vincoli, ricevendo in tal modo la grazia della fine dell'epidemia. Alla morte del vescovo Anastasio, avvenuta nel 681 e probabilmente il 28 maggio, come vuole il cosiddetto "Catalogo Berretta", venne nominato a succedergli sulla cattedra pavese: missionaria era la sua formazione, e di un missionario aveva bisogno la capitale del Regno dei Longobardi, che "restava tuttavia il luogo di raduno dell'esercito che, più che eretico, continuava ad essere pagano, ed a Pavia erano possibili appunto i contatti fra i rappresentanti della Chiesa di Roma e quella di Aquileia" (ibid.).
D. fu certamente scelto e consacrato dalla Sede apostolica; e scelti e consacrati dalla Sede apostolica continuarono ad essere i vescovi di Pavia dopo di lui, anche quando "il metropolita milanese protesterà, perché gli si sottraeva un vescovo, da lui dipendente almeno dai tempi di Ambrogio. La cosa venne appunto da papa Costantino [I] dichiarata conforme ai canoni, in quanto i vescovi missionari dovevano, per vecchia norma canonica, essere consacrati per l'Occidente dai papa, e per l'Oriente dal patriarca di Costantinopoli" (Bognetti, pp. 192 s.).
Durante tutto il suo episcopato, D. dispiegò una fervida azione pastorale e missionaria in favore della pace civile e dell'ortodossia religiosa, assecondato in questo da un piccolo ma attivo gruppo di dotti chierici di cultura bizantina e romana, come i diaconi Barionas, il fratello di questo Tommaso e Giovanni. Una tradizione, che in verità desta dubbi, vuole che egli abbia anche svolto il ruolo di intermediario diplomatico fra i Longobardi e i Bizantini. È sicuramente attestato, invece, che nel 690, quando l'ariano duca di Trento e Brescia Alachi si impadronì del trono di Pavia, proclamandosi re dei Longobardi e obbligando Cuniperto, sovrano cattolico, a rifugiarsi in un'isola del lago di Como, D. venne a patti con l'usurpatore al fine di risparmiare i gravi lutti di una guerra civile alla capitale longobarda e, al suo clero. In tale circostanza egli incaricò infatti il suo diacono Tommaso di portare ad Alachi la sua benedizione e il suo ammonimento alla moderazione, che d'altra parte non fu seguito. La reazione ariana fu brutale, e D. e il suo clerofurono dunque costretti a sperare e a favorire il ritorno di Cuniperto. Quest'ultimo, una volta restaurato sul trono dopo la battaglia di Cornate d'Adda (693), non pare abbia conservato risentimento contro il vescovo compromessosi con l'usurpatore. Vediamo infatti i due uomini qualche anno più tardi agire insieme per il ristabilimento dell'unità delle Chiese d'Italia.
Già dal tempo di Ariperto (653-661) il vescovo Anastasio, predecessore di D., aveva operato in questo senso, abbandonando l'ariariesimo e passando all'ortodossia con i suoi fedeli. Restava da risolvere il problema dello átisma della Chiesa d'Aquileia, separatasi dalla Chiesa romana dopo la condanna pronunziata nel 553 dal V concilio ecumenico (II costantinopolitano) contro scritti - i così detti "Tre Capitoli" - di Teodoro di Mopsuestia, di Teodoreto di Ciro e del vescovo di Edessa Iba. Lo scisma dei "Tre Capitoli" aveva causato la divisione della diocesi di Aquileia in due osservanze, l'una ortodossa e l'altra scismatica, che fecero capo a due patriarchi e a due sedi metropolitiche distinte. Alla fine del sec. VII, quello dei due metropoliti che risiedeva in zona longobarda era ancora scismatico.
