lunedì 12 marzo 2018

12 Marzo Santi italici ed italo greci


 


Santo Gregorio papa e patriarca di Roma detto il Dialogo e ricordato  in Occidente con il titolo di Magno (papa dal 590 al 604)

Martirologio Romano: Memoria di san Gregorio Magno, papa e dottore della Chiesa: dopo avere intrapreso la vita monastica, svolse l’incarico di legato apostolico a Costantinopoli; eletto poi in questo giorno alla Sede Romana, sistemò le questioni terrene e come servo dei servi si prese cura di quelle sacre. Si mostrò vero pastore nel governare la Chiesa, nel soccorrere in ogni modo i bisognosi, nel favorire la vita monastica e nel consolidare e propagare ovunque la fede, scrivendo a tal fine celebri libri di morale e di pastorale. Morì il 12 marzo.
(12 marzo: A Roma presso san Pietro, deposizione di san Gregorio I, papa, detto Magno, la cui memoria si celebra il 3 settembre, giorno della sua ordinazione).

tratto dal quotidiano Avvenire

Nacque verso il 540 dalla famiglia senatoriale degli Anici e alla morte del padre Gordiano, fu eletto, molto giovane, prefetto di Roma. Divenne poi monaco e abate del monastero di Sant'Andrea sul Celio. Eletto Papa, ricevette l'ordinazione episcopale il 3 settembre 590. Nonostante la malferma salute, esplicò una multiforme e intensa attività nel governo della Chiesa, nella sollecitudine caritativa, nell'azione missionaria. Autore e legislatore nel campo della liturgia e del canto sacro, elaborò un Sacramentario che porta il suo nome e costituisce il nucleo fondamentale del Messale Romano. Lasciò scritti di carattere pastorale, morale, omiletico e spirituale, che formarono intere generazioni cristiane specialmente nel Medio Evo. Morì il 12 marzo 604



tratto da
https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2008/documents/hf_ben-xvi_aud_20080528.html




Cari fratelli e sorelle!

mercoledì scorso ho parlato di un Padre della Chiesa poco conosciuto in Occidente, Romano il Melode, oggi vorrei presentare la figura di uno dei più grandi Padri nella storia della Chiesa, uno dei quattro dottori dell’Occidente, il Papa san Gregorio, che fu Vescovo di Roma tra il 590 e il 604, e che meritò dalla tradizione il titolo di Magnus/Grande. Gregorio fu veramente un grande Papa e un grande Dottore della Chiesa! Nacque a Roma, intorno al 540, da una ricca famiglia patrizia della gens Anicia, che si distingueva non solo per la nobiltà del sangue, ma anche per l’attaccamento alla fede cristiana e per i servizi resi alla Sede Apostolica. Da tale famiglia erano usciti due Papi: Felice III (483-492), trisavolo di Gregorio, e Agapito (535-536). La casa in cui Gregorio crebbe sorgeva sul Clivus Scauri, circondata da solenni edifici che testimoniavano la grandezza della Roma antica e la forza spirituale del cristianesimo. Ad ispirargli alti sentimenti cristiani vi erano poi gli esempi dei genitori Gordiano e Silvia, ambedue venerati come santi, e quelli delle due zie paterne, Emiliana e Tarsilia, vissute nella propria casa quali vergini consacrate in un cammino condiviso di preghiera e di ascesi.

Gregorio entrò presto nella carriera amministrativa, che aveva seguito anche il padre, e nel 572 ne raggiunse il culmine, divenendo prefetto della città. Questa mansione, complicata dalla tristezza dei tempi, gli consentì di applicarsi su vasto raggio ad ogni genere di problemi amministrativi, traendone lumi per i futuri compiti. In particolare, gli rimase un profondo senso dell’ordine e della disciplina: divenuto Papa, suggerirà ai Vescovi di prendere a modello nella gestione degli affari ecclesiastici la diligenza e il rispetto delle leggi propri dei funzionari civili. Questa vita tuttavia non lo doveva soddisfare se, non molto dopo, decise di lasciare ogni carica civile, per ritirarsi nella sua casa ed iniziare la vita di monaco, trasformando la casa di famiglia nel monastero di Sant’Andrea al Celio. Di questo periodo di vita monastica, vita di dialogo permanente con il Signore nell’ascolto della sua parola, gli resterà una perenne nostalgia che sempre di nuovo e sempre di più appare nelle sue omelie: in mezzo agli assilli delle preoccupazioni pastorali, lo ricorderà più volte nei suoi scritti come un tempo felice di raccoglimento in Dio, di dedizione alla preghiera, di serena immersione nello studio. Poté così acquisire quella profonda conoscenza della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa di cui si servì poi nelle sue opere. 

Ma il ritiro claustrale di Gregorio non durò a lungo. La preziosa esperienza maturata nell’amministrazione civile in un periodo carico di gravi problemi, i rapporti avuti in questo ufficio con i bizantini, l’universale stima che si era acquistata, indussero Papa Pelagio a nominarlo diacono e ad inviarlo a Costantinopoli quale suo “apocrisario”, oggi si direbbe “Nunzio Apostolico”, per favorire il superamento degli ultimi strascichi della controversia monofisita e soprattutto per ottenere l’appoggio dell’imperatore nello sforzo di contenere la pressione longobarda. La permanenza a Costantinopoli, ove con un gruppo di monaci aveva ripreso la vita monastica, fu importantissima per Gregorio, poiché gli diede modo di acquisire diretta esperienza del mondo bizantino, come pure di accostare il problema dei Longobardi, che avrebbe poi messo a dura prova la sua abilità e la sua energia negli anni del Pontificato. Dopo alcuni anni fu richiamato a Roma dal Papa, che lo nominò suo segretario. Erano anni difficili: le continue piogge, lo straripare dei fiumi, la carestia affliggevano molte zone d’Italia e la stessa Roma. Alla fine scoppiò anche la peste, che fece numerose vittime, tra le quali anche il Papa Pelagio II. Il clero, il popolo e il senato furono unanimi nello scegliere quale suo successore sulla Sede di Pietro proprio lui, Gregorio. Egli cercò di resistere, tentando anche la fuga, ma non ci fu nulla da fare: alla fine dovette cedere. Era l’anno 590.

