giovedì 7 dicembre 2017

7 dicembre Santo Ambrogio rubrica Santi Italici ed italo greci



 

Santo Ambrogio prima funzionario imperiale nel rango di prefetto ,poi Vescovo di Milano,teologo e pastore,innografo  e confessore della retta fede di fronte  all’eresia ariana (Treviri, Germania, c. 340 - Milano, 4 aprile 397)

Tratto da

http://www.treccani.it/enciclopedia/santo-ambrogio/
È una delle massime figure di vescovo del 4° secolo. Governatore imperiale, fu proclamato vescovo di Milano (374) e divenne guida autorevole dell'episcopato dell'Italia del Nord. Fu autore di molte opere a carattere esegetico, dogmatico e teologico. Avversario di eretici (tra cui gli ariani e i manichei), pagani e dissidenti , fu difensore del primato della Chiesa di Roma .Entrò più volte in contrasto col potere dell'imperatore, che a suo avviso doveva essere considerato dentro la Chiesa, non al di sopra di essa (principio che improntò di sé tutto il Medioevo).


Vita e attività
Rimasto orfano del padre, che a Treviri era forse prefetto al pretorio, si recò a Roma con la madre, la sorella Marcellina (monaca nel 353 o 354) e il fratello Satiro (m. 378). Protetto da Sesto Petronio Probo  prefetto al pretorio, divenne (370 circa) consularis dell'Emilia e Liguria con residenza a Milano. Morto il vescovo Aussenzio, ariano, A., ancora catecumeno, fu proclamato vescovo e in pochi giorni ebbe il battesimo e la consacrazione (7 dic. 374: festa). Iniziò la preparazione teologica e compose dapprima scritti esegetici e in lode della verginità. Divenuto influente, persuase l'imperatore Graziano a riprendere la legislazione antipagana e a ordinare (382) la rimozione della statua della Vittoria dalla curia del senato, provvedimento che provocò proteste e una vivace polemica fra A. e Simmaco. In quella occasione A. richiamò ai suoi doveri di cristiano l'imperatore (Valentiniano II succeduto a Graziano), che egli affermò, come tale, posto nella Chiesa, non al disopra. Valentiniano e la madre Giustina gli dovevano gratitudine per la missione (inverno 383-384) in Gallia presso l'usurpatore Massimo, che si astenne per il momento dall'attaccare l'Italia. Una seconda missione (385) fallì. Ma già redigendo il De fide (378-380) per Graziano e nel concilio di Aquileia (381), A. s'era fatto campione dell'ortodossia contro gli ariani. Questi erano favoriti da Giustina, la quale ingiunse ad A. di cedere loro una chiesa; A. resistette (385), ma il conflitto si fece più aspro l'anno dopo, quando, venuto a Milano un vescovo eretico, Aussenzio, A. per non cederla al nuovo venuto fece occupare la basilica Porzia dalla folla, la quale ravvivata nella sua fede e dal canto liturgico, insegnato da A., sostenne un vero assedio, finché la corte dovette cedere. Poco dopo (Pasqua, 387) battezzò s. Agostino  
La medesima fermezza mostrò A. verso Teodosio, quando questi ordinò la ricostruzione, a spese del vescovo, della sinagoga di Callinico distrutta dai cristiani, e, soprattutto, in occasione della feroce repressione d'una sedizione, ordinata da Teodosio a Tessalonica (390): gli episodî, anche se spogliati degli abbellimenti leggendarî, sono significativa applicazione del principio su ricordato (che passò al Medioevo) che l'imperatore era nella Chiesa, non al di sopra. A. è una delle massime figure di vescovo del sec. 4°. Teologo scarsamente originale, tributario dei Greci (specialmente dei grandi Cappadoci), ma coniatore efficace di formule largamente accolte, fu eminente nel governo ecclesiastico: avversario di eretici (anche i manichei, Gioviniano e Apollinare di Laodicea) e dissidenti (l'antipapa Ursino; meno felice fu A. nei rapporti con Costantinopoli e Antiochia m osteggiando Nettario e Melezio), e e difensore del primato romano (Ubi Petrus ibi Ecclesia); ritrovatore di reliquie (dei santi Gervasio e Protasio a Milano, Vitale e Agricola a Bologna, e Nazario e Celso a Milano); guida autorevole dell'episcopato dell'Italia settentrionale; moralista esaltatore della castità, della carità e della giustizia; regolarizzatore della liturgia, anche nel canto, e autore di inni (autentici, circa una dozzina, in strofe di quattro versi in dimetri giambici) che sono uno dei suoi titoli alla gloria letteraria, da lui meritata anche come oratore efficacissimo. Dei trattati esegetici, in cui impiegò largamente l'allegorismo, il più noto è l'Hexaëmeron (sui 6 giorni della creazione); tra i morali, il De officiis ministrorum, ricalcato sul De officiis ciceroniano, è il primo tentativo di sintesi dell'etica cristiana. Importanti, come documenti storici, le lettere
Nell'iconografia A., effigiato come vescovo, ha per attributi: il libro, perché dottore della Chiesa (rilievo in stucco dell'11° sec. nella Basilica ambrosiana a Milano); l'alveare, simbolo di eloquenza e allusivo alla leggenda che le api iniettassero il miele ad A. bambino, senza pungerlo (paliotto d'oro nella stessa Basilica ambrosiana, del 9° sec.); il flagello, allusivo alla penitenza imposta a Teodosio La più antica effigie del Santo - senza nimbo e senza attributi - è quella, in mosaico, nella cappella dei santi Vittore e Satiro della Basilica ambrosiana, attribuita al 5° secolo
Tratto da http://www.treccani.it/enciclopedia/santo-ambrogio_(Enciclopedia-dell%27-Arte-Medievale)/
A. nacque a Treviri tra il 333 e il 340 da famiglia aristocratica, probabilmente appartenente alla gens Aurelia, e cristiana. Dopo avere studiato retorica ed esercitato la professione di retore, nel 370 ca. fu nominato consularis Liguriae et Aemiliae, con sede a Milano. La buona riuscita del suo governo è testimoniata dal fatto che, alla morte del vescovo ariano Aussenzio (374), tanto la parte ariana quanto la parte cattolica lo acclamarono vescovo, pur essendo egli ancora soltanto catecumeno. Consacrato una settimana dopo il battesimo (7 dicembre 374 o 1 dicembre 373) sotto la guida del dotto prete Simpliciano, che gli successe come vescovo, si dedicò all'acquisizione di quella formazione religiosa, soprattutto biblica, che lo doveva accompagnare lungo tutta la vita e che gli fornì l'occasione di studiare approfonditamente i Padri greci, nonché autori ebrei e pagani quali Filone e Plotino, reminiscenze dei quali si ritrovano abbondantemente nelle sue opere. La Scrittura divenne la fonte della sua attività di pastore e di predicatore, base del suo pensiero teologico, ascetico, politico e sociale. Valentiniano I, Graziano, Valentiniano II e Teodosio sono gli imperatori con i quali successivamente A. si trovò a dover stabilire rapporti non sempre facili; a Graziano (367-383) dedicò anche alcune delle sue opere: il De Fide e il De Spiritu Sancto, per istruirlo sulla fede nicena e metterlo in guardia nei confronti dell'eresia ariana, eresia che preoccupò costantentemente A. e che lo occupò con vari interventi, che segnarono il corso della sua attività di vescovo; principalmente sono da ricordare la convocazione del concilio di Aquileia del 381 e la polemica con Giustina, nel 386, per contrastare la richiesta di assegnazione di una basilica da parte del nuovo vescovo ariano Aussenzio: fu in tale occasione che, con l'occupazione della basilica Porziana, nacque il canto ambrosiano (Agostino, Conf., IX, 6-7). I rapporti tra A. e gli imperatori tuttavia furono anche spesso determinati dalle opposizioni anticattoliche, che da più parti cercavano di ottenere appoggi a corte. L'episodio concernente l'ara della Vittoria, che era stata ripristinata nell'aula del Senato su richiesta dei pagani, vide il vescovo impegnato prima con Graziano e poi con Valentiniano II (382-384), così come la tensione con ambienti giudaici ed eretici portò A. a scontrarsi con Teodosio a proposito dell'episodio della sinagoga incendiata dalla popolazione di Callinico (Osroene, Siria) nel 388. La tensione tra Teodosio e A. ebbe il suo punto culminante nell'estate del 390, quando avvenne l'eccidio di Tessalonica, a cui fece seguito, nel Natale dello stesso anno, la riconciliazione, dopo che l'imperatore ebbe soddisfatto la richiesta del vescovo di fare pubblica penitenza.
L'intensa attività di A. è testimoniata dal numero delle sue opere, che si occupano di esegesi scritturistica (di tipo allegorico-morale, dietro l'influsso di Filone e dei Padri greci, particolarmente di Basilio), di ascetica, di dogmatica, nonché dal suo epistolario, preziosa documentazione - insieme con la biografia scritta da Paolino di Milano - che copre l'intero arco del suo episcopato, fino alla morte, avvenuta a Milano il 4 aprile 397.
L'opera letteraria ambrosiana ha sicuramente ispirato l'attività artistica fin dall'epoca stessa in cui si veniva esplicando. È proprio dal confronto con alcuni testi di A. che gli studiosi hanno potuto individuare, per es., la funzione di certi edifici, quali la cappella di S. Aquilino a Milano, facente parte del complesso architettonico della basilica palatina di S. Lorenzo, costruita poco dopo la morte di Ambrogio. Tale edificio, descritto da Schuster (1940) come battistero, in base all'interpretazione dei mosaici alla luce di brani ambrosiani relativi alla dottrina del battesimo, è stato poi identificato da Cattaneo (1979) come mausoleo imperiale, attraverso il confronto di quanto rappresentato nei mosaici con l'opera di A. De bono mortis.
La Vita sancti Ambrosii carolingia, opera in cui sono confluite le due biografie ambrosiane di Paolino di Milano e di Gregorio di Tours, è stata riconosciuta da Courcelle (1973) quale fonte da cui sono stati ripresi dodici dei quattordici episodi rappresentati nei medaglioni cesellati che si trovano sull'altare d'oro della basilica di S. Ambrogio a Milano, opera di epoca carolingia dovuta all'orafo Vuolvinio. L'artista ha però modificato alcuni elementi del testo ispiratore, per seguire una sua personale concezione delle vicende ambrosiane. Così l'iconografia del terzo medaglione è una vera e propria interpretazione religiosa del ritorno a Milano di A., descritto come miracoloso da Paolino (Vita sancti Ambrosii, 8): Vuolvinio rappresenta A. che, obbediente alla volontà divina manifestata da una mano che si affaccia dal cielo, volta subito il cavallo verso la città. La quarta scena vede A. battezzato nella duplice forma, tipica dell'epoca carolingia, per immersione e per aspersione. Le scene infine rappresentate nel primo e nel nono medaglione, relative al presagio delle api e al sogno profetico della morte di Martino, trovarono grande fortuna nell'iconografia posteriore.
Un altro ciclo di dodici scene della Vita di A. si trova negli stalli in legno, opera conclusa nel Natale del 1471, situati anch'essi nella basilica milanese e ugualmente ispirati alle diverse biografie ambrosiane. Anche in tale ciclo compaiono alcune delle scene che nel corso dei secoli furono riprodotte con più frequenza, quale quella che vede A. proibire a Teodosio l'ingresso in chiesa, e anche in questo caso si nota come lo scultore abbia seguito una propria ispirazione, pur restando fedele alle fonti letterarie. Si veda particolarmente la seconda scena, dove sono i martiri stessi a offrire al vescovo le reliquie che dovevano poi essere donate alle varie chiese.
Ulteriori cicli che rappresentano la Vita di A. si trovano nelle quattro pitture per la predella della certosa di Pavia (ora nel Mus. della Certosa) dipinte alla fine del sec. 15°; nel ciclo degli affreschi di Masolino nella chiesa superiore di S. Clemente a Roma, commissionati dal cardinale milanese Branda da Castiglione nel 1430 ca. e ispirati, oltre che dalla Vita di Paolino, anche dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varazze: da tale fonte è infatti ripreso l'episodio di A. che maledice una sontuosa abitazione. Courcelle (1973), che offre una lettura storica delle opere artistiche aventi per soggetto A. e la sua vita, sottolinea come l'attributo più ricorrente nell'iconografia del vescovo sia un flagello di corde, a indicare la fermezza di A. nella sua azione contro gli ariani e, al tempo stesso, la sua imitazione di Cristo nell'episodio della cacciata dei venditori dal tempio (Sermo contra Auxentium, 23; PL, XVI, coll. 1026-1035). Lo studioso osserva poi come i ricorrenti riferimenti iconografici a un preteso antisemitismo del vescovo (per es. il bassorilievo del sec. 12° proveniente da porta Romana, ora nel Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica di Milano, dove l'iscrizione della cornice superiore parla di A. che scaccia i Giudei, mentre l'indicazione sottostante, descrittiva della scena, porta il nome Arriani sul gruppo dei personaggi cacciati) stiano a indicare come, con il tempo, si sia andata perdendo la conoscenza di quella cultura liberale di A., che appare più nella sua condotta reale che non nelle sue dichiarazioni di principio, e gli siano stati attribuiti pregiudizi e prese di posizione di altre epoche e ambienti.
A. è noto anche come committente di opere d'arte, in special modo architettoniche, che testimoniano la sua cultura artistica di ispirazione plotiniana (Cagiano de Azevedo, 1976): a lui si debbono le quattro basiliche presso le porte, ma fuori dalle mura della città, per garantirne la sicurezza e santificarne la vita all'interno, anticipazione di quella norma giuridica di Giustiniano (Institutiones, II, 1, 7) in base alla quale le mura e le porte della città dovevano essere dedicate non più agli imperatori regnanti, ma ai santi.


