mercoledì 7 marzo 2018

7 Marzo Santi Italici ed Italo greci



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Santo Equizio abate nel territorio della provincia romana della Valeria(verso il VI secolo )

Martirologio Romano: Nel territorio dell’odierna Umbria, sant’Equizio, abate, che, come scrive il papa san Gregorio Magno, per la sua santità fu padre di molti monasteri e, ovunque giungesse, schiudeva la fonte delle Sacre Scritture.

Tratto da http://www.santiebeati.it/dettaglio/91219
Sant'Equizio nacque nel 480-490 nella provincia Valeria (L'Aquila-Rieti-Tivoli). Non si hanno grandi notizie della sua vita. L'unico che ne parla è S. Gregorio Magno nei suoi dialoghi (I,4 in PL, LXXVII, coll. 165-77). Fu monaco e con S. Benedetto da Norcia può ritenersi il padre e il diffusore del monachesimo in Italia e in Occidente. S. Equizio non ricevtte mai gli ordini sacri. S. Gregorio afferma che S. Equizio per la sua santità popolò l'intera provincia Valeria di monaci. Sono riferiti a lui fatti starordinari come la liberazione da tentazioni per opera di un angelo e lo smascheramento profetico di un certo Basilio mago.
Il santo morì nel suo monastero di S. Lorenzo di Pizzoli. Dopo la sua morte il suo ordine venne assorbito da quello benedettino con cui aveva tanta affinità.

Tratto da http://www.ilcapoluogo.it/2013/03/09/equizio-il-santo-aquilano-dimenticato/
Si avvicina la festa del ‘pio transito’ di Sant’Equizio Abate, secondo patrono della chiesa dell’Aquila. Equizio operò nel VI secolo, fondando numerosi monasteri nell’aquilano. A raccontare le opere e i miracoli del santo è Gregorio Magno nei suoi [i]Dialogi[/i]. Il ricordo della sua morte viene per tradizione celebrato il 7 marzo, mentre l’11 agosto si festeggia la traslazione delle sue reliquie nella città dell’Aquila, avvenuta nel 1461.
Il culto del santo è andato affievolendosi nel corso dei secoli. Dimenticato da gran parte degli aquilani, fino al terremoto Equizio vegliava sulla città e sulla diocesi dal mausoleo della chiesa dei Gesuiti. Dopo il terremoto le sue spoglie hanno trovato una nuova definitiva collocazione nella chiesa abbaziale di San Lorenzo a Marruci di Pizzoli. Questa fu infatti la sua abbazia, il luogo in cui visse, morì ed operò. Nel 2011 è stata eretta in suo onore nella chiesa abbaziale l’”Arca di Sant’Equizio”, il nuovo prezioso altare in legno che contiene i suoi resti mortali.
Tratto da http://agenziastampaitalia.it/cultura/cultura-2/9918-santequizio-amiternino-compatrono-dellaquila-

Il monaco S. Equizio amiternino vissuto fra il 480 e il 550 nell’odierno comune di Pizzoli, nel borgo di S. Lorenzo di Marruci, presso L’Aquila, fu padre fondatore e coordinatore di numerosi monasteri nell’area della Sabina e della Valle dell’Aterno, avendo rivestito l’importante ruolo di precursore e ispiratore del movimento monastico italico, la cui regola fondata su alcuni punti basilari - come la preghiera, la lettura della Scrittura, la mortificazione, il lavoro manuale e intellettuale, l’evangelizzazione - sarà in gran parte ripresa e canonizzata da S. Benedetto da Norcia. Circa il lavoro, come ha ben osservato il Marinangeli1, è peculiare in Equizio la componente della fatica comunitaria dei monaci in mezzo ai contadini, senza possedere, come sarà per i Benedettini, un proprio fondo autonomo legato al monastero. E questo era un modo nuovo di evangelizzare, condividendo le sorti dei villici che, ancora nel VI secolo, erano legati alla terra e tenuti in stato di schiavitù.
 Notevole era il lavoro intellettuale, come si deduce dalla presenza di uno scriptorium con relativi copisti, nel monastero pizzolano di S. Lorenzo, in cui viveva Equizio. La sua evangelizzazione, già efficace per la condivisione nel lavoro dei campi, era messa in opera con il sussidio delle Sacre Scritture che portava sempre con sé, mediante una specifica predicazione, secondo un mandato ricevuto dal cielo, una circostanza questa che gli procurò la singolare persecuzione dagli organi ufficiale della Chiesa, forse negli anni 535-536, sotto il pontificato di Agapito I 2. Riferisce al riguardo S. Gregorio Magno3 nei suoi Dialoghi:
«La sua ardentissima passione era quella di ricondurre le anime a Dio, tanto che, mentre portava le responsabilità di più monasteri, indefessamente si recava da una chiesa all’altra, da una borgata all’altra, da un villaggio all’altro, persino nelle case dei fedeli, ovunque insomma , per infiammare il cuore di chi lo ascoltava all’amore della patria celeste (…) La predicazione di Equizio fece notizia anche a Roma. Si sa che la lingua degli adulatori uccide, blandendola, l’anima di coloro ai quali fa piacere ascoltarli. Ebbene, in quel tempo alcuni ecclesiastici fecero le loro rimostranze, con chiare adulazioni, al vescovo di questa sede apostolica, dicendogli: “Chi è questo zoticone, che si è arrogato il diritto di predicare e presume, ignorante com’è, di usurpare il ministero della parola proprio del nostro Pastore? Si mandi, dunque, se crede, qualcuno che lo conduca qui, così che conosca la forza e il rigore dell’autorità ecclesiastica” ».
 Il papa acconsentì alla richiesta dei delatori e incaricò un certo Giuliano, in seguito vescovo della Sabina, di andare da Equizio per condurlo, con il dovuto riguardo, a Roma. Pervenuto in fretta al monastero di S. Lorenzo, lo zelante messo papale non trovò in casa il sant’uomo. Chiese a dei monaci copisti al lavoro dove fosse l’abate. Gli risposero: «In questa valle, che si adagia ai piedi del monastero; sta falciando il fieno». Giuliano mandò un servo a cercarlo. Questi, sceso giù per i prati e, avvistato un gruppo di falciatori li apostrofò con malcelata arroganza chiedendo gli si indicasse chi fosse Equizio. Non appena ebbe modo di avvicinarlo, il servo perse tutta la sua baldanza e andò tutto tremante a prostrarsi ai suoi piedi e «con molta umiltà gli strinse tra le braccia le ginocchia baciandole», riferendogli il motivo della sua venuta. Senza scomporsi, Equizio, per tutta risposta, considerando la fatica, per il lungo viaggio, dei cavalli degli ospiti, si premura di ordinare al servo di prendere per loro del fieno verde appena falciato. «Quanto a me - soggiunse l’abate - giacché mi rimane poco da fare, termino il lavoro e ti seguo».
Si noti come in questa sapiente quanto sottile ironica descrizione gregoriana, vi sia magistralmente rappresentato l’incontro fra due culture, quella umile concreta sana paziente, non schiava del tempo, del mondo della campagna e quella di un ambiente cittadino agitato frenetico, oltre che vanamente e inutilmente legalistico. La concitazione della delegazione papale che cozza contro la calma olimpica dell’abate, la si legge meglio nel testo originale latino: nel “festine cucurrit” di Giuliano al monastero, nell’ordine al servo di condurgli Equizio subito “sub celeritate”, e infine nel servo che entra “velociter” nel prato dei falciatori. Nel prosieguo del racconto si può notare inoltre la perdita di pazienza di Giuliano, con un attacco d’ira che lo fa gridare per il ritardo del servo, perché se lo vede tornare carico di un sacco di fieno.
«Nel frattempo l’incaricato di quella missione, il difensore Giuliano, si chiedeva con grande stupore perché mai il suo servo tardasse tanto a tornare. Ad un tratto lo scorse: veniva portando sul collo il fieno preso nel prato. Andò su tutte le furie ed incominciò a gridare: “Che è questo? Ti ho ordinato di condurre qui un uomo, non di portarmi del fieno!”. Il servo gli rispose: “Colui che cerchi , ecco che mi viene appresso”. Infatti l’uomo di Dio lo seguiva con le sue calzature chiodate (scarponi da montagna) e la falce sulle spalle (…) Giuliano, non appena vide Equizio, lo disprezzò per quel suo aspetto tanto dimesso e, altezzoso, si preparava ad apostrofarlo. Ma non appena il servo di Dio gli fu vicino, Giuliano fu preso da un invincibile spavento, tanto da tremare, e a mala pena, farfugliando, riuscì a lasciargli intendere il perché della sua venuta. Fattosi umile, corse a gettarsi alle sue ginocchia, gli chiese di pregare per lui e gli riferì che suo Padre, il Pontefice Romano, lo voleva incontrare».
 L’incontro non ebbe luogo perché il Papa, avvisato da una visione soprannaturale, che lo convinse della presunzione avuta nel mandare a prendere quell’uomo di Dio, mandò un messaggero a Giuliano con il contrordine di non toccare il servo di Dio e di guardarsi bene dall’allontanarlo dal monastero. Equizio rimase nel suo monastero di S. Lorenzo di Marruci anche dopo la sua morte, avvenuta intorno al 550, ma dall’epoca dell’invasione longobarda del 571-572 nel nostro territorio, si perdono le tracce della sua sepoltura. Soltanto 800 anni più tardi, in occasione di un disastroso terremoto nell’Aquilano, fu possibile rinvenirne il sepolcro con le sacre spoglie.