Riconoscendo in quanto era avvenuto la volontà di Dio, il nuovo Pontefice si mise subito con lena al lavoro. Fin dall’inizio rivelò una visione singolarmente lucida della realtà con cui doveva misurarsi, una straordinaria capacità di lavoro nell’affrontare gli affari tanto ecclesiastici quanto civili, un costante equilibrio nelle decisioni, anche coraggiose, che l’ufficio gli imponeva. Si conserva del suo governo un’ampia documentazione grazie al Registro delle sue lettere (oltre 800), nelle quali si riflette il quotidiano confronto con i complessi interrogativi che affluivano sul suo tavolo. Erano questioni che gli venivano dai Vescovi, dagli Abati, dai clerici, e anche dalle autorità civili di ogni ordine e grado. Tra i problemi che affliggevano in quel tempo l’Italia e Roma ve n’era uno di particolare rilievo in ambito sia civile che ecclesiale: la questione longobarda. Ad essa il Papa dedicò ogni energia possibile in vista di una soluzione veramente pacificatrice. A differenza dell’Imperatore bizantino che partiva dal presupposto che i Longobardi fossero soltanto individui rozzi e predatori da sconfiggere o da sterminare, san Gregorio vedeva questa gente con gli occhi del buon pastore, preoccupato di annunciare loro la parola di salvezza, stabilendo con essi rapporti di fraternità in vista di una futura pace fondata sul rispetto reciproco e sulla serena convivenza tra italiani, imperiali e longobardi. Si preoccupò della conversione dei giovani popoli e del nuovo assetto civile dell’Europa: i Visigoti della Spagna, i Franchi, i Sassoni, gli immigrati in Britannia ed i Longobardi, furono i destinatari privilegiati della sua missione evangelizzatrice. Abbiamo celebrato ieri la memoria liturgica di sant’Agostino di Canterbury, il capo di un gruppo di monaci incaricati da Gregorio di andare in Britannia per evangelizzare l’Inghilterra.

Per ottenere una pace effettiva a Roma e in Italia, il Papa si impegnò a fondo - era un vero pacificatore - , intraprendendo una serrata trattativa col re longobardo Agilulfo. Tale negoziazione portò ad un periodo di tregua che durò per circa tre anni (598 – 601), dopo i quali fu possibile stipulare nel 603 un più stabile armistizio. Questo risultato positivo fu ottenuto anche grazie ai paralleli contatti che, nel frattempo, il Papa intratteneva con la regina Teodolinda, che era una principessa bavarese e, a differenza dei capi degli altri popoli germanici, era cattolica, profondamente cattolica. Si conserva una serie di lettere del Papa Gregorio a questa regina, nelle quali egli rivela dimostrano la sua stima e la sua amicizia per lei. Teodolinda riuscì man mano a guidare il re al cattolicesimo, preparando così la via alla pace. Il Papa si preoccupò anche di inviarle le reliquie per la basilica di S. Giovanni Battista da lei fatta erigere a Monza, né mancò di farle giungere espressioni di augurio e preziosi doni per la medesima cattedrale di Monza in occasione della nascita e del battesimo del figlio Adaloaldo. La vicenda di questa regina costituisce una bella testimonianza circa l’importanza delle donne nella storia della Chiesa. In fondo, gli obiettivi sui quali Gregorio puntò costantemente furono tre: contenere l’espansione dei Longobardi in Italia; sottrarre la regina Teodolinda all’influsso degli scismatici e rafforzarne la fede cattolica; mediare tra Longobardi e Bizantini in vista di un accordo che garantisse la pace nella penisola e in pari tempo consentisse di svolgere un’azione evangelizzatrice tra i Longobardi stessi. Duplice fu quindi il suo costante orientamento nella complessa vicenda: promuovere intese sul piano diplomatico-politico, diffondere l’annuncio della vera fede tra le popolazioni.

Accanto all’azione meramente spirituale e pastorale, Papa Gregorio si rese attivo protagonista anche di una multiforme attività sociale. Con le rendite del cospicuo patrimonio che la Sede romana possedeva in Italia, specialmente in Sicilia, comprò e distribuì grano, soccorse chi era nel bisogno, aiutò sacerdoti, monaci e monache che vivevano nell’indigenza, pagò riscatti di cittadini caduti prigionieri dei Longobardi, comperò armistizi e tregue. Inoltre svolse sia a Roma che in altre parti d’Italia un’attenta opera di riordino amministrativo, impartendo precise istruzioni affinché i beni della Chiesa, utili alla sua sussistenza e alla sua opera evangelizzatrice nel mondo, fossero gestiti con assoluta rettitudine e secondo le regole della giustizia e della misericordia. Esigeva che i coloni fossero protetti dalle prevaricazioni dei concessionari delle terre di proprietà della Chiesa e, in caso di frode, fossero prontamente risarciti, affinché non fosse inquinato con profitti disonesti il volto della Sposa di Cristo.