Bibliografia
Fonti:
Paolino di Milano, Vita sancti Ambrosii, in PL, XIV, coll. 27-46.
Letteratura critica:
I. Schuster, Sant'Ambrogio e le più antiche basiliche milanesi, Milano 1940.
M.G. Mara, s.v. Ambrogio di Milano, in Patrologia, a cura di J. Quasten, A. Di Bernardino, III, Casale 1978, pp. 135-169.
P. Courcelle, Recherches sur saint Ambroise, ''vies'' anciennes, culture, iconographie (Etudes augustiniennes), Paris 1973 (con bibl.).
M. Cagiano de Azevedo, La cultura artistica di sant'Ambrogio, in Ambrosius Episcopus, "Atti del Congresso Internazionale di studi ambrosiani, Milano 1974" (Studia Patristica Mediolanensia, 6), Milano 1976, I, pp. 316-334.
E. Cattaneo, Il Sant'Aquilino: battistero o mausoleo? Una lettura ambrosiana dei mosaici, in Paradoxos politeia, Studi patristici in onore di G. Lazzati (Studia Patristica Mediolanensia, 10), Milano 1979, pp. 376-388.
Il millennio ambrosiano. Milano, una capitale da Ambrogio ai Carolingi, Milano 1987.


Vescovo di Milano (374-397) Nacque verso il 330 o poco prima, da famiglia romana, e probabilmente a Treviri dove il padre, che era uno dei quattro prefetti del pretorio dell'Impero, aveva allora la sua residenza. Morto questi verso il 354, la vedova con i suoi tre figli, Satiro, Marcellina ed A., tornò a Roma, dove A. si preparò a percorrere il cursus honorum delle pubbliche magistrature. Verso il 372 o 373 per la protezione di Sesto Petronio Probo, prefetto del pretorio d'Italia, fu nominato governatore consularis della Liguria e dell'Emilia con sede a Milano. Era allora vescovo di quella città Aussenzio, nativo di Cappadocia e di parte ariana, durante il lungo episcopato del quale (335-374) la parte cattolica aveva sofferto molte vessazioni. Alla sua morte scoppiò quindi un vivo conflitto. A., che per dovere di ufficio interveniva alle riunioni, venne egli stesso eletto vescovo per acclamazione, sebbene fosse un laico, anzi non avesse ricevuto ancora neppure il battesimo. Questa elezione contraria ai canoni che proibivano l'elevazione di laici all'episcopato, fu, a quanto pare, dovuta all'entusiasmo del popolo per il suo giovane governatore, seppure non fu il risultato di un compromesso tra i due partiti. A. cercò di sottrarsi all'inaspettato incarico, ma cedette all'ordine espresso dell'imperatore ed in pochi giorni ricevette il battesimo, gli ordini e la consacrazione episcopale (7 dicembre 374).
Da vescovo di Milano, che era allora la residenza preferita degli imperatori di occidente, A. si trovò mescolato ai più grandi avvenimenti politici e religiosi del tempo, vi prese parte attiva assumendo spesso posizione di battaglia, ed esercitò una grande influenza in nome di un'autorità morale e religiosa, di cui egli si considerava in tutta coscienza come il depositario autorizzato da Dio. Morì a Milano il 4 aprile 397.
Attività politico-religiosa. - L'autorità di cui A. godette presso gl'imperatori del suo tempo, prima Graziano, poi Valentiniano II e Teodosio, mirò principalmente ad assicurare l'adozione di più severe misure contro i culti pagani, a togliere agli ariani o arianeggianti l'appoggio del potere civile e a ristabilire la pace nella Chiesa. Graziano fu il primo imperatore a rinunziare al titolo di Pontifex Maximus e con lui la legislazione romana prese quell'atteggiamento definitamente ostile ai culti tradizionali di Roma, che culminò con l'editto del 382 in cui si ordinava la rimozione della statua della Vittoria dalla Curia di Roma. L'editto provocò una forte resistenza e vive proteste da parte dei senatori pagani; ma frattanto Graziano veniva assassinato a Lione dall'usurpatore Massimo che rimaneva padrone delle Gallie, lasciando l'Italia a Valentiniano II. Simmaco, senatore e prefetto di Roma indirizzò al nuovo imperatore un'eloquentissima difesa dei culti patrî, producendo un'impressione vivissima nel circolo imperiale. A. venne alla riscossa prima con una vibrata lettera all'imperatore (Ep. XVII), poi con una minuziosa confutazione della difesa di Simmaco (Ep. XVIII). L'editto di Graziano fu confermato, ma la questione si trascinò ancora sino a che non fu più tardi risoluta da Teodosio in favore della parte cristiana. Il cristianesimo diveniva oramai la religione di stato. La difesa di Simmaco e le due lettere di A. sono documenti eloquenti della nuova situazione. Simmaco non domandava che una benevola tolleranza per la religione antica, affinché "la religione romana non fosse messa fuori dal diritto romano" e concludeva con il solito spunto apologetico delle calamità dell'Impero, quale punizione degli dei trascurati e rinnegati. Ma su questo punto di facile confutazione A. appunta i suoi strali e la sua ironia; al paganesimo implorante tolleranza, egli rinfaccia la sua intolleranza sanguinosa verso i cristiani nel passato; giustifica la confisca delle proprietà delle istituzioni religiose pagane con l'affermare che neppure la chiesa cristiana domandava possessi temporali, poiché quanto essa possedeva era in realtà dei poveri. Ma, soprattutto, A. ricordava all'imperatore il suo dovere di cristiano e lo minacciava d'incorrere in sacrilegio se avesse annuito alla richiesta di Simmaco. Tutto il programma religioso-politico della Chiesa medievale si trova già in germe nelle parole di Ambrogio.
Le due successive missioni diplomatiche affidate ad A. presso l'usurpatore Massimo (la prima nell'inverno del 383-384, la seconda generalmente assegnata al 386-387, ma avvenuta forse nel 385), ebbero scopo puramente politico. Si trattava di persuadere Massimo a non invadere l'Italia, lasciandola al fanciullo Valentiniano II sotto la tutela della madre Giustina. Non pare che A. ottenesse molto dall'usurpatore (Ep. XXIV). Nel 388 Massimo invase l'Italia e conquistò Roma, ma, sopravvenuto Teodosio dall'Oriente, fu battuto e massacrato dai soldati ad Aquileia.
Nonostante questi servigi resi a Valentiniano II, A. durante il 385 ed il 386 dovette sostenere fierissime lotte con la corte che favoriva il partito ariano. L'imperatrice Giustina era rimasta attaccata alla confessione semi-ariana di Rimini e la corte era piena di generali e di funzionarî di origine barbara ed ariani. Ripetuti editti imperiali durante quei due anni, specialmente all'avvicinarsi delle feste pasquali, ordinavano che si consegnassero alcune basiliche agli ariani. Il rifiuto energico del vescovo e i tumulti del popolo fedele ad A. ne impedirono l'esecuzione. Le basiliche furono invase dalla popolazione, che vi si accampò per giorni affine d'impedirne l'ingresso ai soldati, e non valsero né esortazioni, né minacce, né arresti in massa per vincerne la resistenza. A., sfidando il potere civile, commentava frattanto al popolo passi dei libri sacri (Ep. XX) e teneva occupata la moltitudine, specialmente nelle lunghe ore di veglia, col canto d'inni e salmi a cori alternati, usanza già praticata in Oriente e che da allora divenne comune anche nelle chiese occidentali. La fermezza di A., che non esitava a negare in modo assoluto ogni diritto del potere civile d'intervenire nell'amministrazione della Chiesa (Ep. XXI), finalmente vinse e l'imperatore, che non osava far mettere le mani addosso al vescovo tanto popolare, cedette. Le relazioni tra Teodosio ed A. furono sempre improntate a mutua stima e grande rispetto; ma in due occasioni A. non esitò a censurare l'imperatore e a domandare riparazioni. In Callinico, città dell'Osroene, erano scoppiati tumulti durante i quali, sembra ad istigazione del vescovo, una sinagoga giudaica venne incendiata e distrutta. Teodosio ordinò che si punissero i colpevoli e che si riedificasse la sinagoga a spese del vescovo. Ad A. ciò parve un insulto alla Chiesa cristiana e in una lettera all'imperatore (Ep. XL) qualificava di sacrilegio l'ordine di usare il patrimonio della chiesa (del vescovo) per edificare una sinagoga. E poiché Teodosio, convinto dell'equità del suo giudizio, non cedeva, un giorno A. pronunziò in chiesa alla presenza dell'imperatore una violenta invettiva contro i giudei esclusi dalla grazia e dalla redenzione per la loro cecità, e ricordò energicamente a Teodosio i benefici ricevuti da Dio e dalla Chiesa (Ep. XLI, alla sorella Marcellina). L'editto fu ritirato. Con ciò A. incitava la legislazione romana ad adottare regolarmente misure restrittive contro tutta una classe di cittadini non cristiani. Il secondo incidente fu quello del massacro di Tessalonica ordinato da Teodosio in un momento d'ira, al ricevere la notizia che durante un tumulto il governatore ed altri funzionarî imperiali erano stati assassinati. La lettera di A. a Teodosio (Ep. LI) è un documento nobilissimo di coraggio e di alto senso morale. Vi si denunzia l'enormità della repressione che aveva fatto tante vittime innocenti e dell'imperatore stesso un reo di grave peccato da espiarsi pubblicamente prima di presentarsi all'altare. Per otto mesi Teodosio resistette, ma, avvicinandosi il Natale, domandò la riconciliazione, si sottomise ad una penitenza pubblica e fu riammesso alla comunione. Il racconto dello storico Teodoreto, col drammatico incontro dell'imperatore e di A. dinanzi alla porta della basilica e le impressionanti umiliazioni pubbliche a cui Teodosio si sarebbe sottomesso, sembra in gran parte leggendario; ma ciò nulla toglie al valore morale e storico dell'episodio.
Uomo di governo e spirito pratico, A. fu un fedele sostenitore delle istituzioni politiche dell'Impero, ma in lui le virtù romane erano illuminate dalle ragioni superiori dello spiritualismo e della morale cristiana; ed egli non esitò mai a sostenere di fronte ai sovrani, e con straordinaria fermezza, i diritti della legge divina e di quella ecclesiastica. Sebbene invocasse qualche volta l'appoggio del potere civile, come nel caso degli orientali, si può dire che in massima A. ripudiasse ogni ingerenza di esso in affari ecclesiastici e condannasse i costanti abusi che di tale ingerenza facevano i vescovi. Ridonda pure ad onore di A. l'avere rifiutato ogni comunione coi vescovi che avevano portato innanzi la corte dell'imperatore Massimo la causa di Priscilliano, provocandone la condanna a morte, e l'avere deplorato lo spargimento di sangue per divergenze dottrinali.
Governo ecclesiastico. - Tra le grandi figure di vescovi del sec. IV quella di A. è una delle più cospicue per lo zelo instancabile nell'adempimento della sua missione. Le lotte e le controversie dottrinali contro eretici e dissidenti, la formazione morale del clero, l'istruzione religiosa del popolo, la direzione delle anime dedite all'ascetismo, la restaurazione e fabbrica di nuove basiliche, la regolarizzazione della liturgia, il culto dei martiri e la cura dei poveri, degli orfani e dei bisognosi, furono il campo in cui A. lasciò tracce profonde della sua attività. Il suo epistolario è ricco d'informazioni a questo riguardo. Da esso apprendiamo (Ep. XXII) il famoso episodio della invenzione dei corpi dei santi Gervasio e Protasio, avvenuta proprio quando i torbidi di Milano per la questione delle basiliche reclamate dagli ariani aveano raggiunto il periodo più acuto. Le agiografie del tempo sono piene di racconti di visioni rivelatrici di luoghi dove corpi di martiri giacevano ignorati; e, come osserva il Duchesne (Hist. anc. de l'Église, II, Parigi 1907, p. 554) A. divenne abilissimo in tali scoperte e così più tardi trovò a Bologna la tomba dei santi Vitale ed Agricola e di nuovo a Milano quelle dei santi Nazario e Celso. Ma l'attività di A. si esercitò anche fuori dell'ambito della sua chiesa. Non di rado egli prese l'iniziativa in affari di ordine generale e la sua autorità era così rispettata, che a lui, più ancora che ai vescovi di Roma, si rivolgevano quanti cercavano che la Chiesa riorganizzasse i proprî ordinamenti e mettesse riparo al processo di disgregamento prodotto dalla crisi ariana. All'opera di restaurazione della Chiesa occidentale A. prese parte vivissima; impedì l'elezione di vescovi arianeggianti, altri ne fece deporre, e fu l'anima di parecchi sinodi, tra cui quelli di Aquileia (382?), di Roma (387), di Capua (391): uno ne convocò egli stesso a Milano, in cui fu condannato Gioviniano per i suoi attacchi contro la verginità. Il suo interessamento si estendeva a tutte le chiese ed egli non risparmiava consigli e suggerimenti, esortazioni e minacce e soprattutto non lasciava passare occasione per distogliere gl'imperatori dal favorire coloro che a suo giudizio nuocevano alla Chiesa. Si occupò vivamente anche degli affari della Chiesa orientale sebbene il suo intervento in cose, di cui evidentemente era male informato, riuscisse in fondo più dannoso che utile alla pace. L'appoggio dato a Paolino, contro il vescovo Melezio di Antiochia, l'errore commesso nel sostenere anche per poco la causa del malfamato Massimo detto il Cinico, pretendente alla sede di Costantinopoli contro S. Gregorio di Nazianzo e il suo successore Nettario, non fecero che acuire il risentimento degli orientali contro l'intervento degli occidentali, che nulla capivano della situazione vera di quelle chiese e che stranamente diffidavano della sincerità di quel gruppo di vescovi capitanati dai grandi Dottori cappadoci, i quali si sforzavano di ristabilire la concordia dopo tante tragiche lotte e dolorose scissioni.