Da consultare anche
Nicola Cariello IL TAUMATURGO EQUIZIO
(Estratto dalla rivista “Aequa” anno XVII numero 60 pagine 14-20  sta in https://www.academia.edu/12888600/IL_TAUMATURGO_EQUIZIO



Il monaco Equizio: alle origini del monachesimo nella Provincia Valeria
Alberto Foresi

“La tredicesima provincia, cioè la Valeria, cui è annessa la Nursia, si trova tra l’Umbria, la Campania e il Piceno. A Oriente raggiunge la regione dei Sanniti. La sua parte occidentale, che comincia dalla città di Roma, fu detta un tempo Etruria dal popolo degli Etruschi. Contiene le città di Tivoli, Carsoli, Furconia e Amiterno e la regione dei Marsi, con il lago detto Fucino. Ritengo che anche la regione dei Marsi sia da considerare come parte della provincia Valeria, perché non è stata mai descritta dagli antichi nel catalogo delle province.[1]

Questa la dettagliata – sebbene imprecisa nel riferimento all’Etruria – descrizione della provincia Valeria data, sul finire dell’VIII secolo, dallo storico longobardo Paolo Diacono allorché, agli inizi del II libro della sua Storia dei Longobardi, redige una sorta di catalogo dell’Italia imperiale e delle province in cui era divisa.
La descrizione della provincia Valeria data da Paolo Diacono richiama quanto aveva precedentemente affermato il geografo greco Strabone, vissuto per lungo tempo a Roma a cavallo tra il I secolo a.C. e gli inizi dell’era cristiana, riguardo alla Via Valeria, da cui mutuava il nome l’omonima provincia:

“La Via Valeria comincia da Tibur e conduce fino al territorio dei Marsi e a Corfinium, metropoli dei Peligni. Su di essa ci sono le città latine di Varia, Carsioli e Alba e, vicino, anche la città di Cuculum. Sono visibili da Roma Tibur, Praeneste e Tusculum.[2]

È doveroso notare come Strabone si soffermi nel descrivere più diffusamente proprio queste tre località che probabilmente, data la vicinanza con Roma, ove dimorava, aveva potuto visitare personalmente.
In particolare, così Strabone descrive la città di Tivoli e il territorio ad essa circostante, appuntando la sua attenzione, oltre che sul tempio di Ercole e sulla cascata formata dall’Aniene, che possiamo ritenere a quei tempi le principali attrattive della città, sulla navigabilità del fiume, che facilitava il trasporto fino a Roma del travertino, la principale risorsa economica della zona, e sulle Acque Albule, di cui elogiava le proprietà terapeutiche, già allora rinomate sia per l’uso idropinico che balneoterapico:

“Prima di tutto viene dunque Tibur, dove c’è un tempio di Eracle e la famosa cascata formata dall’Aniene – che è un fiume navigabile – che piomba giù da una grande altezza in una valle profonda e boscosa nei pressi della stessa città. Il fiume attraversa poi una pianura estremamente fertile presso le cave di pietra tiburtina e di Gabii, detta, quest’ultima, anche pietra rossa: è così molto facile portar fuori il materiale dalle cave e trasportarlo poi per via fluviale. La maggior parte delle opere d’arte di Roma sono state eseguite con pietra proveniente da questi luoghi. In questa pianura scorrono anche le acque conosciute col nome di Albulae, fresche, che sgorgano da molte fonti, salutari per diverse malattie sia per chi le beve che per chi vi si bagna; la stessa cosa vale per le Aquae Labanae, non lontano da queste, sulla via Nomentana nei dintorni di Eretum.”[3]