Questa intensa attività Gregorio la svolse nonostante la malferma salute, che lo costringeva spesso a restare a letto per lunghi giorni. I digiuni praticati durante gli anni della vita monastica gli avevano procurato seri disturbi all’apparato digerente. Inoltre, la sua voce era molto debole così che spesso era costretto ad affidare al diacono la lettura delle sue omelie, affinché i fedeli presenti nelle basiliche romane potessero sentirlo. Faceva comunque il possibile per celebrare nei giorni di festa Missarum sollemnia, cioè la Messa solenne, e allora incontrava personalmente il popolo di Dio, che gli era molto affezionato, perché vedeva in lui il riferimento autorevole a cui attingere sicurezza: non a caso gli venne ben presto attribuito il titolo di consul Dei.  Nonostante le condizioni difficilissime in cui si trovò ad operare, riuscì a conquistarsi, grazie alla santità della vita e alla ricca umanità, la fiducia dei fedeli, conseguendo per il suo tempo e per il futuro risultati veramente grandiosi. Era un uomo immerso in Dio: il desiderio di Dio era sempre vivo nel fondo della sua anima e proprio per questo egli era sempre molto vicino al prossimo, ai bisogni della gente del suo tempo. In un tempo disastroso, anzi disperato, seppe creare pace e dare speranza.




tratto da

https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2008/documents/hf_ben-xvi_aud_20080604.html

Cari fratelli e sorelle,
ritornerò oggi, in questo nostro incontro del mercoledì, alla straordinaria figura di Papa Gregorio Magno, per raccogliere qualche ulteriore luce dal suo ricco insegnamento. Nonostante i molteplici impegni connessi con la sua funzione di Vescovo di Roma, egli ci ha lasciato numerose opere, alle quali la Chiesa nei secoli successivi ha attinto a piene mani. Oltre al cospicuo epistolario – il Registro a cui accennavo nella scorsa catechesi contiene oltre 800 lettere – egli ci ha lasciato innanzitutto scritti di carattere esegetico, tra cui si distinguono il Commento morale a Giobbe - noto sotto il titolo latino di Moralia in Iob -, le Omelie su Ezechiele, le Omelie sui Vangeli. Vi è poi un’importante opera di carattere agiografico, i Dialoghi, scritta da Gregorio per l’edificazione della regina longobarda Teodolinda. L’opera principale e più nota è senza dubbio la Regola pastorale, che il Papa redasse all’inizio del pontificato con finalità chiaramente programmatiche.

Volendo passare in veloce rassegna queste opere, dobbiamo anzitutto notare che, nei suoi scritti, Gregorio non si mostra mai preoccupato di delineare una “sua” dottrina, una sua originalità. Piuttosto, egli intende farsi eco dell’insegnamento tradizionale della Chiesa, vuole semplicemente essere la bocca di Cristo e della sua Chiesa sul cammino che si deve percorrere per giungere a Dio. Esemplari sono a questo proposito i suoi commenti esegetici. Egli fu un appassionato lettore della Bibbia, a cui si accostò con intendimenti non semplicemente speculativi: dalla Sacra Scrittura, egli pensava, il cristiano deve trarre non tanto conoscenze teoriche, quanto piuttosto il nutrimento quotidiano per la sua anima, per la sua vita di uomo in questo mondo. Nelle Omelie su Ezechiele, ad esempio, egli insiste fortemente su questa funzione del testo sacro: avvicinare la Scrittura semplicemente per soddisfare il proprio desiderio di conoscenza significa cedere alla tentazione dell’orgoglio ed esporsi così al rischio di scivolare nell’eresia. L’umiltà intellettuale è la regola primaria per chi cerca di penetrare le realtà soprannaturali partendo dal Libro sacro. L’umiltà, ovviamente, non esclude lo studio serio; ma per far sì che questo risulti spiritualmente proficuo, consentendo di entrare realmente nella  profondità del testo, l’umiltà resta indispensabile. Solo con questo atteggiamento interiore si ascolta realmente e si percepisce finalmente la voce di Dio. D’altra parte, quando si tratta di Parola di Dio, comprendere non è nulla, se la comprensione non conduce all’azione. In queste omelie su Ezechiele si trova anche quella bella espressione secondo cui “il predicatore deve intingere la sua penna nel sangue del suo cuore; potrà così arrivare anche all’orecchio del prossimo”. Leggendo queste sue omelie si vede che realmente Gregorio ha scritto con il sangue del suo cuore e perciò ancora oggi parla  a noi.

Questo discorso Gregorio sviluppa anche nel Commento morale a Giobbe. Seguendo la tradizione patristica, egli esamina il testo sacro nelle tre dimensioni del suo senso: la dimensione letterale, la dimensione allegorica e quella morale, che sono dimensioni dell’unico senso della Sacra Scrittura. Gregorio tuttavia attribuisce una netta prevalenza al senso morale. In questa prospettiva, egli propone il suo pensiero attraverso alcuni binomi significativi - sapere-fare, parlare-vivere, conoscere-agire -, nei quali evoca i due aspetti della vita umana che dovrebbero essere complementari, ma che spesso finiscono per essere antitetici. L’ideale morale, egli commenta, consiste sempre nel realizzare un’armoniosa integrazione tra parola e azione, pensiero e impegno, preghiera e dedizione ai doveri del proprio stato: è questa la strada per realizzare quella sintesi grazie a cui il divino discende nell’uomo e l’uomo si eleva fino alla immedesimazione con Dio. Il grande Papa traccia così per l’autentico credente un completo progetto di vita; per questo il Commento morale a Giobbe costituirà nel corso del medioevo una specie di Summa della morale cristiana.