Verso il 698, un sinodo si riunì a Pavia, per iniziativa del re Cuniperto e sotto la presidenza di D. per risolvere il conflitto tricapitolino. Non osando disobbedire al sovrano che li aveva convocati nella capitale, sia il patriarca di Aquileia, che risiedeva in territorio longobardo, sia gli altri vescovi scismatici si presentarono al sinodo. Nel corso dei lavori D. fornì a quelli di Aquileia. pacate spiegazioni e l'intesa fu raggiunta. I vescovi scismatici sottoscrissero l'atto di unione all'ortodossia e alla Chiesa romana, che fu proclamata nel corso di, una cenmonia commovente e solenne. Rappresentanti del re dei Longobardi, della Chiesa di Aquileia e di quella di Pavia - questi ultimi erano il diacono Tommaso e il giurista Teodaldo - rimisero gli atti del sinodo, perché li approvasse, al pontefice Sergio I, che indirizzò i suoi ringraziamenti a Cuniperto, fece bruciare gli scritti scismatici e sanzionò ufficialmente la rinnovata unione delle Chiese d'Italia. Questo successo, nel quale D. e i chierici del suo entourage avevano avuto una pane decisiva, era tanto importante per il Papato, quanto per il re. Esso contribui ad aumentare il prestigio di Pavia, capitale del Regno, e quello della sua Chiesa, che era il centro dell'azione missionaria promossa da Roffia per la conversione dei Longobardi rimasti ariani o pagani. Quest'aumentata importanza della sede di Pavia è con ogni probabilità all'origine del privilegio, difficilmente databile, in virtù dei quale i suoi titolari ricevevano la loro consacrazione direttamente dal papa e non, più da coluì che, prima dell'invasione longobarda era stato, il loro metropolita, e cioè il vescovo di Milano.
L'episcopato di D. rappresentò anche il momento in cui il trionfo dell'ortodossia romana a Pavia si tradusse pienamente nell'organizzazione stessa della città. D. dedicò infatti, con rito esaugurale a s. Eusebio l'antica cattedrale ariana all'interno della città; fondò forse la chiesa di S. Michele, poi detto Maggiore; ripristinò, fuori della città, la chiesa di S. Vittore in Valle Vernasca e l'altra suburbana di S. Nazaro. In passato la sede del vescovo cattolico si trovava fuori delle mura, presso la chiesa dei SS. Gervasio e Protasio, mentre il vescovo ariano risiedeva all'intemo dell'abitato, presso S. Eusebio. D. fece costruire "intra muros" un nuovo palazzo vescovile. L'insieme delle costruzioni di questa domus era probabilmente situato a nord e ad est della basilica di S. Stefano, già esistente forse; nel sec. VI, che D. elevò a cattedrale.
Una tradizione attribuisce - ma a torto - a D. anche l'istituzione dell'uso secondo il quale uno dei cori della cattedrale doppia di Pavia serviva d'estate (S. Stefano) e l'altro d'inverno (S. Maria del Popolo). Questa seconda chiesa, con ogni probabilità, infatti, non fu consacrata che sotto il regno di Liutprando (712-744). È dunque la sola chiesa di S. Stefáno che D. elevò al rango di cattedrale.
Uno stabilimento termale, costruito egualmente per volontà di, D., completava senza dubbio questo complesso monumentale che costituì nel cuore della capitale longobarda un importante centro di amministrazione ecclesiastica e di cultura romana.
D. morì dopo trent'anni di episcopato, probabilmente il 12 apr. 710. Secondo il suo epitaffio, il suo corpo fu inumato "in aula Nazari", da lui fatta costruire in Pavia.
Le fonti dei Liber de laudibus civitatìs Ticinensis (1329) pongono invece la sua tomba nella chiesa dei SS. Cosma e Damiano costruita, secondo la tradizione, dal vescovo Crispino II nel sec. VI. Se dunque si identifica S. Nazaro con la chiesa suburbana dal medesimo nome, anteriore in ogni modo al sec. VII, bisogna supporre che D. non fece che restaurarla e che il suo, corpo fu traslato nella chiesa dei SS. Cosimo e Damiano prima della fine del sec. XIII. Poiché però l'"aula Nazari" dell'iscrizione parrebbe essere di piccole dimensioni, è egualmente possibile pensare che si tratti di una semplice cappella costruita da D. e annessa alla basilica dei SS. Cosma e Damiano.
Considerato ben presto, come santo dalla Chiesa di Pavia, D. fu inscritto nel Martirologio romano alla data del 12 aprile. Il suo corpo fu più tardi traslato nella cattedrale, nella cripta di S. Siro.