Attività letteraria. - Quale autore di trattati dottrinali e morali, A. è annoverato tra i grandi dottori della Chiesa latina. Al tempo della sua elevazione all'episcopato, egli difettava intieramente di preparazione teologica e, come dice egli stesso, si trovò nella necessità d'insegnare prima ancora di avere imparato. Imparò presto e bene; ma sia per il carattere pratico della sua mentalità, sia perché tutto preso dalle esigenze del governo ecclesiastico, A. non fece opera originale di speculazione teologica e di esposizione morale. Più che altro, egli fu un divulgatore. I suoi trattati teologici non sono che collezioni di sermoni predicati al popolo e poi raccolti e messi insieme da lui stesso per istruzione ed edificazione dei fedeli. Gli scritti ambrosiani si possono classificare in esegetici, dogmatici, morali-ascetici, a cui bisogna aggiungere una non larga collezione di orazioni specialmente funebri, l'epistolario e gl'inni liturgici. Dei trattati esegetici ce ne sono pervenuti una ventina, quasi tutti sul Vecchio Testamento, il più esteso e più noto dei quali è l'Hexaemeron in sei libri (sui sei giorni della creazione: Genesi I-II, 4).
Degli altri diamo i titoli: De Paradiso; De Cain et Abel; De Noe; De Abraham l. II; De Isaac et anima; De bono mortis; De fuga saeculi; De Jacob et vita beata, l. II; De Joseph patriarcha; De patriarchis; De Helia et ieiunio; De Tobia; De interpellatione Job et David; Apologia prophetae David; Enarrationes in XII Psalmos davidicos; Expositio in Psalmum CXVIII; Expositio evangelii secundum Lucan, l. X.
A torto si è creduto che A. fosse l'introduttore del metodo allegorico nell'esegesi latina; però non vi è dubbio che egli ne sia stato il gran divulgatore (v. allegoria). Poco derivò dai teologi latini suoi predecessori, ma attinse in larga copia dai teologi greci dai quali trasse non solo il metodo, ma anche il contenuto dottrinale dei suoi trattati. Filone e Origene furono gli autori principali a cui attinse A., mettendo pure a larga contribuzione Ippolito e specialmente Basilio, l'Hexaemeron del quale egli spesso riproduce e parafrasa nel suo trattato dallo stesso titolo. Dominato da preoccupazioni di ordine pratico ed ansioso di trarre dai testi sacri ogni sorta d'insegnamenti positivi per istruzione del popolo, A. usò e abusò del metodo allegorico, e servì di modello ai teologi latini posteriori. Molto pure derivò dagli scrittori profani, greci e latini, ch'ebbe familiari; così nell'Hexaemeron, a proposito della creazione degli animali, si dilunga a descriverne i costumi ed il simbolismo, specialmente degli uccelli, attingendo molte nozioni da Plinio, da Eliano e dai poeti, e creando così il modello a cui si ispirarono anche nell'ordine della trattazione gli Specula, in cui i teologi medievali descrissero l'universo e ne spiegarono il complicato simbolismo.
Delle opere dogmatiche di A. ci restano un trattato De fide, scritto nel 378 e poi rifatto nel 381, per uso dell'imperatore Graziano, tre libri De Spiritu Sancto, dedicati allo stesso, ed un trattato De Incarnationis dominicae sacramento, scritto nello stesso periodo. Più che altro sono affrettate compilazioni fatte sui trattati dogmatici (specialmente per il De Spiritu Sancto) di Atanasio, Basilio, Didimo il Cieco, Gregorio di Nazianzo ed Epifanio. S. Girolamo, che indubbiamente aveva dei rancori contro A. (riflettendo forse in questo suo atteggiamento l'irritazione del circolo romano di papa Damaso contro l'inframmettenza di A. in affari che erano al di fuori della sua giurisdizione ecclesiastica), nella prefazione alla sua traduzione del trattato di Didimo, dedicata appunto a papa Damaso, diede un giudizio molto severo sul De Spiritu Sancto: "Preferisco farla da traduttore di lavori di altri, anziché, come fanno certuni, da cornacchia disgustosa che si adorna delle penne altrui. Lessi poco fa il lavoruccio di un tale (A.) sullo Spirito Santo, e, come dice il poeta comico, ex graecis bonis, vidi latina non bona. Nulla di dialettico in esso, nulla di virile, nulla di convincente" (Patrol. lat., XXIII, c. 103). Ciò non ostante i trattati dogmatici di A. hanno una grande importanza nella storia della teologia latina, perché da essi i teologi occidentali derivarono in larga misura formulazioni dottrinali e processi di esposizione, caratteristici nella tradizione teologica. A questa classe di scritti si possono aggiungere il breve trattato De mysteriis, esposizione catechistica, in cui attraverso faticose parafrasi di testi biblici A. spiega il contenuto simbolico del rituale, e il trattato De paenitentia (commento al Salmo XXXVII) diretto contro i sopravviventi novazianisti che negavano alla Chiesa il potere di riconciliare i peccatori.
Il trattato De officiis ministrorum rappresenta il primo tentativo di una sintesi dell'etica cristiana dedicato, giusta il titolo, al clero, ma di fatto a tutta la società cristiana. In questo lavoro, A. segue da vicino il De officiis di Cicerone, non solo nel piano generale dell'opera, ma anche nelle idee e spesso nelle espressioni, accomodando l'insegnamento stoico a quello biblico e della tradizione cristiana. Come è stato osservato (Thamin, Saint Ambroise et la morale chrétienne au IV siècle, Parigi 1895), A. prese dalla morale stoica, di cui Cicerone era stato l'interprete eloquente, una serie di nozioni, quali la distinzione tra la ragione e le passioni, l'argomento del bene supremo, la classificazione delle virtù, la distinzione tra doveri primarî e secondarî, il valore attribuito al giudizio della coscienza, ecc. Però in A. queste nozioni sono compenetrate da uno spirito ben diverso e illuminate da ragioni superiori, ignote a Cicerone, e sanzionate con efficacia nuova.
Di carattere morale-ascetico sono parecchi trattati di A., concernenti specialmente la verginità (De virginibus ad Marcellinam, De virginitate, De institutione virginis, Exhortatio virginitatis, ecc.) presentata come la virtù essenzialmente cristiana ed esaltata con immagini e parole eloquenti quale istituzione divina. La continua ed entusiasta propaganda di A. per la verginità provocò l'accusa ch'egli condannasse il matrimonio, e perciò contribuisse allo spopolamento; egli si difese riconoscendo l'ordinamento divino nel matrimonio. D'altra parte egli invitava a riflettere che là dove spesseggiano le vocazioni verginali s'addensa e s'accresce provvidenzialmente la popolazione. Con ciò, come è stato argutamente osservato (Ricerche religiose, IV, 1928, p. 185), A. scambiava ingenuamente l'effetto con la causa. La sua celebrazione della verginità e l'esempio della sua vita stessa, che fu tutta un nobile saggio di austerità e di pietà, contribuirono molto alla cristallizzazione nella tradizione cattolica latina di certi principî ascetici che influirono non poco in seguito sull'intiera disciplina ecclesiastica.
Le orazioni funebri (in morte del fratello Satiro, di Valentiniano II, e di Teodosio) sono tra i migliori esempî dell'eloquenza latina del sec. IV; in esse A., pur usando abilmente di tutte le risorse dell'arte retorica, dà libero sfogo a sentimenti, affetti e reminiscenze personali, intrecciandovi considerazioni filosofiche, religiose e morali sulla morte e sulle vicende della storia umana. L'epistolario di A. comprende 91 lettere, parecchie delle quali però sono rapporti o scritti di origine non epistolare. Esse costituiscono un documento storico di primaria importanza, sia per la biografia di A., sia perché, data la partecipazione di lui ad affari religiosi e politici, sono anche una fonte importante per la storia del tempo.
Non ultima fra le attività di A. fu la sua contribuzione all'innografia cristiana. Abbiamo già accennato come, durante i conflitti per il possesso delle basiliche in Milano, A. tenesse occupato il popolo che faceva la guardia col canto di salmi e di inni. Egli stesso ne compose parecchi; ma degl'innumerevoli inni che nelle raccolte vanno sotto il nome di ambrosiani soltanto una dozzina possono sicuramente attribuirsi a lui. Sono scritti nel metro classico (dimetro giambico) però, sebbene i versi siano strettamente quantitativi, la loro struttura mostra molta affinità con quella della poesia ritmica. Composti con lo scopo pratico di esporre la dottrina cattolica in modo da colpire l'immaginazione popolare, questi inni possiedono allo stesso tempo ammirevoli qualità: semplicità di frasi, evidenza d'immagini e fervore evangelico. Essi servirono di modello, ed A. può a ragione considerarsi come il padre della innologia liturgica latina.
Iconografia. A Milano e alla Lombardia appartengono le più antiche rappresentazioni di S. Ambrogio. Sono: un ritratto in mosaico nella cappella di S. Satiro della Basilica Ambrosiana, attribuito alla fine del V secolo, raffigurante il Santo senza nimbo e senza attributi; l'Altare d'oro della stessa basilica, illustrante in dodici riquadri episodî della sua vita; un'immagine clipeata, in stucco, della fine del secolo XII; le sculture del ciborio e infine il mosaico dell'abside, nel quale, annessi alla figurazione principale, sono due riquadri illustranti il sogno del Santo in occasione del seppellimento di Martino vescovo di Tours.
S. Ambrogio ha per attributi il libro, perché Dottore della Chiesa, l'alveare, simbolo di eloquenza e allusivo alla leggenda (non esclusiva di A.) illustrata nel paliotto d'oro e forse negli affreschi di Masolino in San Clemente a Roma, che ad A. bambino delle api iniettassero senza pungerlo il miele; il flagello, che la leggenda variamente riferisce all'episodio della penitenza imposta a Teodosio, o alle vittorie del santo contro gli ariani o all'aiuto da lui dato ai Milanesi in una battaglia del 1339. Il più antico monumento che lo rappresenti con il flagello è una scultura in Sant'Ambrogio di Milano, del sec. XIII.
Ediz.: La prima edizione critica fu quella dei benedettini di S. Mauro, S. Ambrosii Opera, ad mss. codd. Vatic. Gallic. Belg. etc. emendata, studio monachorum S. Bened. (J. du Friche e Nic. Le Nourry), voll. 2, Parigi 1686-1690, riprodotta in Patrologia latina, XIV-XVII P. A. Ballerini ne curò una nuova edizione in sei volumi (Milano 1875-1883) usando anche, ma con poco discernimento, manoscritti della Biblioteca Ambrosiana. Nel Corpus scriptorum ecclesiast. latin. di Vienna sono apparse sinora le opere esegetiche (vol. XXXII, in 3 parti, per cura di C. Schenkl, 1897-1902; vol. LXII, 1923 e vol. LXIV, 1922, per cura di M. Petschenig). Per la cronologia delle opere vedi M. Ihm, Studia Ambrosiana, in Jahrbücher für klass. Philol., suppl. XVII, 1890.
Bibl.: Vita S. Ambrosii a Paulino eius notario ad B. Augustinum conscripta, in Patrol. lat., XIV, col. 29 segg.; Van Ortroy, Les Vies grecques de saint Ambroise, in Scritti vari per il centen. di S. Ambr., Milano 1897; editori benedettini, Vita S. Ambrosii ex eius scriptis collecta, in Patrol. lat., XIV, col. 73 segg.; Th. Foerster, Ambrosius, eine Darstellung seines Lebens u. Wirkens, Halle 1884; A. de Broglie, Sant Ambroise (coll. Les Saints), 4ª ed., Parigi 1901; P. de Labriolle, Saint Ambroise (coll. La Pensée chrét.), Parigi 1908 (con traduzione di molti passi dalle opere); E. Buonaiuti, Sant'Ambrogio (coll. Profili), Roma 1926; F. Eggleston, The Exaemeral Literature, Chicago 1912; Th. Shermann, Die griechische Quellen d. hl. Ambrosius, Monaco B. 1902; G. Mercati, Le "titulationes" nelle opere dogmatiche di S. Ambrogio, in Ambrosiana, VIII (1897); J. E. Niederhuber, Die Eschatologie d. hl. Ambrosius, Paderborn 1907; id., Die Lehre d. hl. Ambrosius vom Reiche Gottes auf Erden, Magonza 1904; J. Draeseke, M. T. Ciceronis et Ambrosii "De Officiis" libri inter se comparati, in Riv. di filologia e istr. class., 1875, 1876, pp. 121-174; R. Thamin, Saint Ambroise et la morale chrétienne au IV siècle, Parigi 1895; L. Visconti, Il primo trattato di filosofia morale cristiana, in Atti Accad. archeol. di Napoli, 1906; G. Nosari, Del preteso stoicismo ciceroniano nei libri De Officiis di S. Ambrogio, Padova 1911; F. Rozynski, Die Leichenreden d. hl. Ambrosius, ecc., Breslavia 1910; W. Wilbrand, S. Ambrosius quos auctores quaeque exemplaria in epistulis componendis secutus sit, Monaco 1909; C. Ferrini, Postille giuridiche all'Ep. 20 di S. Ambrogio, in Ambrosiana, Milano 1897; G. M. Dreves, Ambrosius der Vater der Kirchengesanges, Friburgo in B. 1893; V. Ermoni, Ambroise (Saint) Hymnographe, in Dictionnaire d'archéol. chrét. et de liturgie, I; F. Lora, Saggio sintattico comparativo su Girolamo, Agostino e Ambrogio, Padova 1900; P. Cannata, De syntaxi ambrosiana in libris qui inscribuntur De Officiis, Catania 1911; G. B. Ristori, Sulla venuta ed il soggiorno di S. Ambrogio a Firenze, in Arch. stor. italiano, 1905, p. 241 segg.; A. Ratti, Il più antico ritratto di S. Ambrogio, in Ambrosiana, XIV (1897); V. Ussani, La questione e la critica del cosiddetto Egesippo, in Studi ital. di filolog. class., 1906, p. 245 segg.; O. Bardenhewer, Geschichte der altkirchlichen Literatur, III, Friburgo in B. 1912, p. 498 segg.; M. Schanz, Geschichte der römischen Litteratur, IV, i, Monaco 1914, p. 315 segg.; v. ambrosiastro. Per l'iconografia: A. Ratti, op. cit.; G. Calligaris, in Ambrosiana, 1897; K. Künstle, Ikonographie der Heiligen, Friburgo in B. 1926; H. v. Campenhausen, A. von Mailand als Kirchenpolitiker, Berlino-Lipsia 1929.