Di notevole rilievo e bellezza sono pure le Omelie sui Vangeli. La prima di esse fu tenuta nella basilica di San Pietro durante il tempo di Avvento del 590 e dunque pochi mesi dopo l’elezione al Pontificato; l’ultima fu pronunciata nella basilica di San Lorenzo nella seconda domenica dopo Pentecoste del 593. Il Papa predicava al popolo nelle chiese dove si celebravano le “stazioni” - particolari cerimonie di preghiera nei tempi forti dell’anno liturgico - o le feste dei martiri titolari. Il principio ispiratore, che lega insieme i vari interventi, si sintetizza nella parola “praedicator”: non solo il ministro di Dio, ma anche ogni cristiano, ha il compito di farsi “predicatore” di quanto ha sperimentato nel proprio intimo, sull’esempio di Cristo che s’è fatto uomo per portare a tutti l’annuncio della salvezza. L’orizzonte di questo impegno è quello escatologico: l’attesa del compimento in Cristo di tutte le cose è un pensiero costante del grande Pontefice e finisce per diventare motivo ispiratore di ogni suo pensiero e di ogni sua attività. Da qui scaturiscono i suoi incessanti richiami alla vigilanza e all’impegno nelle buone opere.

Il testo forse più organico di Gregorio Magno è la Regola pastorale, scritta nei primi anni di Pontificato. In essa Gregorio si propone di tratteggiare la figura del Vescovo ideale, maestro e guida del suo gregge. A tal fine egli illustra la gravità dell’ufficio di pastore della Chiesa e i doveri che esso comporta: pertanto, quelli che a tale compito non sono stati chiamati non lo ricerchino con superficialità, quelli invece che l’avessero assunto senza la debita riflessione sentano nascere nell’animo una doverosa trepidazione. Riprendendo un tema prediletto, egli afferma che il Vescovo è innanzitutto il “predicatore” per eccellenza; come tale egli deve essere innanzitutto di esempio agli altri, così che il suo comportamento possa costituire un punto di riferimento per tutti. Un’efficace azione pastorale richiede poi che egli conosca i destinatari e adatti i suoi interventi alla situazione di ognuno: Gregorio si sofferma ad illustrare le varie categorie di fedeli con acute e puntuali annotazioni, che possono giustificare la valutazione di chi ha visto in quest’opera anche un trattato di psicologia. Da qui si capisce che egli conosceva realmente il suo gregge e parlava di tutto con la gente del suo tempo e della sua città.

Il grande Pontefice, tuttavia, insiste sul dovere che il Pastore ha di riconoscere ogni giorno la propria miseria, in modo che l’orgoglio non renda vano, dinanzi agli occhi del Giudice supremo, il bene compiuto. Per questo il capitolo finale della Regola è dedicato all’umiltà: “Quando ci si compiace di aver raggiunto molte virtù è bene riflettere sulle proprie insufficienze ed umiliarsi: invece di considerare il bene compiuto, bisogna considerare quello che si è trascurato di compiere”. Tutte queste preziose indicazioni dimostrano l’altissimo concetto che san Gregorio ha della cura delle anime, da lui definita “ars artium”, l’arte delle arti. La Regola ebbe grande fortuna al punto che, cosa piuttosto rara, fu ben presto tradotta in greco e in anglosassone.

Significativa è pure l’altra opera, i Dialoghi, in cui all’amico e diacono Pietro, convinto che i costumi fossero ormai così corrotti da non consentire il sorgere di santi come nei tempi passati, Gregorio dimostra il contrario: la santità è sempre possibile, anche in tempi difficili. Egli lo prova narrando la vita di persone contemporanee o scomparse da poco, che ben potevano essere qualificate sante, anche se non canonizzate. La narrazione è accompagnata da riflessioni teologiche e mistiche che fanno del libro un testo agiografico singolare, capace di affascinare intere generazioni di lettori. La materia è attinta alle tradizioni vive del popolo ed ha lo scopo di edificare e formare, attirando l’attenzione di chi legge su una serie di questioni quali il senso del miracolo, l’interpretazione della Scrittura, l’immortalità dell’anima, l’esistenza dell’inferno, la rappresentazione dell’aldilà, temi tutti che abbisognavano di opportuni chiarimenti. Il libro II è interamente dedicato alla figura di Benedetto da Norcia ed è l’unica testimonianza antica sulla vita del santo monaco, la cui bellezza spirituale appare nel testo in tutta evidenza.

Nel disegno teologico che Gregorio sviluppa attraverso le sue opere, passato, presente e futuro vengono relativizzati. Ciò che per lui conta più di tutto è l’arco intero della storia salvifica, che continua a dipanarsi tra gli oscuri meandri del tempo. In questa prospettiva è significativo che egli inserisca l’annunzio della conversione degli Angli nel bel mezzo del Commento morale a Giobbe: ai suoi occhi l’evento costituiva un avanzamento del Regno di Dio di cui tratta la Scrittura; poteva quindi a buona ragione essere menzionato nel commento ad un libro sacro. Secondo lui le guide delle comunità cristiane devono impegnarsi a rileggere gli eventi alla luce della Parola di Dio: in questo senso il grande Pontefice sente il dovere di orientare pastori e fedeli nell’itinerario spirituale di una lectio divina  illuminata e concreta, collocata nel contesto della propria vita.

