mercoledì 14 marzo 2018

14 Marzo Santi Italici ed italo greci



 



Santo Benedetto da Norcia in Umbria, padre del monachesimo in Occidente,fondatore dei monasteri di Subiaco e di Montecassino,autore della Regola (verso il 543)

Tratto dal quotidiano Avvenire

È il patriarca del monachesimo occidentale. Dopo un periodo di solitudine presso il sacro Speco di Subiaco, passò alla forma cenobitica prima a Subiaco, poi a Montecassino. La sua Regola, che riassume la tradizione monastica orientale adattandola con saggezza e discrezione al mondo latino, apre una via nuova alla civiltà europea dopo il declino di quella romana. In questa scuola di servizio del Signore hanno un ruolo determinante la lettura meditata della parola di Dio e la lode liturgica, alternata con i ritmi del lavoro in un clima intenso di carità fraterna e di servizio reciproco. Nel solco di San Benedetto sorsero nel continente europeo e nelle isole centri di preghiera, di cultura, di promozione umana, di ospitalità per i poveri e i pellegrini. Due secoli dopo la sua morte, saranno più di mille i monasteri guidati dalla sua Regola. Paolo VI lo proclamò patrono d'Europa (24 ottobre 1964)






Martirologio Romano: Memoria di san Benedetto, abate, che, nato a Norcia in Umbria ed educato a Roma, iniziò a condurre vita eremitica nella regione di Subiaco, raccogliendo intorno a sé molti discepoli; spostatosi poi a Cassino, fondò qui il celebre monastero e scrisse la regola, che tanto si diffuse in ogni lugo da meritargli il titolo di patriarca dei monaci in Occidente.