Riportando l’attenzione sulla Provincia Valeria, notiamo che, confrontando quanto tradito dallo storico Paolo Diacono con la testimonianza del geografo Strabone, essa risulta essere costituita essenzialmente dai territori attraversati dall’omonima via, che, partendo da Tivoli quale prolungamento della Tiburtina, raggiungeva, varcando la dorsale appenninica, il versante adriatico.
Le difficoltà nel definire con precisione i limiti geografici della Valeria sono senza dubbio da mettere in relazione alle problematicità connesse alla ricostruzione della sua genesi. Le origini di tale provincia sono da mettere in relazione alla progressiva opera di riorganizzazione geografico-amministrativa che ha interessato la penisola italiana a partire dall’età augustea. Augusto per primo organizzò l’Impero suddividendolo in province rette da governatori che provvedevano al mantenimento dell’ordine pubblico, alle esazioni fiscali, all’esercizio della giustizia e al comando delle truppe di stanza. Analogamente divise anche l’Italia in undici regiones che tuttavia, dati i privilegi giuridici e fiscali riconosciuti alla penisola, non equiparata a provincia, più che funzioni amministrative avevano funzioni di carattere anagrafico e catastale.
Dopo la riduzione dell’Italia a provincia, conseguenza della promulgazione della Constitutio Antoniniana nel 212 per volontà di Caracalla, è con Diocleziano che si assistette ad una vera riorganizzazione amministrativa dell’Italia: l’imperatore soppresse l’Urbica dioecesis – cioè Roma e i territori circostanti entro un raggio di 100 miglia – e suddivise la penisola in sette province governate da altrettanti governatori detti inizialmente correctores e successivamente, a partire dalla terza decade del IV secolo, consulares. In questo periodo la Valeria era parte integrante della provincia Flaminia et Picenum che comprendeva l’area medio-adriatica e centro-appenninica da Ravenna a Tivoli e incorporava al suo interno l’antico distretto demaniale augusteo Tiburtina-Valeria-Salaria.
Di una Provincia Valeria autonoma si ha notizia, primariamente grazie alle superstiti testimonianze epigrafiche, solo tra la fine del  IV e gli inizi del V secolo, durante il regno di Onorio (395-423), allorché la Flaminia et Picenum fu suddivisa tra una parte settentrionale, la provincia annonaria Flaminia-Picenum, annessa al vicariato d’Italia e in due parti meridionali, il Picenum suburbicarium e la Valeria medesima. A parte l’errata inclusione al suo interno dell’Etruria, è plausibile che i suoi limiti territoriali siano quelli delineati da Paolo Diacono e proprio al popolo a cui apparteneva, i Longobardi, è dovuto il venir meno di tale circoscrizione che, sopravvissuta integra alle precedenti incursioni barbariche, si frantumò in seguito all’invasione della penisola italiana, iniziata tra il 568 e il 569[4], che provocò la distruzione di località quali Amiterno, Rieti, Norcia e Cures.
L’inclusione all’interno di questa provincia, che aveva il baricentro nell’area circostante l’odierna città dell’Aquila, di località quali Tivoli, Rieti e dell’area della Nursia è presumibilmente connessa alla volontà di costituire una regione caratterizzata da una integrata fisionomia geografica ed etnica, costituita cioè dai territori originariamente abitati dalle popolazioni italiche che strenuamente si opposero all’espansione romana quali i Sabini e i Sabelli. È interessante sottolineare che, unitamente al Samnium, istituito verso la metà del IV secolo, essa è l’unica circoscrizione italiana definita dalla documentazione superstite Provincia, governata da un funzionario imperiale, residente presumibilmente a Rieti, denominato semplicemente praeses e non, come in altri casi analoghi, consularis[5].
Data la conformazione geografica dell’area, montuosa, spesso impervia e ancora oggi scarsamente antropizzata, la provincia Valeria divenne presto meta privilegiata di asceti che, nell’asprezza e nella solitudine dei luoghi, trovarono un habitat confacente al loro desiderio di  unione con Dio. Si assistette così al fiorire di  numerosi insediamenti monastici sia di tipo eremitico che cenobitico, fenomeno senza dubbio favorito dalla contiguità della regione con Roma, che, a partire dal IV secolo, era meta privilegiata di pellegrinaggio di monaci di provenienza orientale, attratti sia dalla santità del luogo, sede della Chiesa fondata da Pietro su diretto mandato di Gesù, sia dal perdurante prestigio politico dell’Urbe, la città che aveva unificato i popoli sotto l’egida del suo Impero, consentendo così la diffusione al suo interno del messaggio cristiano[6].
Ricordiamo, agli albori di tale fenomeno, la leggendaria figura del monaco siro Lorenzo che, in un non meglio precisato periodo tra IV e V secolo, giunse a Roma ove fu nominato vescovo. Carica che successivamente depose per tornare a dedicarsi alla prediletta vita monastica nei territori limitrofi all’Urbe, fra Lazio, Umbria e Abruzzo. Inizialmente si stanziò a Turianum, nell’area del Cicolano, dove, ucciso un drago pestifero ed estirpate le ultime sopravvivenze dell’idolatria pagana, simboleggiate metaforicamente dal drago stesso, fondò un monastero nel quale si ritirò a vita contemplativa. Più tardi, seguito da alcuni discepoli, sulle pendici del monte Acuziano, nei pressi di Fara Sabina, eresse un nuovo monastero che prenderà nome dal vicino fiume Farfa, destinato ad assurgere ad un ruolo di primaria importanza non solo in ambito religioso ma anche politico ed economico nel corso della successiva età medievale[7].
Se la figura e l’opera di Lorenzo Siro sono storicamente poco accertabili, non vi è dubbio che siano testimonianza di migrazioni monastiche già in atto intorno al V secolo, fenomeno che diventerà progressivamente più rilevante nei secoli seguenti. È infatti da sottolineare che, se è certamente esistito un flusso migratorio monastico da Occidente verso Oriente, in particolar modo verso l’Egitto, parimenti è esistito già in età tardo-antica un meno noto flusso in senso inverso, primariamente verso Roma e i territori ad essa limitrofi. In tale contesto, si segnala la presenza a Roma nel 341 di Sant’Atanasio, già vescovo di Alessandria, che costituì senza dubbio un forte incentivo alla diffusione del monachesimo in Italia e contribuì a dare vigore alle esperienze monastiche che autonomamente stavano iniziando a diffondersi nella penisola[8]. Si assiste così agli oscuri prodromi del fenomeno delle migrazioni monastiche verso Roma e, più in generale, verso la penisola italiana, che, tra il VII e il XII secolo, sarà numericamente ben più consistente e documentato, causato non solo dalle controversie interne alla Cristianità - ad esempio la politica imperiale iconoclasta - e dall’occupazione musulmana di buona parte delle regioni mediterranee di Asia e Africa, ma anche dalla stessa attrattiva spirituale esercitata da questi luoghi sui fedeli che avevano scelto di votare la propria vita alla solitaria unione con Dio[9]. 
Purtroppo, anche a causa dello stesso carattere eremitico di tale fenomeno, poche sono le notizie storicamente accertabili riguardo a tali insediamenti monastici presenti nella Valeria, che, a ragione, possono essere ritenuti immediati precursori del successivo monachesimo benedettino: scarse e di incerta interpretazione le testimonianze archeologiche, limitate le fonti scritte che, di fatto, sono tutte riconducibili a quanto tradito da Gregorio Magno nei Dialogi [10].
Opera questa di argomento spiccatamente agiografico, finalizzata all’edificazione dei fedeli e alla conversione dei pagani, ricca di elementi fantastici e leggendari al punto che, in passato, posta a confronto con le altre opere del pontefice, improntate ad un ben diverso rigore espositivo, si è talvolta dubitato della sua autenticità[11]. Proprio in virtù di questi suoi tratti salienti, opera volta più a sottolineare la santità dei protagonisti, con abbondanza di elementi fantastici e leggendari, che non a restituire una visione che oggi potremmo definire “storica” dei personaggi rievocati e del contesto in cui ebbero luogo gli eventi oggetto di narrazione.
 Fra i monaci attivi nella provincia Valeria documentati nei Dialogi,  Gregorio Magno tributò particolare importanza ad Equizio, probabilmente per l’indiretto legame che con lui ebbe e per l’influenza che il suo insegnamento ascetico ebbe sul futuro pontefice allorché egli stesso, abbandonati gli officia pubblici a lui spettanti in virtù dell’aristocratica famiglia di cui era membro, decise di ritirarsi a vita ascetica[12]. Dopo aver ricoperto la gravosa carica di praefectus urbi,  Gregorio fondò, nel proprio palazzo avito, sul Celio, un cenobio, ad Clivum Scauri, ove egli stesso, intorno al 574-575, si ritirò, alla cui guida pose il monaco Valenzio, che era stato precedentemente abate di un monastero nella Valeria[13]. A ciò si aggiunga che Gregorio dice esplicitamente di avere aveva avuto personalmente ragguagli su Equizio dal monaco Fortunato, divenuto poi  abate di un monastero sito in località detta Bagni di Cicerone, che precedentemente aveva avuto grande familiarità con il santo della provincia Valeria[14].
Forse per questi motivi gli episodi della vita di Equizio sono posti all’inizio dei Dialogi e costituiscono la primaria testimonianza su questo monaco e sulla sua opera, senza dubbio, a parte san Benedetto, la più rilevante personalità del monachesimo presente nella Valeria nel VI secolo. Seguendo il racconto di Gregorio, Equizio viene elogiato per la virtuosa condotta di vita e, in particolar modo, per come, per evento soprannaturale, era riuscito a vincere le tentazioni della carne grazie alle continue preghiere: una notte sognò di essere evirato da un angelo e da quel momento, come per miracolo, egli non ebbe più tentazioni carnali. Peculiarità questa che gli consentì di essere a capo di numerosi monasteri non solo maschili ma anche femminili in partibus Valeriae[15].