Prima di concludere è doveroso spendere una parola sulle relazioni che Papa Gregorio coltivò con i Patriarchi di Antiochia, di Alessandria e della stessa Costantinopoli. Si preoccupò sempre di riconoscerne e rispettarne i diritti, guardandosi da ogni interferenza che ne limitasse la legittima autonomia. Se tuttavia san Gregorio, nel contesto della sua situazione storica, si oppose al titolo di “ecumenico” assunto da parte del Patriarca di Costantinopoli, non lo fece per limitare o negare la sua legittima autorità, ma perché egli era preoccupato dell’unità fraterna della Chiesa universale. Lo fece soprattutto per la sua profonda convinzione che l’umiltà dovrebbe essere la virtù fondamentale di ogni Vescovo, ancora più di un Patriarca. Gregorio era rimasto semplice monaco nel suo cuore e perciò era decisamente contrario ai grandi titoli. Egli voleva essere - come soleva sottoscriversi - servus servorum Dei. Questa espressione a lui cara non era nella sua bocca una pia formula, ma la vera manifestazione del suo modo di vivere e di agire. Egli era intimamente colpito dall’umiltà di Dio, che in Cristo si è fatto nostro servo, ci ha lavato e ci lava i piedi sporchi. Pertanto egli era convinto che soprattutto un Vescovo dovrebbe imitare questa umiltà di Dio e così seguire Cristo. Il suo desiderio veramente era di vivere da monaco in permanente colloquio con la Parola di Dio, ma per amore di Dio seppe farsi servitore di tutti in un tempo pieno di tribolazioni e di sofferenze; seppe farsi “servo dei servi”. Proprio perché fu questo, egli è grande e mostra anche a noi la misura della vera grandezza.

consultare anche il link
http://www.treccani.it/enciclopedia/gregorio-i-papa-detto-magno-santo/






LA VITA DI SAN BENEDETT0 Testo integrale
tratto dal Libro II° dei "Dialoghi" di San Gregorio Magno
 Traduzione del testo latino in Patrologia Latina, LXVI, 125 ss. a cura dei PP. Benedettini di Subiaco.Pubblicato nella collana "Spiritualità nei secoli" di Città Nuova Editrice - 2000.
Sta in
http://www.ora-et-labora.net/dialoghitxt.html












Santo Pietro diacono e discepolo del papa Gregorio il Dialogo(verso il 605)
Martirologio Romano: A Roma, beato Pietro Levita, che, monaco sul Celio, per mandato del papa san Gregorio Magno, amministrò con saggezza il patrimonio della Chiesa di Roma e, ordinato diacono, servì con fedeltà il pontefice.

tratto da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/44800

Pietro nacque nella metà del secolo VI. Secondo una radicata tradizione ed in base ai codici liturgici medievali conservati nell’Archivio Capitolare di Vercelli, apparteneva alla famiglia Bulgaro, feudatari di Vittimulo, dal cui castello ebbe origine l’attuale paese di Salussola (diocesi di Biella). Quand’era ancora giovane sarebbe andato a Roma per perfezionare gli studi (in realtà però Roma potrebbe essere stata la sua città natale).
La potenza dell’Impero Romano era un lontano ricordo, da due secoli erano cessate le persecuzioni contro i cristiani ma erano numerosi i movimenti eretici e imperversavano le scorribande dei barbari. Mentre era studente di lettere e filosofia Pietro conobbe il futuro S. Gregorio Magno, monaco secondo la Regola Benedettina, più grande d’età di qualche anno. Nacque una profonda amicizia e anche Pietro si fece religioso. Venne nominato cardinale nel 577 da Benedetto I, il termine però non aveva il significato attuale: era cardinale infatti il religioso "incardinato" in una chiesa principale per lo svolgimento di importanti servizi.
Gregorio fu eletto papa il 3 settembre 590 e tra le sue prime decisioni ci fu quella di inviare Pietro, divenuto suddiacono, in Sicilia come suo Vicario. Nell’isola Gregorio aveva fondato diversi monasteri e il patrimonio della Chiesa era considerevole. La prima lettera del nutrito epistolario del sommo pontefice, che oggi possediamo, fu indirizzata a tutti i vescovi siciliani per presentare il suo Vicario, ne seguirono altre di cui molte indirizzate direttamente a Pietro. Quando parla di lui le espressioni sono molto lusinghiere, apprendiamo anche che il suo fisico era mingherlino. Nelle lettere, a volte ironiche, si discuteva di problemi pratici: confini di terreni, donazioni, usura, tangenti, assistenza ai poveri, vigilanza sui costumi del clero, costruzione di chiese e affidamento di cariche ecclesiastiche. Non mancavano rimproveri oppure ordini da eseguire con sollecitudine; dalla Sicilia lo Stato della Chiesa si riforniva di grano, la cui mancanza poteva causare tumulti e sommosse. Pietro stette nell'isola dal 590 al 592, con residenza principale probabilmente a Siracusa. Ricoprì lo stesso incarico in Campania per un anno, poi si stabilì definitivamente nella capitale e venne nominato Diacono.
Nel Proemio dei Dialoghi di S. Gregorio apprendiamo che, un giorno, questi si ritirò in un luogo solitario, probabilmente il Monastero di S. Andrea al Celio. Rammaricato e stanco dei gravosi impegni di Pastore della Chiesa, ricevette il conforto dell’amico Pietro definito “dilettissimo figlio e carissimo compagno in santo studio”, “singolare amico fin dalla sua prima gioventù”. Grande doveva essere la saggezza di Pietro per accogliere le confidenze del pontefice. Divenne suo segretario, collaborando alla stesura delle opere per le quali Gregorio sarà chiamato Magno. Dagli antichi biografi di Gregorio (il diacono Paolo che scrisse nel secolo VIII e il diacono Giovanni che scrisse invece nel secolo successivo) apprendiamo un episodio molto importante della vita del nostro Beato. Quando Gregorio dettava e Pietro scriveva erano separati da una tenda. Un giorno Pietro, stupito dalla velocità con cui il papa esponeva i dogmi della dottrina cristiana, guardò oltre la tenda e scoprì che era lo Spirito Santo, sotto forma di colomba, che suggeriva all’orecchio del pontefice le verità della fede. Pietro promise che avrebbe mantenuto il segreto a costo della vita.
Il papa morì il 12 marzo 604 confidando, poco prima, al fedele segretario che avrebbero cercato di distruggere le sue opere. Pietro lo rassicurò che in tutti i modi l'avrebbe impedito. Il pericolo diventò concreto un anno dopo, durante una sommossa popolare causata dalla carestia. Si era diffusa la notizia che Gregorio aveva impoverito la Chiesa per la sua eccessiva prodigalità verso i poveri. Pietro difese gli scritti dal rogo rivelando come fossero stati ispirati divinamente: era pronto a giurare sulla Sacra Scrittura, dal pulpito della Basilica Vaticana. Se fosse morto all’istante quella era la verità. In una basilica gremita Pietro mantenne la promessa stramazzando al suolo come colpito da un fulmine, era il 30 aprile 605. Il glorioso gesto di Pietro salvò un patrimonio che è oggi di tutta la cristianità.
Venne sepolto presso il campanile della Basilica, poco distante dal suo grande maestro; acclamato santo la memoria fu stabilita nel Martirologio al 12 marzo. Il culto si diffuse anche in terra vercellese, insieme al desiderio di possedere le sue reliquie. Tale desiderio divenne così forte che, due secoli dopo, i suoi resti furono sottratti e misteriosamente condotti nel castello di Salussola. Nonostante la venerazione se ne perse però ogni traccia un secolo dopo, quando il castello cadde in rovina. Nel 960 una pia donna del luogo, discendente dei Bulgaro, ebbe una visione e l’impulso di cercare le dimenticate spoglie. L’urna fu ritrovata dopo diversi giorni di lavoro, il Vescovo Ingone dei marchesi d’Ivrea riconobbe le reliquie come autentiche. Si costruì una chiesa per dare loro una degna collocazione e sorse un cenobio benedettino. Intorno all’anno Mille la festa era celebrata in tutta la diocesi, fino al 1575 col Rito Eusebiano.
A Roma il furto delle reliquie fu scoperto da Clemente VIII solo agli inizi del ‘600. Sistemando le reliquie di S. Gregorio Magno nel nuovo altare in S. Pietro a lui dedicato, si voleva ricongiungerle con quelle del fidato segretario. Si indirizzò una lettera al vescovo di Vercelli, Monsignor Ferreri, in data 15 marzo 1600, affinché si facesse chiarezza sulla sottrazione. Il presule piemontese confermò che le reliquie erano venerate a Salussola e convinse il papa a desistere dal suo proposito di riaverle a Roma. Il culto era ormai esteso ai paesi vicini che invocavano Pietro soprattutto durante le pestilenze.
Nel 1782 l’Ordine dei Girolamini, che erano subentrati ai Benedettini nella custodia del monastero del B. Pietro, fu soppresso e la chiesa venne sconsacrata. Il Vescovo di Biella fece una ricognizione delle ossa che furono trasportate definitivamente nella Parrocchia. Iniziato subito il processo per la conferma del culto “ab immemorabili”, vi lavorò poi anche don Davide Riccardi che diverrà Cardinale Arcivescovo di Torino. L’approvazione di Pio IX arrivò il 3 maggio 1866 mentre si diffondeva l’errata iconografia del Beato in abiti cardinalizi.
Nel 1945 si costruì un oratorio, vicino al luogo in cui sorgeva l’antico monastero, per sciogliere un voto fatto dai cittadini di Salussola durante la Prima Guerra Mondiale. La festa patronale si celebra con solennità e grande devozione la prima domenica di maggio, ogni anno giunge da Olcenengo un pellegrinaggio per un voto fatto dalla comunità nel lontano 1484. Per tradizione ultramillenaria a Salussola viene indicato anche il luogo in cui sorgeva la sua casa natale.