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SAN AMBROGIO DI MILANO
Aurelio Ambrogio, meglio conosciuto come sant’Ambrogio (Treviri, incerto 339-340 – Milano, 397), vescovo, scrittore e uomo politico, fu una delle personalità più importanti nella Chiesa del IV secolo. È venerato come santo da tutte le Chiese cristiane che prevedono il culto dei santi; in particolare, la Chiesa cattolica lo annovera tra i quattro massimi Dottori della Chiesa, insieme a san Girolamo, sant’Agostino e san Gregorio I papa.
Conosciuto anche come Ambrogio di Milano, è patrono della città, della quale fu vescovo dal 374 fino alla sua morte e nella quale è presente la basilica a lui dedicata che ne conserva le spoglie.
Aurelio Ambrogio nacque nel 339-340, da una importante famiglia senatoria romana (la famiglia degli Aurelii, da parte materna, la famiglia dei Simmaci, da parte paterna), a Treviri (Gallia), dove il padre esercitava la carica di prefetto del pretorio delle Gallie.
La famiglia di Ambrogio era cristiana da alcune generazioni (egli stesso cita con orgoglio la sua parente Santa Sotere, martire cristiana che «ai consolati e alle prefetture dei parenti preferì la fede») ed egli era terzogenito dopo due fratelli, Marcellina (consacratasi a Dio nelle mani di papa Liberio nel 353) e Satiro, anch’essi venerati poi come santi.
Destinato alla carriera amministrativa sulle orme del padre, dopo la sua morte prematura frequentò le migliori scuole di Roma, dove compì i tradizionali studi del trivio e del quadrivio (imparò il greco e studiò diritto, letteratura e retorica), partecipando poi alla vita pubblica della città.