Tralasciando l’aneddoto iniziale, espressione di una concezione demoniaca della sessualità che rimanda ad analoghe testimonianze contenute nella Storia Lausiaca di Palladio e alle Conlationes di Cassiano[16], Gregorio Magno fornisce una serie di indicazioni che consentono di avere un soddisfacente quadro d’insieme su come fossero strutturate le comunità monastiche fondate da Equizio nella Valeria e sulla loro organizzazione. Si evince infatti che Equizio fu abate di più monasteri, sia femminili che maschili, guida spirituale e materiale di una specie di rete di piccole comunità sparse sul territorio che riconoscevano la sua autorità e seguivano i suoi insegnamenti ascetici.
Lo stesso Equizio, lasciate momentaneamente le sue comunità, viene descritto nell’atto di andare, con il cavallo di minor pregio fra quelli presenti nel monastero, con vesti modeste e l’aspetto dimesso al punto da farlo apparire al pari di un mendicante, a visitare chiese, castelli, villaggi e persino case isolate nella Valeria, portando con sé, in due sacche di pelle, i testi delle Sacre Scritture che leggeva ai fedeli per spingerli all’amore della patria celeste[17]. Indizi questi sia di un certo benessere economico, tale da consentire il mantenimento nel monastero di diversi cavalli, sia del possesso di un buon livello di istruzione, testimoniato dal riferimento al possesso di libri sacri e alla loro lettura. Attività culturali erano anche esercitate almeno da alcuni dei suoi monaci, che in un passo dei Dialogi vengono descritti intenti nell’opera amanuense, più o meno contemporaneamente all’opera di trasmissione culturale messa in atto da san Benedetto e dalle sue comunità e in anticipo rispetto alle analoghe attività scrittorie praticate nella comunità Vivariense fondata da Cassiodoro a Scolacium, in Calabria, intorno alla metà del VI secolo[18]. Parallelamente alle attività culturali, nelle comunità equiziane si praticava l’agricoltura, probabilmente non solo per le esigenze materiali legate al sostentamento dei monaci, ma anche perché l’esercizio fisico contribuiva ad evitare l’otium e le tentazioni da esso scaturite, parallelamente anche in questo aspetto all’operato di Benedetto che, nella sua Regula, prescriveva l’obbligo del lavoro manuale anche nei campi, qualora le circostanze lo richiedessero[19].
Gregorio Magno narra infatti che, giunta fino a Roma la fama di Equizio, un papa, di cui omette il nome[20], reso sospettoso da persone malevoli ed adulatrici riguardo al favore riscosso dal monaco presso i fedeli, dubitando della sua ortodossia e riscontrata la mancanza della praedicationis licentia, inizialmente prerogativa esclusiva dei vescovi, successivamente estesa anche ai sacerdoti[21], inviò in Valeria il defensor ecclesiae Giuliano, che successivamente diventerà vescovo di Cures, città della Sabina che un tempo si estendeva sulle due alture del Casino d'Arci e di S.Maria degli Arci, località situate nell’odierno comune di Fara Sabina[22]. Compito del defensor era prelevare Equizio e tradurlo a Roma dove avrebbe potuto essere giudicato, riservandogli tuttavia gli onori a lui dovuti per evitare che egli potesse sentirsi offeso da tale convocazione.
Arrivato al monastero, Giuliano non trovò Equizio ma alcuni monaci intenti nell’opera amanuense – antiquarios scribentes[23] – ai quali chiese ove fosse l’abate. Saputo che si trovava a falciare il fieno nella valle sottostante il monastero, inviò il suo servo, definito “arrogante e insolente” – superbum atque contumacem – a cercare Equizio per condurlo da lui. Giunto al cospetto del monaco, il servo, deposta lungo il cammino l’iniziale arroganza, si prostrò ai suoi piedi e gli comunicò che era richiesto dal suo padrone, giunto appositamente da Roma per incontrarlo. Equizio licenziò il servo comunicandogli che lo avrebbe presto seguito al monastero e dandogli del fieno per i loro cavalli. Vedendo il servo tornare con del fieno e non, come aveva ordinato, con il monaco, Giuliano fu preda dell’ira che mutò lentamente in timore e devozione man mano che Equizio, che calzava scarpe chiodate, portava al collo la falce e aveva un aspetto tale da ingenerare inizialmente in lui disprezzo e repulsione[24], gli si avvicinava, al punto che anch’egli si prostrò in dedizione ai suoi piedi, implorando le sue preghiere.
Comunicato al monaco il motivo della sua visita, la partenza, data la stanchezza di Giuliano, fu fissata per la mattina seguente. Viaggio che in realtà non fu effettuato perché la mattina stessa al monastero arrivò trafelato un messaggero che recava l’ordine del papa di non muovere Equizio dal monastero poiché lo stesso pontefice aveva avuto una visione miracolosa che lo rimproverava per la presunzione di voler convocare al suo cospetto un uomo di Dio – Dei hominem.
Oltre alle notizie riguardanti la presenza di amanuensi e le attività agricole praticate dallo stesso Equizio, l’episodio che ha per protagonista Giuliano è anche indizio dei sospetti e della diffidenza che la Chiesa inizialmente nutriva verso il nascente monachesimo, che appariva come un’entità anarcoide, incontrollabile nella pretesa di un legame ascetico diretto con Dio, legame dal quale derivavano le facoltà e le prerogative di cui i monaci si sentivano investiti. Posizione questa evidentemente non condivisa da papa Gregorio, che fu prima monaco, votato alla ricerca di un contatto interiore con Dio,  e solo successivamente sacerdote e pastore, sempre attento e sensibile verso la spiritualità monastica anche durante il suo pontificato, come attesta ampiamente il suo Registrum epistolarum, opera fondamentale per la comprensione dell’operato del pontefice nella sua quotidiana attività[25].
Già precedentemente i Dialogi testimoniano le diffidenze ed i sospetti suscitati dall’apostolato di Equizio. Felice, un nobile di Norcia, avvicinatosi con eccessiva familiarità al monaco, lo accusò di predicare senza alcun titolo, dato che non era sacerdote né aveva avuto licenza di farlo dal pontefice. Equizio riconobbe la fondatezza dell’accusa, ma si discolpò affermando che una notte ebbe la visione di un giovane di bell’aspetto, verosimilmente un angelo, che gli poneva sulla lingua un flebotomo dicendogli: “Ecco, ho posto le mie parole sulla tua bocca. Esci e predica.” E da quel momento non poté parlare altro che di Dio[26]. Episodio questo utile, nella prospettiva gregoriana, a sottolineare che Equizio, pur privo di una praedicationis licentia concessagli da uomini, era in realtà dotato di una ben superiore licentia, derivante direttamente da Dio.
Nei Dialogi sono presenti anche altre notizie che, sfrondate dai consueti elementi leggendari, consentono ulteriori precisazioni sull’opera di Equizio e sui tempi in cui visse. Si parla di un mago di nome Basilio che, proveniente da Roma, sotto le mentite spoglie di monaco, si era rivolto a Castorio, vescovo di Amiterno - località di fondazione romana sita ai piedi del Gran Sasso nell’alta valle dell’Aterno a circa 7 chilometri dall’odierna L’Aquila, già in rovina ai tempi di Gregorio Magno a causa dell’invasione longobarda - affinché lo aiutasse ad essere ammesso all’interno delle comunità di Equizio, sorte evidentemente nel territorio della sua diocesi. Nonostante il monaco si fosse immediatamente reso conto della reale natura demoniaca di Basilio e avesse manifestata la sua convinzione al vescovo Castorio, per non contravvenire alla sua sollecitazione, lo accolse all’interno della comunità, dove non tardarono a manifestarsi le nefaste conseguenze della diabolica presenza.
Durante una delle consuete assenze del santo monaco dalle sue comunità, in un  monastero femminile una monaca di bell’aspetto – “speciosa” - cominciò a manifestare evidenti segni di malessere, con febbre e deliri isterici, durante i quali implorava la presenza del monaco Basilio, a suo dire l’unico in grado di risanarla con i suoi rimedi. Dato che non era consentito ad alcun monaco l’accesso ad un monastero femminile, e ciò ancor più in assenza dell’abate, un confratello partì alla ricerca di Equizio per avere ragguagli sul da farsi. Una volta informato dei fatti, Equizio diede ordine di scacciare dalla comunità il demone Basilio e di non preoccuparsi più della monaca, che sarebbe immediatamente guarita. Tornato al cenobio, il monaco venne a sapere che la monaca era miracolosamente guarita proprio mentre Equizio gli parlava e, comunicato il volere dell’abate agli altri monaci, Basilio venne scacciato dal cenobio, e, tornato a Roma, fu messo al rogo[27].
Ci troviamo in questo caso di fronte ad un episodio connesso ad un evento storicamente accertato, avvenuto con clamore a Roma agli inizi del VI secolo: il Basilio in questione è infatti da identificarsi con l’omonimo personaggio sottoposto insieme ad altri imputati ad un processo per magia a Roma tra il settembre del 510 e il marzo del 511, ricordato anche da Cassiodoro nelle sue Variae[28], che si concluderà con la condanna al rogo, conformemente a quanto prescritto per questa tipologia di reati dalla legislazione romana allora vigente[29]. L’episodio incidentalmente consente anche di definire con maggior precisione l’ambito territoriale e cronologico in cui si pone l’opera di Equizio: l’area circostante Amiterno e la parte centrale del VI secolo, in considerazione del fatto che l’episcopato di Castorio si colloca tra il 502 – allorché il vescovo Valentino, suo predecessore, risulta presente al concilio che si tenne a Roma in quell’anno – e il 559, quando fu incaricato da papa Pelagio I di istruire un processo a carico di una monaca che aveva abbandonato un monastero, forse uno degli stessi monasteri fondati da Equizio nella regione[30].
La vicenda di Basilio rende noto anche il fatto che Equizio praticasse esorcismi, come si evince anche da un successivo episodio, riguardante ancora una monaca. Costei, entrata nell’orto annesso al suo monastero, fu presa dal desiderio di mangiare una pianta di lattuga, omettendo di benedirla prima con il segno della croce. Non appena morse la pianta, cadde di schianto a terra, posseduta da un diavolo. Equizio, prontamente avvisato, si recò nell’orto e subito il diavolo cominciò a parlare per bocca di lei, affermando che stava seduto sopra la lattuga quando la monaca, improvvisamente, l’aveva morso.