Tratto da

Cari fratelli e sorelle, 
vorrei oggi parlare di san Benedetto, Fondatore del monachesimo occidentale, e anche Patrono del mio pontificato. Comincio con una parola di san Gregorio Magno, che scrive di san Benedetto: “L’uomo di Dio che brillò su questa terra con tanti miracoli non rifulse meno per l’eloquenza con cui seppe esporre la sua dottrina” (Dial. II, 36). Queste parole il grande Papa scrisse nell’anno 592; il santo monaco era morto appena 50 anni prima ed era ancora vivo nella memoria della gente e soprattutto nel fiorente Ordine religioso da lui fondato. San Benedetto da Norcia con la sua vita e la sua opera ha esercitato un influsso fondamentale sullo sviluppo della civiltà e della cultura europea. La fonte più importante sulla vita di lui è il secondo libro dei Dialoghi di san Gregorio Magno. Non è una biografia nel senso classico. Secondo le idee del suo tempo, egli vuole illustrare mediante l’esempio di un uomo concreto – appunto di san Benedetto – l’ascesa alle vette della contemplazione, che può essere realizzata da chi si abbandona a Dio. Quindi ci dà un modello della vita umana come ascesa verso il vertice della perfezione. San Gregorio Magno racconta anche, in questo libro dei Dialoghi, di molti miracoli compiuti dal Santo, ed anche qui non vuole semplicemente raccontare qualche cosa di strano, ma dimostrare come Dio, ammonendo, aiutando e anche punendo, intervenga nelle concrete situazioni della vita dell’uomo. Vuole mostrare che Dio non è un’ipotesi lontana posta all’origine del mondo, ma è presente nella vita dell’uomo, di ogni uomo. 
Questa prospettiva del “biografo” si spiega anche alla luce del contesto generale del suo tempo: a cavallo tra il V e il VI secolo il mondo era sconvolto da una tremenda crisi di valori e di istituzioni, causata dal crollo dell’Impero Romano, dall’invasione dei nuovi popoli e dalla decadenza dei costumi. Con la presentazione di san Benedetto come “astro luminoso”, Gregorio voleva indicare in questa situazione tremenda, proprio qui in questa città di Roma, la via d’uscita dalla “notte oscura della storia” (cfr Giovanni Paolo II, Insegnamenti, II/1, 1979, p. 1158). Di fatto, l’opera del Santo e, in modo particolare, la sua Regola si rivelarono apportatrici di un autentico fermento spirituale, che mutò nel corso dei secoli, ben al di là dei confini della sua Patria e del suo tempo, il volto dell’Europa, suscitando dopo la caduta dell’unità politica creata dall’impero romano una nuova unità spirituale e culturale, quella della fede cristiana condivisa dai popoli del continente. E’ nata proprio così la realtà che noi chiamiamo “Europa”. 
La nascita di san Benedetto viene datata intorno all’anno 480. Proveniva, così dice san Gregorio, “ex provincia Nursiae” – dalla regione della Nursia. I suoi genitori benestanti lo mandarono per la sua formazione negli studi a Roma. Egli però non si fermò a lungo nella Città eterna. Come spiegazione pienamente credibile, Gregorio accenna al fatto che il giovane Benedetto era disgustato dallo stile di vita di molti suoi compagni di studi, che vivevano in modo dissoluto, e non voleva cadere negli stessi loro sbagli. Voleva piacere a Dio solo; “soli Deo placere desiderans” (II Dial., Prol 1). Così, ancora prima della conclusione dei suoi studi, Benedetto lasciò Roma e si ritirò nella solitudine dei monti ad est di Roma. Dopo un primo soggiorno nel villaggio di Effide (oggi: Affile), dove per un certo periodo si associò ad una “comunità religiosa” di monaci, si fece eremita nella non lontana Subiaco. Lì visse per tre anni completamente solo in una grotta che, a partire dall’Alto Medioevo, costituisce il “cuore” di un monastero benedettino chiamato “Sacro Speco”. Il periodo in Subiaco, un periodo di solitudine con Dio, fu per Benedetto un tempo di maturazione. Qui doveva sopportare e superare le tre tentazioni fondamentali di ogni essere umano: la tentazione dell’autoaffermazione e del desiderio di porre se stesso al centro, la tentazione della sensualità e, infine, la tentazione dell’ira e della vendetta. Era infatti convinzione di Benedetto che, solo dopo aver vinto queste tentazioni, egli avrebbe potuto dire agli altri una parola utile per le loro situazioni di bisogno. E così, riappacificata la sua anima, era in grado di controllare pienamente le pulsioni dell’io, per essere così un creatore di pace intorno a sé. Solo allora decise di fondare i primi suoi monasteri nella valle dell’Anio, vicino a Subiaco.
Nell’anno 529 Benedetto lasciò Subiaco per stabilirsi a Montecassino. Alcuni hanno spiegato questo trasferimento come una fuga davanti agli intrighi di un invidioso ecclesiastico locale. Ma questo tentativo di spiegazione si è rivelato poco convincente, giacché la morte improvvisa di lui non indusse Benedetto a ritornare (II Dial. 8). In realtà, questa decisione gli si impose perché era entrato in una nuova fase della sua maturazione interiore e della sua esperienza monastica. Secondo Gregorio Magno, l’esodo dalla remota valle dell’Anio verso il Monte Cassio – un’altura che, dominando la vasta pianura circostante, è visibile da lontano – riveste un carattere simbolico: la vita monastica nel nascondimento ha una sua ragion d’essere, ma un monastero ha anche una sua finalità pubblica nella vita della Chiesa e della società, deve dare visibilità alla fede come forza di vita. Di fatto, quando, il 21 marzo 547, Benedetto concluse la sua vita terrena, lasciò con la sua Regola e con la famiglia benedettina da lui fondata un patrimonio che ha portato nei secoli trascorsi e porta tuttora frutto in tutto il mondo. 