Santo Nicodemo discepolo di San Fantino eremita a Mammola in  Calabria(verso il 990)

tratto da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/90976


Teofane e Pandia furono i genitori di Nicodemo, che nacque a Cirò (Catanzaro) nei primi anni del X secolo, lo affidarono alla cura spirituale di un pio e dotto sacerdote, Galatone, contemporaneamente il ragazzo progredì nelle scienze sacre e nella pietà.
Da giovane poté vedere il comportamento licenzioso di alcuni suoi contemporanei, che lo disgustarono, cosicché sentì maggiormente l’attrazione per la vita monastica, che veniva professata nel secolo X, da quegli asceti con fama di santità, nella zona del Mercurion, sulle balze del Pollino in Calabria.
Lasciata Cirò, andò a chiedere l’abito monastico all’austero abate s. Fantino, ma gli fu rifiutata più volte questa richiesta, perché non veniva ritenuto adatto a quella vita di studi, penitenze e mortificazioni, vista la sua gracile costituzione fisica.
Deluso ma non convinto, insisté tramite i buoni auspici di altri monaci, finché s. Fantino commosso dalle sue insistenze, gli concesse l’’abito angelico’, così chiamato tra i monaci greci di quel tempo.
Nicodemo divenne insieme a s. Nilo di Rossano, esempio splendente di vita ascetica del Mercurion, cresciuti e formati tutti e due alla rigida scuola dell’abate s. Fantino; essi accomunati ad altri santi monaci calabro-siculi resero famosa in tutta la Cristianità la loro Comunità, al punto che Oreste, patriarca di Gerusalemme la descrisse elogiandola, nei suoi autorevoli scritti e biografie.
Il tipo di vita praticato è impensabile ai nostri giorni, ma costituiva il perno dell’ascesi, insieme alla purezza, dei monaci calabro-siculi di quell’epoca; vestiva con una pelle di capra, andava a piedi nudi in ogni stagione, dormiva su paglia in una grotta, mangiava castagne e lupini.
In età abbastanza matura, decise di lasciare il Mercurion e si ritirò in un eremo del Monte Cellerano nella Locride, ma la fama di santità che lo seguiva, attirò molti monaci che gli si affidarono e quindi Nicodemo si vide costretto a fondare una laura, cioè una colonia di anacoreti, vivendo divisi, ognuno in una capanna e riunitasi una volta la settimana, più tardi il termine designerà un grande convento.
La sua laura fu visitata anche da s. Fantino e altri monaci del Mercurion; purtroppo però era troppo esposta alla curiosità dei fedeli e soprattutto alle scorrerie dei Saraceni, per cui prevedendone la distruzione, disperse i monaci in altri monasteri e lui si ritirò presso Gerace in un cenobio, accentuando l’austerità della sua vita.
Ma anche qui non restò a lungo e dopo alcuni anni si ritirò in un luogo solitario vicino a Mammola, che presto anch’esso si trasformò in un famoso monastero di monaci greci.
Nonostante i settanta anni passati nell’asprezza della vita ascetica, Nicodemo visse circa 90 anni, tantissimi per quei tempi e a dispetto della sua gracile costituzione fisica; morì nel monastero di Mammola, che prese poi il suo nome, il 25 marzo 990.
I miracoli fiorirono sulla sua tomba e quindi venne proclamato santo, allora non c’erano tutte le procedure che occorrono oggi. Nel 1080 i Normanni trasformarono il piccolo oratorio con la sua tomba, in una grande chiesa, restaurando anche il monastero e concedendo privilegi e beni.
Le reliquie furono poi traslate nella chiesa di Mammola nel 1580 che lo proclamò suo patrono nel 1630, fissando la festa liturgica al 12 marzo. I pontefici nei secoli successivi concessero particolari indulgenze nell’occasione della sua festa e altre celebrazioni.
Il Comune di Mammola nel 1884 fece decorare artisticamente la cappella, una ricognizione delle reliquie è stata effettuata il 12 maggio 1922 nella coincidenza dell’inaugurazione della ricostruita e abbellita chiesa.