Entrambi gli episodi, al di là degli aspetti leggendari caratteristici della letteratura agiografica, potrebbero più verosimilmente indicare che Equizio avesse dei rudimenti di medicina, ipotesi suggerita anche dal riferimento, in occasione del dialogo con il nobile Felice, al flebotomo, termine tecnico di uso non comune che indica una specie di bisturi usato nei salassi per incidere le vene. Analogamente sembra che anche san Benedetto fosse in possesso di rudimenti di medicina e di farmacopea, come si può arguire da due capitoli della Regula contenenti riferimenti che possono essere connessi alla pratica medica[31] e da tre episodi dei Dialogi in cui si narra delle guarigioni di un monaco sublacense affetto da turbe della personalità[32] e di un giovane affetto da elefantiasi[33] e di come il santo abbia resuscitato il figlio di un contadino che viveva nei pressi del monastero cassinate[34].
Le vicende del monaco Equizio si concludono con la narrazione di due miracoli compiuti post mortem che si verificarono presso il suo sepolcro, all’interno di una chiesa dedicata a san Lorenzo, vicina ai monasteri da lui fondati nella zona[35].
Il primo evento miracoloso, narrato a Gregorio dall’abate Valenzio, ha per protagonista un contadino del luogo che, per negligenza, aveva deposto sulla tomba del monaco una cassa di frumento. Improvvisamente all’interno della chiesa si scatenò una tempesta che tuttavia lasciò tutti gli oggetti al suo interno fermi al loro posto con l’unica eccezione della cassa di frumento, che fu sollevata dalla tomba e scaraventata lontano[36].
Il secondo miracolo, riferito dall’abate Fortunato, ha per protagonisti i Longobardi. Al loro arrivo nella regione, i monaci abbandonarono i rispettivi cenobi e cercarono rifugio presso il sepolcro del loro abate, nella speranza che i barbari non avrebbero osato profanare la sacralità del luogo. Speranza rivelatasi vana, dato che gli invasori, per niente intimoriti, entrarono nella chiesa e cominciarono a portarne fuori i monaci, per sottoporli a tortura o ucciderli. Mentre ciò accadeva, un monaco invocò il nome di Equizio e improvvisamente tutti i Longobardi furono colti da un intenso e immediato malore tale da indurli a desistere dal loro proposito e a mostrare da lì in avanti rispetto verso il luogo e i monaci che vi si erano rifugiati[37]. Anche in questo caso è necessario leggere tra le righe e cogliere, al di là dell’intento apologetico del pontefice, le evidenze storiche della narrazione. Il passo testimonia la devastante presenza longobarda nell’area circostante l’odierna Aquila, consentendo di collocare cronologicamente gli eventi narrati intorno all’ottava decade del VI secolo[38]. All’invasione longobarda è anche ascrivibile la fine dell’esperienza monastica equiziana, della quale non vi sono infatti successive testimonianze, analogamente a quanto accadde ai monasteri sublacensi e all’abbazia di Montecassino che, devastata nel 577 dai Longobardi del duca di Benevento Zottone[39], risorse solo intorno al 717, sotto la guida dell’abate bresciano Petronace[40]. Questi eventi miracolosi hanno anche un’ulteriore rilevanza nell’economia della narrazione gregoriana: servono a riaffermare non solo la sacralità dei luoghi ove giacciono le reliquie dei santi, ma ancor più a sottolineare il reale potere spirituale e taumaturgico di tali reliquie, tematica questa ricorrente negli scritti del pontefice[41].
Equizio e gli altri monaci ricordati da Gregorio Magno nei Dialogi  rappresentano probabilmente solo degli esempi documentati storicamente della presenza di comunità monastiche, più o meno numericamente numerose, radicate nel territorio della Provincia Valeria, fenomeno che, ad onta della scarsa documentazione superstite, doveva essere ampiamente diffuso.
Non fu infatti casuale - conseguenza di un fenomeno che potremmo definire di attrazione monastica, ampiamente diffuso nell’età medievale - il fatto che lo stesso san Benedetto, nello stesso torno di tempo, iniziò la sua esperienza ascetica proprio nel territorio della Valeria, nell’alta valle dell’Aniene, in un’area relativamente vicina ai luoghi dove Equizio aveva fondato le sue comunità[42].
Abbandonati gli studi letterari che stava seguendo a Roma, Benedetto, ancora adolescente, seguito solo dalla sua nutrice, pose la sua prima dimora ad Affile, presso la chiesa dedicata a san Pietro, accolto con ossequio e benevolenza dagli abitanti e dai notabili del paese[43]. Poi, desideroso di condurre una vita realmente eremitica, lasciò Affile e la sua nutrice per dirigersi verso Subiaco, ove incontrò un monaco, Romano, appartenente ad un vicino monastero di cui era abate Adeodato, ulteriore testimonianza della diffusa presenza di insediamenti monastici nella regione. Romano diede a Benedetto l’abito monastico e per tre anni fu l’unico a conoscenza della sua solitaria presenza in una quasi inaccessibile spelonca nei pressi del suo monastero. Narra Gregorio che, sottraendosi a volte alla sorveglianza dell’abate, Romano portava del pane al giovane asceta. Pane che, in mancanza di un passaggio diretto tra il monastero e la grotta, veniva calato dall’alto con una fune munita di una campanella, per avvisare Benedetto dell’arrivo del cibo. Poco alla volta, la fama di Benedetto si diffuse tra la popolazione e molti, recatisi in pellegrinaggio alla grotta, si convertirono a vita religiosa e cominciarono a frequentarlo: “gli portavano di che nutrire il corpo, ricevevano interiormente dalla sua voce l’alimento della vita spirituale”.[44]
La notorietà di Benedetto crebbe rapidamente al punto che, morto l’abate di un vicino monastero – identificato nel monastero dedicato ai santi Cosma e Damiano presso Vicovaro[45] – i monaci si rivolsero a lui affinché assumesse la guida del cenobio e riportasse ordine nella comunità. Compito che Benedetto, sia pure a malincuore, si assunse, senza comunque riuscire a portare a termine l’obiettivo prefissato: i monaci si rivelarono ben presto insofferenti della rigida disciplina che Benedetto voleva imporre loro, al punto di tentare persino di ucciderlo avvelenandogli il vino[46]. Di fronte a tale situazione, Benedetto tornò nella solitudine della sua grotta presso Subiaco, dove nuovamente cominciò ad attrarre a sé fedeli, non più solo rozzi abitanti del contado ma anche nobili provenienti da Roma, i quali a lui affidavano i propri figli affinché fossero educati al servizio di Dio. Fra questi Benedetto prescelse quale suo aiutante un giovane di nome Mauro, figlio del patrizio romano Euticio. Man mano che gli adepti aumentavano sotto la sua guida, Benedetto decise di dividere la sua comunità, fondando progressivamente, in aggiunta a quello guidato da lui personalmente, dodici nuovi monasteri, ognuno dei quali composto da dodici monaci e un abate, numeri questi scelti non casualmente ma chiaramente ispirati alla figura di Gesù e dei suoi primi dodici discepoli[47]. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un sistema monastico ramificato, basato su un monastero principale e una rete di monasteri sparsi nelle vicinanze, molto simile a quello costituito da Equizio intorno ad Amiterno e, pur in assenza di contatti accertati tra le due entità, è plausibile che tale struttura organizzativa fosse attuata diffusamente in questa fase iniziale del monachesimo rurale in Italia.
 Quanto tradito da papa Gregorio nei Dialogi su Equizio e Benedetto e sulle loro comunità non è di fondamentale importanza solo in quanto unica testimonianza, pressoché coeva, in nostro possesso al riguardo. I dati che si evincono possono anche fornire, per analogia, la chiave interpretativa con la quale comprendere, per quanto possibile, gli altri antichi insediamenti monastici sparsi sul territorio compreso tra i dintorni di Tivoli e l’alta valle dell’Aniene. Monasteri di cui rimangono esigui resti, grotte con tracce di remote presenze abitative, ruderi sparsi sul territorio, spesso rimaneggiati nel corso dei secoli e privi di alcuna documentazione scritta, mute testimonianze di eventi a noi ignoti a cui possiamo ridare un barlume di vita supponendo che anche in questi luoghi sia accaduto qualcosa di paragonabile alle esperienze monastiche narrate da Gregorio Magno[48].
Mi sia concessa un’osservazione conclusiva sul confronto tra Equizio e Benedetto. Se costui divenne il principale riferimento e il fondatore ideale di tutto il monachesimo occidentale, a differenza di Equizio, di cui, disgregate le sue comunità poco dopo la sua morte, rimarrà memoria solo nella devozione locale, ciò è primariamente dovuto alla maggiore importanza a lui tributata da Gregorio Magno nei Dialogi, conseguenza sia delle più numerose e dettagliate notizie in suo possesso riguardanti Benedetto, sia della più profonda empatia che il pontefice provava nei suoi confronti.
Papa Gregorio, giustamente ritenuto l’artefice della posteriore fortuna di san Benedetto, nella sua opera ci restituisce un’immagine del monaco che trascende la realtà storica. I Dialogi non contengono una vera biografia di Benedetto: nel raccontare le sue gesta, Gregorio trasforma la realtà biografica in una rappresentazione carismatica del santo, visto come taumaturgo, profeta e veggente. Benedetto diviene così, nel racconto di Gregorio, l’archetipo ideale del monaco. A ciò si aggiunga il fatto che Benedetto scrisse una regola che, riscoperta nei secoli seguenti, divenne di fatto la regola sostanzialmente osservata da tutto il successivo monachesimo occidentale, a differenza di Equizio che, per le notizie in nostro possesso, non scrisse alcuna regola, o quantomeno di essa si è persa presto memoria. Queste le ragioni della successiva fortuna di Benedetto, che, con la rinascita monastica iniziata a partire dall’VIII secolo, diverrà fondamento e punto di partenza di ogni successiva esperienza monacale. Altrimenti, in considerazione del fatto che, a parte Benedetto, Equizio è uno dei santi monaci su cui più dettagliatamente si sofferma Gregorio Magno e tenuto conto delle evidenti analogie tra le due esperienze monastiche, è legittimo ipotizzare che forse avremmo potuto avere, dal Medio Evo fino ad oggi, un monachesimo equiziano anziché un monachesimo benedettino. Sappiamo, tuttavia, che in ambito storico i se hanno poca importanza.