Fonti e Bibl.: Martyrologium Romanum, Parisiis 1635, p. 110; Epistola Damiani sub nomine Mansueti Mediolanerisis archiepiscopi ad Constantinum imperatorem, in I. D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, XI, Florentiae 1765, coll. 203-208; Acta Sanctorum Aprilis…, II, Parisiis 1865, pp. 91 s.; Pauli Diaconi Historia Larigobardorum, in Mon. Germ. Hist., Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum, saec. VI-IX, a cura di L. Bethmann-G. Waitz, Hannoverae 1878, V, 38, p. 157; VI, 4, p. 166; Carmen de synodo Ticinensi, ibid., a cura di L. Bethmann, pp. 189 ss.; I. B. de Rossi, Inscriptiones christianae urbis Romae, II, 1,Roma 1888, n. 26, p. 170; Anonymi Ticinensis liber de laudibus civitatis Ticinensis, in Rer. Ital. Script., 2ª ed., XI, 1, a cura di R. Maiocchi-F. Quintavalle, pp. 6, 57, 62; Ch-J. Hefele-H. Leclercq, Histoire desconciles d'après les documents originaux, III, 1,Paris 1909, p. 475; R. Maiocchi-A. Moiraghi, S. Damiano vescovo di Pavia. Appunti biografici, Pavia 1910; M. Manitius, Gesch. der lateinischen Literatur dei Mittelalters, I, VonJustinian bis zur Mitte des 10 Jakhunderts, München 1911, p. 199; L. Duchesne, L'Aglite au VIe siècle, Paris 1925, p. 254; F. Savio, Gli antichi vescovi d'Italia dalle origini al 1300. La Lombardia, II, 2, Bergamo 1932, pp. 366-69; E. Hoff, Pavia und seine Bischöfe im Mittelalter... I. Epoche; Età imperiale. Von den Anfängen des Bistums bis 1100, Pavia 1943, pp. 3, 10, 59 ss., 65 ss., 142, 324; V. Grumel, Damien, in Catholicisme, III (1952), col., 442; G. P. Bognetti, Milano longobarda, in Storia di Milano, II, Milano 1954, pp. 190-93, 206, 222, 224 s., 227-32, 237, 246, 250; E. Arslan, L'architettura dal 568 al Mille, ibid., pp. 532 ss., 541, 546, s., 726; P. Vaccari, Pavia nell'Alto Medioevo e nell'età comunale, Pavia 1956, p. 25; Id., Pavia nell'Alto Medioevo, in Settimane di studio del Centro ital. di studi sull'Alto Medioevo, VI (10-16 apr. 1958), Spoleto 1959, p. 158; D. A. Bullough, Urban Change in Early Medieval Italy: the Example of Pavia, in Papers ofthe British School at Rome, XXXIV (1966), pp. 97, 101; G. P. Bognetti, S. Maria Foris Portas di Castelseprio e la storia religiosa dei Longobardi, in Id., L'Età longobarda, II, Milano 1966, pp. 411-22, 460 ss., 473; G. Tabacco, Espedienti politici e persuasioni religiose nel Medioevo di G. P. Bognetti, in Riv. di storia della Chiesa in Italia, XXIV (1970), pp. 505 s., 515-20; P. Delogu-A. Guillou-G. Ortalli, Longobardi e Bizantini, in Storia d'Italia diretta da G. Calasso, I, Torino 1980, pp. 108, 110, 114 s.; Lexikon für Theologie und Kirche, III,col. 138; Dict. d'Hist. et de Géogr. Ecclés., XIV, col. 54; Bibliotheca Sanctorum, IV,col. 445.
Tratto
da
Nacque
in Oriente nella seconda metà del secolo VII.
Presbitero della Chiesa milanese, compose l’epistola sulla fede cattolica contro l’eresia monotelita, che il concilio di Milano del 679 inviò all’Imperatore Costantino Pogonato. Eletto vescovo di Pavia, rifulse per ardore apostolico e si adoperò per la conversione dei Longobardi, ancora pagani o ariani. Spese gli anni del suo episcopato per ricomporre lo scisma di Aquileia, detto “dei tre capitoli”, che grazie a lui ebbe fine nel Concilio di Pavia del 698. Si narra che allo scoppio della peste a Pavia, ottenne da Roma una reliquia del martire s. Sebastiano, al quale consacrò un altare nella chiesa di S. Pietro in Vincoli: subito l’epidemia cessò.
Morì il 12 aprile del 710 o 711. Il suo corpo si venera attualmente nella Cattedrale di Pavia.
Presbitero della Chiesa milanese, compose l’epistola sulla fede cattolica contro l’eresia monotelita, che il concilio di Milano del 679 inviò all’Imperatore Costantino Pogonato. Eletto vescovo di Pavia, rifulse per ardore apostolico e si adoperò per la conversione dei Longobardi, ancora pagani o ariani. Spese gli anni del suo episcopato per ricomporre lo scisma di Aquileia, detto “dei tre capitoli”, che grazie a lui ebbe fine nel Concilio di Pavia del 698. Si narra che allo scoppio della peste a Pavia, ottenne da Roma una reliquia del martire s. Sebastiano, al quale consacrò un altare nella chiesa di S. Pietro in Vincoli: subito l’epidemia cessò.
Morì il 12 aprile del 710 o 711. Il suo corpo si venera attualmente nella Cattedrale di Pavia.
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