tratto da
http://www.piccoloeremodellequerce.it/La_Diocesi_di_Locri_Gerace_e_la_sua_pastorale/06_Santi_Nicodemo_Mammola_monaco_basiliano.html

L’agiografo Nilo. Conosciamo il nome dell'agiografo, Nilo. Egli imposta la sua operetta, utile per l'edificazione dell'uditorio e dei lettori, in una dimensione raccolta, intessuta di imprese interiori, che tuttavia non riuscirono ad impedire la diffusione della notorietà del santo. Una simile impostazione, ma più accentuata, è scelta anche dall'agiografo di san Filareto, che visse nella stessa età di san Nicodemo e nei luoghi in cui questi era nato; anche questo agiografo si chiama Nilo, e potrebbe trattarsi dello stesso autore!

Nicodemo nacque verso la metà del secolo X a Sicrò, una cittadina delle Saline (oggi Piana di Gioia Tauro), cioè di quel territorio monastico che era stato reso celebre dalle fondazioni di sant'Elia il Giovane e di sant'Elia lo Speleota; la sua vita terrena, dice l’agiografo, durò circa settant'anni. I suoi genitori, come di consueto, erano molto pii e lo educarono alla vita di fede; ma il giovinetto non si accontentò della buona educazione morale e intellettuale per cui primeggiava fra i coetanei, e scelse la via della perfezione, fra i monti e le spelonche. Sia la notorietà delle virtù umane, sia la precoce scelta monastica sono elementi alquanto consueti nelle biografie dei nostri santi asceti: essi, nell'operetta di Nilo, sembrano il preludio di quella via verso l'interiorizzazione alla quale ho accennato.

L'occasione per un deciso e definitivo distacco dai luoghi di grande frequentazione umana, come erano e sono tuttora le Saline, venne offerta da un'incursione dei Saraceni. Altre due volte si parla nella vita di san Nicodemo di questo popolo multiforme e aggressivo, per sottolineare le virtù taumaturgiche del santo. Nicodemo, dunque, si trovava nel celebre monastero di san Fantino di Taureana, affidato alle cure spirituali di un anziano monaco, quando pervenne un'irruzione saracena, che il giovane interpretò come invito a ricercare la pace fisica e interiore nelle solitudini montane. Risalì il versante della montagna fino allo spartiacque e lì, presso il passo della Limina, ancora oggi ben noto, nella località di Kellerana, di non facile identificazione, si fermò definitivamente.
Ascesi montana. Quando, con la sua ascesi e la preghiera, ebbe purificato il deserto montano dagli spiriti maligni, intitolò la sua dimora eremitica in onore dell'arcangelo san Michele, anche se poi, come succede frequentemente, quel luogo sacro prese il nome del suo fondatore. L'agiografo racconta un episodio significativo delle scelte del santo: i discepoli, che a poco a poco erano accorsi a condividere l'austera solitudine di Nicodemo, un giorno gli chiesero di spostare la dimora più in basso, in una località più frequentata. Nicodemo non disse di no e propose loro di scendere a provare come si vive accanto alla gente. Egli scelse appositamente un giorno di grande affluenza, quello della Dormizione della Vergine, il 15 agosto; ed un luogo particolarmente affollato, il tempio di santa Maria di Vukiti, che si ritiene sorgesse presso l'attuale Martone, a monte di Gioiosa Jonica, nel versante contrapposto a quello delle Saline. I monaci rimasero così sgomenti per il popoloso chiasso, che, buttatisi ai piedi del santo, gli chiesero il perdono ed il tempestivo ritorno sui monti.