per le note si rimanda al link
 http://www.ortodossia.it/w/index.php?option=com_content&view=article&id=4570:07-03-il-monaco-equizio-alle-origini-del-monachesimo-nella-provincia-valeria&catid=197:marzo&lang=it
 








Santo Gaudioso Vescovo di Brescia (verso il 445 )
Tratto da
San Gaudioso fu nella prima metà del V secolo il dodicesimo vescovo di Brescia, come risulta da un discorso pronunciato dal vescovo Ramperto, nel quale in occasione del trasferimento del corpo di san Filiastro, da lui stesso predisposto nell’834, dalla chiesa antica di Sant’Andrea alla chiesa di Santa Maria elencò i nomi dei trenta vescovi fino ad allora succedutisi nella diocesi bresciana. L’agiografo Ughelli, che indica erroneamente Gaudioso col nome di «Gaudentius II», gli assegna tredici anni di episcopato. Le «Vies des Saints» scritte dai Benedettini di Parigi pongono la morte di Gaudioso verso il 445. È certo in ogni caso che egli morì prima del 451 poiché in quell’anno il suo successore Ottaziano firmò la lettera sinodica dell’episcopato lombardo indirizzata a san Leone Magno contro il monofisismo di Eutiche. Secondo i Martirologi Romano e Bresciano Gaudioso morì un 7 marzo. Il suo corpo fu tumulato nella chiesa parrocchiale di Sant’Alessandro, dove - come ricorda nella «Bibliotheca Sanctorum» il sacerdote Alfredo Brontesi, professore di Lettere classiche nel Liceo-Ginnasio vescovile bresciano, - rimase custodito e nascosto nella chiesa di Sant’Alessandro fino al 1454: «In quell’anno, volendo Gentile da Leonello, generalissimo degli eserciti della Repubblica Veneta, fare opere di restauro alla chiesa, le ossa di Gaudioso, trovate in una rozza cassa di pietra, furono oggetto di una solenne ricognizione».
Messe al sicuro nella cappella della famiglia Da Ponte durante la tempesta rivoluzionaria della fine del Settecento, nel 1823 furono restituite alla chiesa di Sant’Alessandro.