Incarichi pubblici e nomina a vescovo di Milano
Dopo cinque anni di avvocatura a Sirmio, nel 370 fu incaricato quale governatore della provincia romana dell’Emilia-Liguria, con sede a Milano, dove divenne una figura di rilievo nella corte dell’imperatore Valentiniano I. La sua abilità di funzionario nel dirimere pacificamente i forti contrasti tra ariani e cattolici gli valse un largo apprezzamento da parte delle due fazioni.
Nel 374, alla morte del vescovo ariano Aussenzio di Milano, la delicata situazione di contrasto tra le due fazioni sembrò precipitare. Il biografo Paolino racconta che Ambrogio, preoccupato di sedare il popolo in rivolta per la designazione del nuovo vescovo, si recò in chiesa dove all’improvviso si sarebbe sentita la voce di un bambino urlare «Ambrogio vescovo!», a cui si unì quella unanime della folla radunata nella chiesa. Ambrogio, nonostante fosse di fede cristiana, rifiutò decisamente l’incarico, sentendosi impreparato: come era in uso presso alcune famiglie cristiane all’epoca, egli non aveva ancora ricevuto il battesimo, né aveva affrontato studi di teologia.
Paolino racconta che, al fine di desistere il popolo di Milano dalla sua nomina a vescovo, Ambrogio provò anche a macchiare la buona fama che lo circondava, ordinando la tortura di alcuni imputati e invitando in casa sua alcune prostitute; ma, dal momento che il popolo non recedeva nella sua scelta, egli tentò addirittura la fuga. Quando venne ritrovato, il popolo decise di risolvere la questione appellandosi all’autorità dell’imperatore Flavio Valentiniano, cui Ambrogio era alle dipendenze. Fu allora che quest’ultimo accettò l’incarico, considerando che fosse questa la volontà di Dio nei suoi confronti, e decise di farsi battezzare secondo la fede cristiana: nel giro di sette giorni ricevette il battesimo e, il 7 dicembre 374, venne ordinato vescovo. Riferendosi alla sua elezione, egli scriverà poco prima della morte: « Quale resistenza opposi per non essere ordinato! Alla fine, poiché ero costretto, chiesi almeno che l’ordinazione fosse ritardata. Ma non valse sollevare eccezioni, prevalse la violenza fattami »
Nonostante, come scrisse più tardi, si sentisse «rapito a forza dai tribunali e dalle insegne dell’amministrazione al sacerdozio», dopo la nomina a vescovo Ambrogio prese molto sul serio il suo incarico e si dedicò ad approfonditi studi biblici e teologici.