Nell’intero secondo libro dei Dialoghi Gregorio ci illustra come la vita di san Benedetto fosse immersa in un’atmosfera di preghiera, fondamento portante della sua esistenza. Senza preghiera non c’è esperienza di Dio. Ma la spiritualità di Benedetto non era un’interiorità fuori dalla realtà. Nell’inquietudine e nella confusione del suo tempo, egli viveva sotto lo sguardo di Dio e proprio così non perse mai di vista i doveri della vita quotidiana e l’uomo con i suoi bisogni concreti. Vedendo Dio capì la realtà dell’uomo e la sua missione. Nella sua Regola egli qualifica la vita monastica “una scuola del servizio del Signore” (Prol. 45) e chiede ai suoi monaci che “all’Opera di Dio [cioè all’Ufficio Divino o alla Liturgia delle Ore] non si anteponga nulla” (43,3). Sottolinea, però, che la preghiera è in primo luogo un atto di ascolto (Prol. 9-11), che deve poi tradursi nell’azione concreta. “Il Signore attende che noi rispondiamo ogni giorno coi fatti ai suoi santi insegnamenti”, egli afferma (Prol. 35). Così la vita del monaco diventa una simbiosi feconda tra azione e contemplazione “affinché in tutto venga glorificato Dio” (57,9). In contrasto con una autorealizzazione facile ed egocentrica, oggi spesso esaltata, l’impegno primo ed irrinunciabile del discepolo di san Benedetto è la sincera ricerca di Dio (58,7) sulla via tracciata dal Cristo umile ed obbediente (5,13), all’amore del quale egli non deve anteporre alcunché (4,21; 72,11) e proprio così, nel servizio dell’altro, diventa uomo del servizio e della pace. Nell’esercizio dell’obbedienza posta in atto con una fede animata dall’amore (5,2), il monaco conquista l’umiltà (5,1), alla quale la Regola dedica un intero capitolo (7). In questo modo l’uomo diventa sempre più conforme a Cristo e raggiunge la vera autorealizzazione come creatura ad immagine e somiglianza di Dio.
All’obbedienza del discepolo deve corrispondere la saggezza dell’Abate, che nel monastero tiene “le veci di Cristo” (2,2; 63,13). La sua figura, delineata soprattutto nel secondo capitolo della Regola, con un profilo di spirituale bellezza e di esigente impegno, può essere considerata come un autoritratto di Benedetto, poiché – come scrive Gregorio Magno – “il Santo non poté in alcun modo insegnare diversamente da come visse” (Dial. II, 36). L’Abate deve essere insieme un tenero padre e anche un severo maestro (2,24), un vero educatore. Inflessibile contro i vizi, è però chiamato soprattutto ad imitare la tenerezza del Buon Pastore (27,8), ad “aiutare piuttosto che a dominare” (64,8), ad “accentuare più con i fatti che con le parole tutto ciò che è buono e santo” e ad “illustrare i divini comandamenti col suo esempio” (2,12). Per essere in grado di decidere responsabilmente, anche l’Abate deve essere uno che ascolta “il consiglio dei fratelli” (3,2), perché “spesso Dio rivela al più giovane la soluzione migliore” (3,3). Questa disposizione rende sorprendentemente moderna una Regola scritta quasi quindici secoli fa! Un uomo di responsabilità pubblica, e anche in piccoli ambiti, deve sempre essere anche un uomo che sa ascoltare e sa imparare da quanto ascolta. 
Benedetto qualifica la Regola come “minima, tracciata solo per l’inizio” (73,8); in realtà però essa offre indicazioni utili non solo ai monaci, ma anche a tutti coloro che cercano una guida nel loro cammino verso Dio. Per la sua misura, la sua umanità e il suo sobrio discernimento tra l’essenziale e il secondario nella vita spirituale, essa ha potuto mantenere la sua forza illuminante fino ad oggi. Paolo VI, proclamando nel 24 ottobre 1964  san Benedetto Patrono d’Europa, intese riconoscere l’opera meravigliosa svolta dal Santo mediante la Regola per la formazione della civiltà e della cultura europea. Oggi l’Europa – uscita appena da un secolo profondamente ferito da due guerre mondiali e dopo il crollo delle grandi ideologie rivelatesi come tragiche utopie – è alla ricerca della propria identità. Per creare un’unità nuova e duratura, sono certo importanti gli strumenti politici, economici e giuridici, ma occorre anche suscitare un rinnovamento etico e spirituale che attinga alle radici cristiane del Continente, altrimenti non si può ricostruire l’Europa. Senza questa linfa vitale, l’uomo resta esposto al pericolo di soccombere all’antica tentazione di volersi redimere da sé – utopia che, in modi diversi, nell’Europa del Novecento ha causato, come ha rilevato il Papa Giovanni Paolo II, “un regresso senza precedenti nella tormentata storia dell’umanità” (Insegnamenti, XIII/1, 1990, p. 58). Cercando il vero progresso, ascoltiamo anche oggi la Regola di san Benedetto come una luce per il nostro cammino. Il grande monaco rimane un vero maestro alla cui scuola possiamo imparare l’arte di vivere l’umanesimo vero.