Tratto da http://www.enciclopediabresciana.it/enciclopedia/index.php?title=GAUDIOSO,_S.

Computandovi S. Anatolio, S. Gaudioso è il XIII vescovo di Brescia, sedente tra i Santi Silvino e Ottaziano; VI dei diciannove officianti in S. Andrea. Il Faino lo ritiene XV della serie; Gradenigo, Brunati, Barchi, Onofri e gli Annuari Diocesani XIII: P. Savio, Lanzoni e Guerrini XII. Il Faino lo fa vescovo dal 447 alla morte, il 7 marzo 450; il Gradenigo circa il 444 e così il Barchi; l'Onofri circa il 446; il Savio induce a crederlo morto circa il 450; il Guerrini, da circa il 446, alla morte, il 7 marzo circa il 450; gli Annuari Diocesani danno gli estremi 433-442. I due Martirologi, Romano e Bresciano, lo solennizzano alla data, comune del 7 marzo, in concorrenza  con S. Tommaso d'Aquino. Il Martirologio Bresciano dedica a S. Gaudioso anche il primo novembre, ricordandone la traslazione interna di San Alessandro all' 1 novembre 1488. Il Martirologio Bresciano lo ricorda: "A Brescia, nella chiesa di S. Alessandro, S. Gaudioso, vescovo di grande santità, il quale dopo aver governato il suo gregge con l'esempio di ogni virtù, pieno di meriti si addormentò nel Signore". Il nome di Gaudioso, quale ci viene riferito dall'autorevole Ramperto, fu dall'Ughelli malamente modificato in Gaudenzio che dovrebbe perciò dirsi secondo. Tale errore fu ripetuto dai Bollandisti, quando ne parlarono al 3 marzo nella trattazione di S. Tiziano, XVI vescovo bresciano, e li obbligò, certo per la dotta polemica del Canonico Paolo Gagliardi, a correggersi al 7 marzo, dedicato espressamente alla festività del Santo. Nonostante le rettifiche tale errore continuò nelle guide e in manuali d'arte. Senza dire poi che p. Fulgenzio Rinaldi nella sua storia di Iseo lo disse addirittura un Fenaroli. S. Gaudioso fu sepolto in S. Alessandro, forse da lui eretto fuori della prima cerchia delle mura cittadine, in onore, non di un presunto martire bresciano di nome Alessandro, ma del noto e mite martire omonimo della Legione Tebea, patrono della città e diocesi di Bergamo. Otto degli antichi calendari manoscritti ricordano S. Gaudioso: da quello del secolo XI a quello dell'Officio diurno della chiesa di S.Faustino del XVI secolo. Quando nel 1452 il generale Gentile da Leonessa che comandava l'esercito veneto a difesa della città e territorio bresciani contro i Visconti, fece rifabbricare, a sue spese, la cappella maggiore della chiesa di S. Alessandro nel 1453, in un'antica e rotta arca di marmo venne trovato il corpo di S. Gaudioso. Nel 1486 si pensò di dedicargli uno degli altari appena costruiti. Fu scelto il primo a destra entrando e vi fu posta una statua, probabilmente di marmo, come dice il Faino, che, al suo tempo (prima del sec. XVIII), poté vedere anche Francesco Maccarinelli. Nel 1488, il cav. Galeazzo del nobile Giorgio Fenaroli, fece eseguire una nuova e preziosa urna dove il santo venne trasferito l' 1 novembre 1488, come risulta dal Libro delle Provvisioni con la seguente iscrizione (riferita dal Gradenigo, dal Brognoli, dal Fè e dal Savio, ma ora perduta): D. (Divo) Gaudioso Brixiano Antistiti - Galassius Fenarolus Eques Aureatus - Iuris Pontificii Civitisque celeberrimus - Doctor Monumentum dicavit - Anno MCCCCLXXXVIII. L'altare era di S. Rocco, con una preziosa tela del Moretto, ma vi fu associato anche S. Gaudioso, ponendovi in venerazione le sue reliquie. L'antica urna e anche quella fatta fare dal Fenaroli andarono purtroppo distrutte nell'ultimo rifacimento della chiesa del 1792, eseguito su disegni e per direzione dell'architetto Giovanni Donegani. Soppressi nel 1798 i Serviti che officiavano S. Alessandro, il Padre Faustino dei nobili da Ponte ex servita e curato, parroco della soppressa parrocchia, per salvare le sacre spoglie di S. Gaudioso da una temuta profanazione del suo tempio, assegnato all'ospedale militare, le trasportò al ronco paterno, nell'oratorio di S. Maria alla Torricella di Cellatica. Il 16 giugno 1823 il corpo di S. Gaudioso veniva restituito a S. Alessandro e il 15 maggio 1825, dal vescovo Gabrio Maria Nava, veniva deposto con pompa cittadina in un elegante sarcofago sotto l 'altar maggiore, riattivando la festa che l'Onofri testimonia veniva celebrata "solemni pompa et maximo populi concurso". Ora le reliquie ricomposte e riunite, riposano nel loculo ricavato, sotto la mensa, dall'architetto Luigi Arcioni, protetto da un grande cristallo, a sua volta difeso da una bella grata di ottone coi simboli episcopali e il nome del Santo. Lo stemma parrocchiale che S. Alessandro usa per intestare i suoi moduli d'archivio, reca al centro l'Addolorata, la cui devozione ereditata dagli ex officiati Serviti, vi è particolarmente curata; in basso e in angolo il titolare S. Alessandro e all'angolo opposto, in alto, San Gaudenzio, come a chiamarlo terzo per tutelare la chiesa che l'ha sempre accolto e onorato.