Gli impegni pastorali
Quando divenne vescovo, adottò uno stile di vita ascetico, elargì i suoi beni ai poveri, donando i suoi possedimenti terrieri (eccetto il necessario per la sorella Marcellina).
Uomo di grande carità, tenne la sua porta sempre aperta, prodigandosi senza tregua per il bene dei cittadini affidati alle sue cure. Ad esempio, Sant’Ambrogio non esitò a spezzare i Vasi Sacri e ad usare il ricavo dalla vendita per il riscatto di prigionieri. Di fronte alle critiche mosse dagli ariani per il suo gesto, egli rispose che «è molto meglio per il Signore salvare delle anime che dell’oro. Egli infatti mandò gli apostoli senza oro e senza oro fondò le Chiese. [...] I sacramenti non richiedono oro, né acquisisce valore per via dell’oro ciò che non si compra con l’oro» (De officiis, II, 28, 136-138)
La sua sapienza nella predicazione e il suo prestigio furono determinanti per la conversione nel 386 al cristianesimo di Sant’Agostino, di fede manichea, che era venuto a Milano per insegnare retorica.
Ambrogio fece costruire varie basiliche, di cui quattro ai lati della città, quasi a formare un quadrato protettivo, probabilmente pensando alla forma di una croce. Esse corrispondono alle attuali basiliche di San Nazaro (sul decumano, presso la Porta Romana, allora era la Basilica Apostolorum), di San Simpliciano (sulla parte opposta), di Sant’Ambrogio (collocata a sud-ovest, era chiamata originariamente Basilica Martyrum in quanto ospitava i corpi dei santi martiri Gervasio e Protasio rinvenuti da Ambrogio stesso; accoglie oggi le spoglie del santo) e di San Dionigi.
Il ritrovamento dei corpi dei santi martiri Gervasio e Protasio è narrato dallo stesso Ambrogio, che attribuisce il merito del ritrovo ad un presagio, per il quale egli fece scavare la terra davanti ai cancelli della basilica (oggi distrutta) dei santi Felice e Nabore. Al ritrovamento dei corpi seguì la loro traslazione (secondo un rito importato dalla chiesa orientale) nella Basilica Martyrum; durante la traslazione, si racconta (è lo stesso Ambrogio a riportarlo) che un cieco di nome Severo riacquistò la vista. Il ritrovamento del corpo dei martiri da parte del vescovo di Milano diede grande contributo alla causa degli ortodossi nei confronti degli ariani, che costituivano a Milano un gruppo nutrito e attivo e negavano la validità dell’operato di Ambrogio, di fede cattolica ortodossa.
Fu autore di diversi inni per la preghiera, compiendo fondamentali riforme nel culto e nel canto sacro, che per primo introdusse nella liturgia cristiana, e ancor oggi a Milano vi è una scuola che tramanda nei millenni questo antico canto di provenienza dal canto bizantino.
Politica ecclesiastica
L’importanza della sede occupata da Ambrogio, teatro di numerosi contrasti religiosi e politici, e la sua personale attitudine di uomo politico lo portarono a svolgere una forte attività di politica ecclesiastica. Egli scrisse infatti opere di morale e teologia in cui combatté a fondo gli errori dottrinali del suo tempo. Si mostrò in prima linea nella lotta all’arianesimo, che aveva trovato numerosi seguaci a Milano e nella corte imperiale. Si scontrò per questo motivo con l’imperatrice Giustina, di fede ariana e probabilmente influì sulla politica religiosa dell’imperatore Graziano che, nel 380, inasprì le sanzioni per gli eretici. Il momento di massima tensione si ebbe nel 385-386 quando, dopo la morte di Graziano, gli ariani chiesero insistentemente con l’appoggio della corte imperiale una basilica per praticare il loro culto. L’opposizione di Ambrogio fu energica tanto che rimase famoso l’episodio in cui, assieme ai fedeli di retta fede, “occupò” la basilica destinata agli ariani finché l’altra parte fu costretta a cedere. Fu in questa occasione, si racconta, che Ambrogio introdusse l’usanza di del canto antifonale e della preghiera cantata in forma di inno, con lo scopo di non fare addormentare i fedeli che occupavano la basilica. Fu inoltre determinante per la vittoria di Ambrogio nella controversia con gli ariani il ritrovamento dei corpi dei santi Gervasio e Protaso, che avvenne proprio nel 386 sotto la guida del vescovo di Milano, il quale guadagnò in questo modo il consenso di gran parte dei fedeli della città.
Fu infine forte avversario del paganesimo “ufficiale” romano, che dimostrava in quegli anni gli ultimi segni di vitalità; per questo motivo si scontrò con il senatore Simmaco che chiedeva il ripristino dell’altare e della statua della dea Vittoria rimossi dalla Curia romana, sede del Senato, in seguito a un editto di Graziano nel 382.