Nicodemo trascorreva il giorno fra il canto liturgico ed il lavoro con la zappa. Confezionava anche il pane che, come gli ortaggi, destinava ai suoi discepoli, dal momento che il suo unico alimento era un decotto di castagne che beveva la sera. Se gli portavano del pesce dalla marina, egli accettava il dono dei pescatori, ma lasciava che quel cibo si disseccasse al sole, così che perdesse l'attrattiva del gusto. Quando riteneva opportuno di rendere ancora più severa la sua ascesi, egli si chiamava per nome e si ammoniva, come se fosse un altro uomo: in tal modo si estraniava da se stesso per amore di Dio. Parlava anche con le bestie, come quando invitò una cerbiatta a non devastare l'orto dei monaci, prevedendo per essa una brutta fine, nella quale si imbatté la bestiola disubbidiente; o quando rimproverò e mandò via in pace uno scorpione che gli si era attaccato al braccio senza fargli male. Ma soprattutto parlava con la gente, per confortarla e consolarla. Raccoglieva offerte per il riscatto dei prigionieri e le donava ai loro parenti. Anche i suoi miracoli erano densi di semplice carità: guariva gli infermi e liberava gli ossessi. Talvolta, per ottenere questo, pregava a lungo, anche tutta la notte, e sempre, come era sua consuetudine, con molte lacrime; altre volte, invece, bastava che mostrasse e facesse vibrare il suo bastone, il quale era divenuto il terrore dei diavoli.

Il signorotto. Lasciava raramente il monastero. Una volta lo lasciò volentieri, anche se era il giorno del Grande Sabato, per una missione rischiosa e difficile: rendere giustizia ad un poveretto contro la prepotenza di un arconte, cioè di un benestante riverito e influente. L'episodio è simile a quello manzoniano di Padre Cristoforo nella casa di don Rodrigo. L'arconte, che si era invaghito della moglie di quel poveretto, l'aveva di forza sottratta al marito e se l'era portata in casa. Nicodemo, informato e supplicato dal marito, accorse presso il nobile prepotente chiedendogli l'immediata liberazione della donna; ricevette, invece, una risposta sprezzante: «Se non mi trattenesse quel poco di rispetto che ho per te, oggi ti beccheresti una scarica di improperi. Tornatene alla tua cella». Ma più terribile, e naturalmente efficace, fu la conclusione del santo: «Non aggiungo nemmeno una parola. Se il Signore mi considera fra i suoi cari, ti tratterà come vorrà lui» (cap. 16). Il giorno dopo, al mattino della Domenica di Pasqua, l'arconte morì improvvisamente appena sceso dal letto. Un'altra volta era stato portato via da una banda di Saraceni, che, fra l'altro, si divertivano a deriderlo per la sua costante preghiera; ma poco appresso quei violenti si misero a combattere furiosamente fra di loro lasciando che il santo tornasse liberamente al monastero. E a nove cittadini di Bisignano, che erano stati rapiti dai Saraceni e trascinati fra i monti alla volta della Sicilia, bastò l'invocazione del suo nome per liberarsi dalle catene: era dunque ben nota ed efficace la fama di quel santo nascosto e silenzioso.

Una volta era sceso nelle Saline per pregare presso la tomba di sant'Elia lo Speleota e tutti i monaci, riconosciutolo, accorsero per riverirlo; in quella occasione il prete Leonas venne guarito da gravi tormenti diabolici al semplice tocco della mano di Nicodemo. La sua venerazione verso Elia il Giovane ed Elia lo Speleota si esprimeva anche con cortesie taumaturgiche, come quando egli invitò inutilmente i genitori di una giovinetta tormentata dal diavolo a supplicare quei due grandi santi, venerando le loro reliquie per ottenerne la guarigione della ragazza. Lo stesso aveva fatto per un giovanotto ossesso, ai cui genitori Nicodemo, prima di scacciare il diavolo, aveva detto: «Portatelo alla Spelonca, da Elia» (cap. 13); una cortesia simile usò Elia il Giovane per san Filareto.

La memoria liturgica di san Nicodemo ricorre il 12 marzo.

La sua venerazione si è tramandata ininterrotta fino ad oggi, specialmente a Mammola, che è il centro urbano più vicino ai luoghi dove Nicodemo aveva impiantato il suo monastero e dove poi venne trasferita la fondazione monastica: infatti Atanasio Calceopulo, che visitò il monastero di san Nicodemo il 7 novembre 1457, dice che esso era ubicato a meno di un miglio dalle case di Mammola. Nicodemo è assai venerato anche a Cirò, che per un pio errore fu ritenuta a lungo la patria del santo. La sua vita venne anche narrata nel secolo XVII da Apollinare Agresta, che era nativo di Mammola e nell'anno 1675 venne designato Abate Generale dell'Ordine Basiliano. La vita del suo monastero produsse atti, di cui un piccolo nucleo fra gli anni 1011 e 1232 è giunto fino a noi ed è stato pubblicato da André Guillou. In essi è menzionato anche un monastero in onore di san Fantino, detto di Pretoriate (probabilmente località e/o torrente nel territorio di Gioiosa Jonica) e che richiama nel titolo il luogo sacro della formazione monastica di Nicodemo. Anche se non è definita l'identificazione della località Kellerana, oggi si ritiene che essa coincida con il luogo dove furono rinvenute le absidi antiche di un edifìcio di culto che è stato recentemente riedificato e che nell'opinione generale corrisponde al monastero di san Nicodemo, così come una vicina grotticella è comunemente venerata come la grotta del santo. In questo luogo sacro presso il passo della Limina risiede da alcuni anni un eremita certosino, padre Ernesto, che si è insediato il 17 settembre 1995 ed ha professato solennemente la sua scelta eremitica, alla presenza del vescovo di Locri-Gerace mons. Giancarlo Bregantini, l'11 luglio dell'anno 2000.

(D. MINUTO, Profili di santi nella Calabria bizantina, Reggio Calabria 2002, pp.69-72)

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