[1] Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, II, 20, ed. a cura di L. Capo, Milano 1992 (Fondazione Lorenzo Valla), pp. 100-101,
[2] Strabone, Geografia – L’Italia, V, 3, 11, ed. a cura di A. M. Biraschi, Milano 19943, pp. 150-151. Corfinium e Varia corrispondono alle odierne Corfinio e Vicovaro; le rovine di Carsioli si trovano in località Civita di Oricola, nell’omonimo comune in provincia dell’Aquila; Alba è Alba Fucens, poco a Sud di Avezzano mentre Cuculum corrisponde alla zona oggi detta Il Cicolano, nella Valle del Salto, nei pressi di Rieti. Sulla Via Valeria cfr. F. Crainz, C.F. Giuliani, I due tracciati della via Valeria fra Ad Lamnas e Carseoli, in “Atti e Memorie della Società Tiburtina di Storia e d’Arte” 58 (1985), pp. 71-88.
[3] Ivi, pp. 150-153. Le Aquae Labanae sono state identificate nelle sorgenti sulfuree della località Bagni di Grotta Marozza, nei pressi di Mentana. Cfr. E. H. Bunbury s.v. Aquae Labanae in Dictionary of Greek and Roman Geography, London 1854.
[4] O. Bertolini, La data dell’ingresso dei Longobardi in Italia, in Id., Scritti scelti di Storia Medievale, 2 voll., Livorno 1968, (Università di Pisa. Pubblicazioni dell’Istituto di Storia della Facoltà di Lettere, 3), vol. I, pp. 19-62.
[5] Sulle varie ipotesi relative alle origini della Provincia Valeria cfr. C. Letta, Dalla Marsica romana alla Marsica cristiana: riflessioni sulla provincia Valeria e sull’epigrafia cristiana nella Marsica, in La Terra dei Marsi. Cristianesimo, cultura, istituzioni, Atti del Convegno di Avezzano (24-26 settembre 1998), a cura di G. Luongo, Roma 2002, pp. 3-24. Vedi anche C. Rivera, La provincia Valeria nella diocesi Italiciana. Corografia e Storia, in Id., Scritti sul Medioevo abruzzese, a cura di B. Pio, L’Aquila 2008, vol. II, pp. 327-344. Sull’organizzazione amministrativa dell’Italia in età tardo-antica cfr. L. [Cracco] Ruggini, Economia e società nell’ “Italia Annonaria”. Rapporti fra agricoltura e commercio dal IV al VI secolo d. C., Milano 1961.
[6] Sulle origini del monachesimo in Italia e in Europa cfr. I. Gobry, Storia del Monachesimo, vol. I, ed. ital., Roma 1991. In part., riguardo alla cultura monastica delle origini, cfr. S. Pricoco, Aspetti culturali del primo monachesimo d’Occidente, in Id., Monaci Filosofi e Santi. Saggi di storia della cultura tardo antica, Soveria Mannelli 1992, pp. 9-37.
[7] C. Rivera, Per la storia dei precursori di san Benedetto nella Provincia Valeria, in “Bollettino dell’Istituto Storico Italiano e Archivio Muratoriano”, 47 (1932), pp. 25-49, in part. pp. 28-35. Cfr. anche G. D. Gordini, s.v. Lorenzo Illuminatore, in Bibliotheca Sanctorum, VIII, Roma 1967, p. 135.
[8] G. Turbessi, Ascetismo e monachesimo prebenedettino, Roma 1961, pp. 143 – 145. Sulle origini del monachesimo in Europa e in Italia cfr. G. Picasso, Il monachesimo occidentale dalle origini al secolo XI, in Dall’eremo al cenobio, a cura di G. Pugliese Carratelli, Milano 1987, pp. 3-63, in part. pp. 4-16. Cfr. anche G. Penco, Storia del monachesimo in Italia. Dalle origini alla fine del Medioevo, Milano 1983, p. 38.
[9] Sul monachesimo greco in Italia cfr. S. Borsari, Il monachesimo bizantino nella Sicilia e nell’Italia meridionale prenormanne, Napoli 1963. In particolare, riguardo alla città di Roma, cfr. F. Burgarella, Presenze greche a Roma: aspetti culturali e religiosi, in Roma tra Oriente e Occidente, Atti della XLIX Settimana di Studio del CISAM (Spoleto, 19-24 aprile 2001), Spoleto 2002, pp.943-992.
[10] Riguardo alla vita e all’opera di Gregorio Magno cfr. J. Richards, Il Console di Dio. La vita e tempi di Gregorio Magno, trad. it., Firenze 1984 e S. Boesch Gajano, Gregorio Magno. Alle origini del Medioevo, Roma 2004, in part., riguardo ai Dialogi, la Parte seconda, pp. 149-305. Cfr. anche Ead., “Narratio” e “expositio” nei Dialoghi di Gregorio Magno, in “Bollettino dell’Istituto Storico Italiano e Archivio Muratoriano”, 88 (1979), pp. 1-33. Sull’agiografia tardo-antica cfr. C. Leonardi, I modelli dell’agiografia latina dall’epoca antica al Medioevo, in Passaggio dal mondo antico al Medio Evo da Teodosio a San Gregorio Magno, Atti del Convegno Internazionale (Roma, 25 – 28 maggio 1977), Roma 1980 (Atti dei Convegni Lincei, 45), pp. 435-463.
[11] S. Boesch Gajano, Gregorio Magno. Alle origini del Medioevo, cit., p.151.
[12] Gregorio Magno era membro della prestigiosa gens Anicia. Cfr. A Momigliano, Gli Anicii e la storiografia latina del VI sec. d.C., in Rendiconti Accademia dei Lincei, Classe di Scienze morali, storiche e filologiche, serie VIII, vol. XI, fasc. 11-12, novembre-dicembre 1956 (= Id., Secondo contributo alla storia degli studi classici, Roma 1984, pp. 231-253). A differenza di san Benedetto, Equizio non ha suscitato particolare interesse negli studiosi. Il contributo più esauriente sul suo personaggio è probabilmente quello di G. Marinangeli, Equizio amiternino e il suo movimento monastico, in “Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria”, 64 (1974), pp. 281-343. Cfr. anche V. Pacifici, Tivoli nel Medio-Evo. Parte prima, Tivoli 1971 (rist. an. dell’originale edito in “Atti e Memorie della Società Tiburtina di Storia e d’Arte, V-VI, 1925-1926), p. 161.
[13] A parte Equizio e san Benedetto, Gregorio Magno ricorda nei Dialogi il monaco Martirio, testimone di un evento miracoloso - Dialogi, I, 11, ed. a cura di S. Pricoco edita con il titolo Storie di santi e di diavoli (Dialoghi), 2 voll., Milano 2005/2006 (Scrittori greci e latini - Fondazione Lorenzo Valla) vol. I, pp. 96-97 (d’ora in avanti si farà sempre riferimento a questa edizione dei Dialogi di Gregorio Magno, di cui si indicherà, dopo il riferimento testuale,  il volume, I o II, e il numero di pagina dell’edizione), i monaci Eutizio e Fiorenzo, che operavano nei pressi di Norcia - Dialogi, III, 15, vol. II, pp. 62-73 - e due monaci appartenenti al monastero della Valeria di cui era abate Valenzio, impiccati dai Longobardi che avevano saccheggiato il cenobio - Dialogi, IV, 22, vol. II, pp. 230-231.
[14] Gregorio Magno, Dialogi, I, 3, 5, pp. 30-31.
[15] Sul monachesimo femminile in età medievale cfr. E. Pasztor, Il monachesimo femminile, in Dall’eremo al cenobio, cit., pp. 153-180.
[16] Dialogi, vol. I, n. 11 pag. 252.
[17] Dialogi, I, 4, 10, vol. I, pp. 38-39.
[18] Sull’attività scrittoria nel monachesimo benedettino cfr. G. Cencetti, Scriptoria e scritture nel monachesimo benedettino, in Il monachesimo nell’Alto Medioevo e la formazione della civiltà occidentale, Atti della IV Settimana di Studio del CISAM (Spoleto, 8-14 aprile 1956), Spoleto 1957, pp. 187-219. Cfr. anche G. Cavallo, Dallo scriptorium senza biblioteca alla biblioteca senza scriptorium, in Dall’eremo al cenobio, cit., pp. 329-422.
  Sulla figura di Cassiodoro cfr. A Momigliano, s.v. Cassiodoro, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 21, Roma 1978, pp.494-504. Cfr. anche il recente F. Cardini, Cassiodoro il grande. Roma, i barbari e il monachesimo, Milano 2009, in part., riguardo al Vivarium, pp. 139-149. Riguardo al Vivarium cfr. S. Pricoco, Il Vivario di Cassiodoro, in Monaci Filosofi e Santi, cit., pp. 179-206.
[19] Regula Sancti Benedicti, 48, in La Regola di san Benedetto e le Regole dei Padri, ed. a cura di S. Pricoco, Milano 1995 (Fondazione Lorenzo Valla), pp. 122-227. Riguardo alle problematiche connesse alla Regula benedettina cfr. E. Franceschini, La questione della Regola di s. Benedetto, in Il monachesimo nell’Alto Medioevo e la formazione della civiltà occidentale, cit., pp. 221-256.
[20] Stupisce che, a fronte di tante dettagliate descrizioni, Gregorio Magno ometta il nome del suo predecessore che aveva messo in atto l’ispezione a carico di Equizio. Ciò è evidentemente interpretabile con la volontà di Gregorio di non attribuire una colpa personale ad un altro pontefice ma semplicemente di rimarcare la purezza del monaco rispetto alla sottile malvagità degli uomini di corte.
[21] Il concilio di Calcedonia del 451 e papa Leone I in alcune lettere avevano limitato ai vescovi la facoltà di predicare, facoltà che fu estesa anche ai sacerdoti nel concilio di Vaison del 529. Cfr. Dialogi, vol. I, n. 86, p. 257.
[22] La diocesi di Cures sarà accorpata nel gennaio del 593 alla diocesi di Nomentum dallo stesso Gregorio Magno in seguito alle devastazioni causate dall’invasione longobarda. Cfr. Gregorio Magno, Lettere, testo latino a cura di D. Norberg, trad. it. a cura di V. Recchia, 4 voll., Roma 1996-1999 [Opere di Gregorio Magno, V, 1-4]. Testo latino riprodotto: Gregorius I Papa, Registrum epistolarum, ed. D. Norberg, Turnolti 1982 (CCL 140-140 A), ep. III, 20, vol. I, pp. 408-409.
[23] Dialogi, vol. I, n. 135, p. 261. Ricordiamo che, secondo Cassiodoro è proprio il monaco-scriba l’avversario vittorioso di Satana. Cassiodoro Senatore, Institutiones, I, 30, ed. a cura di R. A. B. Mynors, Oxford 1963,  pp. 75-78. Cfr. S. Pricoco, Il Vivario di Cassiodoro, cit., p. 203.
[24] Notiamo come la reazione di Giuliano, che pure era un uomo della Chiesa romana, non sia molto dissimile dal ribrezzo suscitato nel poeta pagano Rutilio Namaziano dalla visione dei monaci presenti  nelle isole di Capraia e di Gorgona, nel corso del suo viaggio di ritorno da Roma alla natia Gallia Narbonese, tra il 415 e il 417. Rutilio Namaziano, Il ritorno (De reditu suo), I, vv. 439-452, 511-526, ed. a cura di A. Fo, Torino 1992, pp. 32-33, 36-39.
[25] C. Leonardi, La spiritualità monastica dal IV al XIII secolo, in Dall’eremo al cenobio, cit., pp. 183-215. In part., riguardo a Gregorio Magno, pp. 192-203.
[26] Dialogi, I, 4, 8, vol. I, pp. 16-17.
[27] Dialogi I, 4, 4-6, vol. I, pp.32-35.
[28] Cassiodoro Senatore, Variae, III, 22, ed. a cura di Th. Mommsen, Dublin-Zürich 1972 (Monumenta Germaniae Historica, Auctores Antiquissimorum, XII), pp. 123-124.
[29] Dialogi, vol. I, n.21, p. 252-253.
[30] Dialogi, vol. I, n. 23, p. 253.
[31] Regula Sancti Benedicti, 27, 2-4; 28, 6-8, ed. cit., pp. 192-195. Sui rapporti tra monachesimo e medicina cfr. F. Troncarelli, Una pietà più profonda. Scienza e medicina nella cultura monastica italiana, in Dall’eremo al cenobio, cit., pp.703-727.
[32] Dialogi, II, 4, vol. I, pp. 124-127.
[33] Dialogi, II, 26, vol. I, pp. 184-185.
[34] Dialogi, II, 32, vol. I, pp. 196-201.
[35] Tale chiesa è stata individuata nella chiesa di san Lorenzo sita nel borgo omonimo, nel comune di Pizzoli. Da qui il corpo di sant’Equizio è stato nel 1461 traslato nella chiesa di san Lorenzo, all’interno delle mura dell’Aquila e successivamente nella chiesa di santa Margherita della Forcella, sempre nel capoluogo abruzzese, ove è tuttora venerato come compatrono della città. Cfr. G. Marinangeli, Equizio amiternino e il suo movimento monastico, cit., pp. 308-309.
[36] Dialogi, I, 4, 20, vol. I, pp. 46-47.
[37] Dialogi, I, 4, 21, vol. I, pp. 46-47.
[38] O. Bertolini, Roma di fronte a Bisanzio e ai Longobardi, Bologna 1941 (Istituto di Studi Romani. Storia di Roma, IX), pp. 220-229.
Sui rapporti tra Gregorio Magno e i Longobardi cfr. V. Paronetto, I Longobardi nell’Epistolario di Gregorio Magno, in Atti del VI convegno Internazionale di Studi sull’Alto Medioevo (Milano 21-25 ottobre 1978, Spoleto 1980, pp. 559-570.
[39] G. Picasso, Il monachesimo occidentale dalle origini al secolo XI, cit., p. 15
[40] Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, VI, 40, ed. cit., pp. 342-345.
[41] Al riguardo cfr. A. Foresi, Il culto delle reliquie tra Oriente e Occidente: la testimonianza di papa Gregorio Magno (590-604), in Viaggi di monaci e pellegrini, a cura di P. De Leo, Soveria Mannelli 2002, pp. 133-152. Gregorio Magno, nei Dialogi, narra anche della miracolosa guarigione di una donna affetta da disturbi psichici avvenuta nella grotta di Subiaco ove Benedetto, già defunto, aveva dimorato. In questo caso la sacralità e i poteri taumaturgici si estendono dalle reliquie propriamente dette – i resti del corpo e gli oggetti usati dal santo – ai luoghi stessi resi santi dalla precedente presenza del santo. Su tali tematiche cfr. R. Grégoire, Manuale di Agiografia. Introduzione alla letteratura agiografica, Fabriano 1987 (Bibliotheca Montisfani, 12).
[42] Riguardo a san Benedetto e ai suoi legami con l’area tiburtino-sublacense cfr. V. Pacifici, Tivoli nel Medio-Evo, cit., pp. 156-163.
[43] Dialogi, II, 1, 1-2, vol. I, pp. 106-109.
[44] Dialogi, II, 1, 4-8, vol. I, pp. 108-113.
[45] S. Andreotta, Subiaco culla dell’ordine benedettino, in “Atti e Memorie della Società Tiburtina di Storia e d’Arte”, 37 (1964), p. 7. Tale identificazione è tuttavia dubbia poiché il monastero è definito da Gregorio non longe da Subiaco, mentre Vicovaro dista circa 30 chilometri da Subiaco.
[46] Dialogi, II, 3, vol. I, pp. 116-119.
[47] Riguardo all’identificazione e all’ubicazione di questi monasteri cfr. S. Andreotta, Subiaco culla dell’ordine benedettino, cit., pp. 7-14.
[48] Cito, fra i molti disponibili, gli esempi dell’insediamento rupestre dedicato a sant’Angelo, presso Montorio Romano, e del complesso monastico anch’esso dedicato a sant’Angelo, addossato al monte Morra. Cfr. su tali tematiche U. Broccoli, I Lucretili e il Medioevo: luoghi e nomi di luoghi a cavallo del primo millennio, in Monti Lucretili. Parco regionale naturale, a cura di G. De Angelis, Monterotondo 20005, pp. 607-621; J. Coste, I villaggi medievali abbandonati dell’area dei Monti Lucretili, ivi, pp. 623-652; R. Gelsomino, Toponomastica dei Monti Lucretili, ivi, pp. 675-722. Cfr. anche P. Delogu, Territorio e cultura fra Tivoli e Subiaco nell’Alto Medio Evo, in “Atti e Memorie della Società Tiburtina di Storia e d’Arte” 52 (1979), Atti del Convegno L’eredità medievale nella regione tiburtina, Tivoli, 26-27 maggio 1979, pp. 25-54.

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