Rapporti con la corte imperiale
Il potere politico e quello religioso al tempo erano strettamente legati: in particolare l’imperatore, a cominciare da Costantino, possedeva una certa autorità all’interno della Chiesa. A questo si aggiunsero la posizione di Ambrogio, vescovo della città di residenza della corte imperiale, e la sua precedente carriera come avvocato, amministratore e politico, che lo portarono intervenire più volte in primo piano nelle vicende politiche, ad avere stretti rapporti con gli ambienti della corte e dell’aristocrazia romana, e talvolta a ricoprire specifici incarichi diplomatici per conto degli imperatori.
In particolare, nonostante il convinto lealismo verso l’impero Romano e l’influenza importante nella vita politica dell’impero, i suoi rapporti con le istituzioni non furono sempre pacifici, soprattutto quando si trattò di difendere la causa della Chiesa e dell’ortodossia religiosa. Gli storici bizantini gli accreditarono questo atteggiamento come parrhesia (παρρησία), schiettezza e verità di fronte ai potenti e al potere politico, che traspare a partire dal suo rapporto epistolare con l’imperatore Teodosio.
Essendo Ambrogio precettore dell’imperatore Graziano, lo educò secondo i principi del Cristianesimo. Egli predicava all’imperatore di rendere grazie a Dio per le vittorie dell’esercito, e lo appoggiò nella disputa contro il senatore Simmaco, che chiedeva il ripristino dell’altare alla dea Vittoria rimossi dalla Curia romana.
Chiese poi a Graziano di indire un concilio (che si tenne ad Aquileia nel settembre del 381) per condannare due vescovi eretici, secondo i dettami dei vari concili ecumenici ed anche secondo l’opinione del vescovo di Roma e dei vescovi ortodossi. In questo concilio Ambrogio si pronunciò contro l’arianesimo.
Importante la dura presa di posizione di Ambrogio che con Cromazio di Aquileia assunse per far liberare San Giovanni Crisostomo dall’esilio impostogli dall’Imperatore.
Ambrogio influì anche sulla politica religiosa di Teodosio I. Nel 380, con l’editto di Tessalonica, il cristianesimo fu proclamato religione di stato.
Nel 390 richiamò severamente l’imperatore, che aveva ordinato un massacro tra la popolazione di Tessalonica, rea di aver linciato il capo del presidio romano della città: in tre ore di carneficina erano state assassinate migliaia di persone, attirate nell’arena con il pretesto di una corsa di cavalli. Ambrogio, venuto a conoscenza dell’accaduto, evitò una contrapposizione aperta con il potere imperiale (con il pretesto di una malattia evitò l’incontro pubblico con Teodosio) ma, per via epistolare, chiese in modo riservato ma deciso una «penitenza pubblica» all’imperatore, che si era macchiato di un grave delitto pur dichiarandosi cristiano, pena l’esclusione dai sacri riti («Non oso offrire il sacrificio, se tu vorrai assistervi», Lettera 11). Teodosio accettò di rimettersi alla volontà del vescovo e fece atto di pubblica penitenza nella notte Natale di quell’anno, momento in cui venne assolto e riammesso ai sacramenti.
Dopo questo episodio la politica religiosa dell’imperatore si irrigidì notevolmente: tra il 391 e il 392 furono emanati una serie di decreti (noti come decreti teodosiani) che attuavano in pieno l’editto di Tessalonica: venne interdetto l’accesso ai templi pagani e ribadita la proibizione di qualsiasi forma di culto, compresa l’adorazione delle statue; furono inoltre inasprite le pene amministrative per i cristiani che si riconvertissero nuovamente al paganesimo e nel decreto emanato nel 392 da Costantinopoli, l’immolazione di vittime nei sacrifici e la consultazione delle viscere erano equiparati al delitto di lesa maestà, punibile con la condanna a morte.
Pensiero e opere
Fortemente legata all’attività pastorale di Ambrogio fu la sua produzione letteraria, spesso semplice frutto di una raccolta e di una rielaborazione delle sue omelie e che quindi mantengono un tono simile al parlato.
Per il suo stile dolce e misurato del suo parlato e della sua prosa, Ambrogio venne definito «dolce come il miele» e tra i suoi attributi compare perciò un alveare.

Esegesi
Oltre la metà dei suoi scritti è dedicata all’esegesi biblica, che egli affronta seguendo un’interpretazione prevalentemente allegorica e morale del testo sacro (in particolare per quanto riguarda l’Antico Testamento): ad esempio, ama ricercare nei patriarchi e nei personaggi biblici in generale figure di Cristo o esempi di virtù morali. Fu proprio questo metodo di lettura della Bibbia ad affascinare Sant’Agostino e a risultare determinante per la sua conversione (come egli scrisse nelle Confessioni V, 14, 24).
Secondo Gérard Nauroy, «per Ambrogio l’esegesi è un modo fondamentale di pensare piuttosto che un metodo o un genere: [...] ormai egli “parla la Bibbia”, non più con la giustapposizione di citazioni dagli stili più diversi, ma in un discorso sintetico, eminentemente allusivo, “misterico” come la Parola stessa». Per Ambrogio la lettura e l’approfondimento della conoscenza biblica costituiscono un elemento fondamentale della vita cristiana: « Bevi dunque tutt’e due i calici, dell’Antico e del Nuovo Testamento, perché in entrambi bevi Cristo. [...] La Scrittura divina si beve, la Scrittura divina si divora, quando il succo della parola eterna discende nelle vene della mente e nelle energie dell’anima »(Ambrogio, Commento al Salmo I, 33)
Tra le opere esegetiche spiccano l’esauriente commento al Vangelo di Luca (Expositio evangelii secundum Lucam) e l’Exameron (dal greco “sei giorni”). Quest’ultima opera, ispirata ampiamente all’omonimo Exameron di Basilio di Cesarea, raccoglie, in sei libri, nove omelie riguardanti i primi capitoli della Genesi dalla creazione del cielo fino alla creazione dell’uomo. Anche in questo caso, il racconto della creazione è occasione di evidenziare insegnamenti morali desunti dalla natura e dal comportamento degli animali e dalle proprietà delle piante; in questo senso l’uomo appare ad Ambrogio necessariamente legato con tutto il creato dal punto di vista non solo biologico e fisico, ma anche morale e spirituale.

Morale e ascetismo
Un altro gruppo significativo consiste nelle opere di argomento morale o ascetico, tra le quali risalta il De officiis ministrorum (talvolta abbreviato in De officiis), un trattato sulla vita cristiana rivolto in particolare al clero ma destinato a tutti i fedeli. L’opera ricalca l’omonimo scritto di Cicerone, che si proponeva come manuale di etica pratica indirizzato al figlio (cui è dedicato) rivolto soprattutto a questioni politico-sociali. Ambrogio riprende il titolo (indirizzando l’opera ai suoi “figli” in senso spirituale, cioè il clero e il popolo di Milano), la struttura (il libro è ripartito in tre libri, dedicati all’honestum, all’utile e al loro contrasto risolto nell’identificazione tra i due) e alcuni elementi contenutistici (tra i quali i principi della morale stoica, come il dominio della razionalità, l’indipendenza dai piaceri e dalla vanità delle cose, la virtù come sommo bene). Questi elementi sono rivisti con originalità in chiave cristiana: agli exempla tratti dalla storia e dalla mitologia classica, Ambrogio sostituisce ad esempio storie ed esempi tratti dalla Bibbia. In generale, è lo stesso orientamento del testo a non essere più etico-filosofico ma prevalentemente religioso e spirituale, come egli spiega fin dall’inizio: «Noi valutiamo il dovere secondo un principio diverso da quello dei filosofi. Essi considerano beni quelli di questa vita, noi addirittura danni» (De officiis, I, 9, 29). Allo stesso modo, le virtù tradizionali vengono rilette cristianamente e accettate alla luce del Vangelo: la fides (lealtà) diventa la fede in Cristo, la prudenza include la devozione verso Dio, esempi di fortezza divengono i martiri. Alle virtù classiche si aggiungono le virtù cristiane: la carità (che già esisteva nel mondo latino, ora assume un significato più interiore e spirituale), l’umiltà, l’attenzione verso i poveri, gli schiavi, le donne.
Altre cinque opere sono dedicate alla verginità, specialmente quella femminile (De virginibus, De viduis, De virginitate, De instituzione virginis e Exhortatio virginitatis). Ambrogio esalta la verginità come massimo ideale di vita cristiana, sulla scia della tradizione cristiana da San Paolo («colui che sposa la sua vergine fa bene e chi non la sposa fa meglio», 1 Cor 7,38) fino al contemporaneo Gerolamo, senza tuttavia negare la validità della vita matrimoniale. La scelta della verginità è ritenuta l’unica vera scelta di emancipazione per la donna dalla vita coniugale, in cui si trova subordinata. Critica aspramente in questo senso il fatto che il matrimonio costituisca solo un contratto economico e sociale, che non lascia spazio alla scelta degli sposi e in particolare della donna: «Davvero degna di compianto è la condizione che impone alla donna, per sposarsi, di essere messa all’asta come una sorta di schiavo da vendere, perché la compri chi offre il prezzo più alto» (De virginibus, I, 9, 56). Per questo Ambrogio incoraggia i genitori ad accettare la scelta di verginità dei figli e i figli a resistere alle difficoltà imposte dalla famiglia («Se vinci la famiglia, vinci anche il mondo», De virginibus, I, 11, 63).
Società e politica
Nel confronto con la società e gli ideali del mondo latino, Ambrogio accolse i valori civili della romanità con l’intento di dare ad essi nuovo significato all’interno della religione cristiana. Nel suo Esamerone esalta l’istituzione repubblicana (di cui l’antica repubblica romana era secondo lui un ammirevole esempio) prendendo spunto dalla spontanea organizzazione delle gru, che si dividono il lavoro avvicendandosi nei turni di guardia: « Che c’è di più bello del fatto che la fatica e l’onore comuni a tutti e il potere non sia preteso da pochi, ma passi dall’uno all’altro senza eccezioni come per una libera decisione? Questo è l’esercizio di un ufficio proprio di un’antica repubblica, quale conviene in uno stato libero. »(Esamerone, VIII, 15, 51)
Nella visione di Ambrogio inoltre potere e dell’autorità, intesi come servizio («Libertà è anche il servire», Lettera 7), dovevano essere sottomessi alle leggi di Dio. Prendendo ispirazione dal racconto della corona imperiale e del morso di cavallo realizzati, secondo la tradizione, da Costantino con i chiodi della croce di Gesù, nel discorso funebre di Teodosio egli elogiò la sottomissione dell’imperatore a Cristo, dimostrata in primis dall’episodio di Tessalonica: « Per quale motivo [ebbero] “una cosa santa sul morso” se non perché frenasse l’arroganza degli imperatori, reprimesse la dissolutezza dei tiranni che, come cavalli, nitrivano smaniosi di piaceri, perché potevano impunemente commettere adulteri? Quali turpitudini conosciamo dei Neroni e dei Caligola e di tutti gli altri che non ebbero “una cosa santa sul morso”! »(In morte di Teodosio, 50)
Di fronte al dispotismo e alla dissolutezza che avevano caratterizzato il comportamento di non pochi imperatori romani, Ambrogio vide nel cristianesimo una possibilità per “redimere” il potere imperiale e renderlo giusto e clemente. Nella sua idea, infatti, il cristianesimo avrebbe dovuto sostituire il paganesimo nella società romana senza per questo negare e distruggere le istituzione imperiali («Voi [pagani] chiedete pace per le vostre divinità agli imperatori, noi per gli stessi imperatorio chiediamo pace a Cristo», Lettera 73 a Valentiniano II), ma anzi dando ai valori romani la nuova linfa offerta dalla morale cristiana.
Ambrogio richiamò infine la società romana nella quale era sempre più accentuato il tra ricchi e poveri; alla sperequazione economica, Ambrogio contrapponeva infatti la morale del Vangelo e della tradizione biblica. Così egli scrive nel Naboth: « La terra è stata creata come un bene comune per tutti, per i ricchi e per i poveri: perché, o ricchi, vi arrogate un diritto esclusivo sul suolo? [...] Tu [ricco] non dai del tuo al povero [quando fai la carità], ma gli rendi il suo; infatti la proprietà comune, che è stata data in uso a tutti, tu solo la usi. »(Naboth, 1,2; 12, 53).

Antigiudaismo
Per Ambrogio era fondamentale la storia di Israele come popolo eletto: da qui la grande presenza dell’Antico Testamento nel rito ambrosiano, le numerosissime sue opere di commento agli episodi della storia ebraica, la conservazione della sacralità del sabato, ecc. Tuttavia, come era comune nel cristianesimo dei primi secoli, forte era anche la volontà di mostrare l’originalità cristiana rispetto alla tradizione giudaica (che non aveva riconosciuto Gesù come Messia) e di affermare l’indipendenza e le prerogative della Chiesa nascente.
Ad esempio, nell’Expositio Evangelii secundum Lucam (4, 61), commentando un passo del vangelo di Luca in cui un uomo invaso dallo spirito di un demonio impuro, grida: «Ah! Che c’è fra noi e te, Gesù Nazareno? Sei venuto per rovinarci? So chi tu sei: il Santo di Dio», Ambrogio critica aspramente l’incredulità della gente circostante: « Chi è colui che aveva nella sinagoga spirito immondo di demonio, se non la folla dei giudei che, come stretta da spire serpentine e legata dai lacci del diavolo, simulata la purità del corpo, profanava con le immondezze della mente interiore? Ebbene: era nella sinagoga l’uomo che aveva lo spirito immondo; perché lo Spirito Santo lo aveva ammesso. Era entrato infatti il diavolo dal luogo da cui Cristo era uscito. Insieme, si mostra la natura del diavolo non come ostinata, ma come opera ingiusta. Infatti quello che attraverso una natura superiore professa il Signore, con le opere lo nega. E in questo appare la sua malvagità [del demonio] e l’ostinazione dei giudei, poiché così [il demonio] spandé tra la folla la cecità della mente furiosa; affinché la gente neghi, colui che i demoni professano. O eredità dei discepoli peggiore del maestro! Quello tenta il Signore con le parole, essi con l’agire: egli dice “Buttati!” (Luc. IV, 9), questi sono assaliti perché [lo] buttino. »

L’episodio di Callinicum
Le cronache storiche riportano un episodio che può essere considerato rivelatore dell’atteggiamento di Ambrogio nei riguardi degli ebrei. Nel 388, a Callinicum (Kallinikon, sul fiume Eufrate, in Asia, l’attuale al-Raqqa), una piccola folla di cristiani diede l’assalto alla sinagoga e la bruciò. Il governatore romano condannò l’accaduto e, per mantenere l’ordine pubblico, dispose affinché la sinagoga venisse ricostruita a spese del vescovo. L’imperatore Teodosio I rese noto di condividere quanto deciso dal suo funzionario.
Ambrogio si oppose alla decisione dell’imperatore e gli scrisse una lettera (Epistulae variae 40) per convincerlo a ritirare l’ingiunzione di ricostruire la sinagoga a spese del vescovo: « Il luogo che ospita l’incredulità giudaica sarà ricostruito con le spoglie della Chiesa? Il patrimonio acquistato dai cristiani con la protezione di Cristo sarà trasmesso ai templi degli increduli?… Questa iscrizione porranno i giudei sul frontone della loro sinagoga: – Tempio dell’empietà ricostruito col bottino dei cristiani -… Il popolo giudeo introdurrà questa solennità fra i suoi giorni festivi… »
Citando dalla lettera di Ambrogio a Teodosio (Epistulae variae 40,11): « Ma ti muove la ragione della disciplina. Che cosa dunque è più importante, l’idea di disciplina [mantenimento dell'ordine pubblico] o il motivo della religione? »
Ambrogio non volle salire sull’altare finché l’imperatore non abolì il decreto imperiale riguardante la ricostruzione della sinagoga sulle spese del vescovo. Secondo la visione del vescovo, nella questione della religione l’unico foro competente da consultare doveva essere la Chiesa Cattolica e Apostolica la quale, grazie ad Ambrogio, divenne la religione statale e dominante. In questa impresa lo scopo era quello di avvalorare l’indipendenza della Chiesa dallo Stato, affermando anche la superiorità della Chiesa sullo Stato in quanto emanazione di una legge superiore alla quale tutti devono sottostare.





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