LA VITA DI SAN BENEDETTO
Testo integrale
tratto dal Libro II° dei "Dialoghi" di San Gregorio Magno

Traduzione del testo latino in Patrologia Latina, LXVI, 125 ss. a cura dei PP. Benedettini di Subiaco.
Pubblicato nella collana "Spiritualità nei secoli" di Città Nuova Editrice - 2000.
Sta in



tratto da

http://www.assisiofm.it/benedetto-di-norcia-patriarca-72092-1.html

Benedetto di Norcia, Patriarca

di Simone Ceccobao
dal n. 2/2015 della Rivista Porziuncola
Quando si vuole studiare l’origine del monachesimo benedettino, ci si imbatte inizialmente in una delusione. Infatti, conosciamo nelle sue linee generali la vicenda di san Benedetto, ma i particolari della sua vita ci sfuggono e, nonostante quello che di lui hanno scritto tanti agiografi, stentiamo a cogliere la sua personalità. Ciò dipende dal fatto che l’unica fonte di informazione, oltre ai trentatré versi scritti su di lui da un suo discepolo di nome Marco, resta il libro II dei Dialogi di papa Gregorio Magno, che però non si era proposto di narrare le vicende terrene del fondatore dei benedettini, ma porre in risalto soprattutto la sua santità a fini di edificazione.
Nacque a Norcia intorno all’anno 480
Sappiamo che Benedetto nacque intorno al 480 a Norcia da una famiglia agiata che, pensando di avviarlo alla carriera amministrativa, gli fece imparare un’educazione cristiana, una solida formazione generale e poi lo mandò a Roma per perfezionare la sua cultura. Qui studiò retorica e diritto, ma non volle prendervi stabile dimora, poiché ben presto decise di fuggire le tentazioni del mondo. Non aveva ancora vent’anni quando la sua vita si orientò su una strada nuova: quella del monachesimo. A partire da questa scelta radicale egli attraversò una serie di esperienze molto diverse. La prima fu di tipo prettamente eremitico. Infatti, dopo essersi stabilito nei pressi del villaggio di Enfida (l’attuale Affile), dove dimoravano degli asceti che intrattenevano sicuramente dei rapporti tra di loro, Benedetto temette che la ricerca della mortificazione più dura, facendo parte di quel gruppo, avrebbe nociuto all’umiltà e allora si trasferì in una grotta poco lontana da Farfa, nei pressi del fiume Aniene dove, a suo tempo, Nerone aveva fatto costruire una villa vicino a tre laghetti. Per questo il luogo era stato denominato Sublaqueum, da cui l’attuale Subiaco. Per tre anni condusse in quel luogo l’esistenza di un anacoreta del deserto, passando le ore nella preghiera e nel lavoro.
Trascorso questo periodo, i religiosi del monastero di Vicovaro, nei pressi di Tivoli, gli chiesero con insistenza di recarsi presso di loro per riformare la loro comunità. Insoddisfatto della vita eremitica, che giudicava un regime di vita arduo e pericoloso, Benedetto accettò l’invito e fece così a Vicovaro la sua prima esperienza di vita cenobitica. Non fu un’esperienza felice, perché, volendo imporre ai monaci un’ascesi troppo esigente, essi si rifiutarono di obbedirgli.
Tornato allora a Subiaco e vedendo accorrere a lui, attratti dalla fama della sua santità, numerosi discepoli, volle dar loro un’organizzazione. Perciò li suddivise in piccoli gruppi, sperimentando con loro una forma, per così dire, mitigata di eremitismo e di cenobitismo. Ma le cose non funzionavano bene e alcuni monaci non furono d’accordo con lui. Allora, verso il 529, Benedetto prese la più importante decisione della sua vita: con alcuni discepoli lasciò Subiaco, incamminandosi verso sud. Si fermò sulla cima scoscesa di Montecassino dove edificò un monastero e due oratori  Lasciata da parte ogni forma di vita eremitica, anche quella meno rigida, Benedetto optò definitivamente per il cenobitismo e, dopo il 530, compose la sua regola. Avendo ormai più di cinquant’anni, e con alle spalle più di trenta di vita monastica, era ormai in grado di consigliare nel modo migliore quanti sentivano la vocazione alla fuga mundi e, proprio avvalendosi di quanto aveva appreso nelle sue diverse esperienze, di individuare la scelta più prudente. I discepoli affluiti a Montecassino divennero presto tanto numerosi, che alcuni di loro furono inviati a fondare un monastero nella vicina città di Terracina. Inoltre, intorno all’abbazia cassinese convennero anche delle donne, alla cui guida Benedetto pose la sorella Scolastica. Il santo poi riformò la comunità di Subiaco, dirigendo tutti i monasteri da lui fondati con grande sollecitudine. La morte lo colse nel 547 e il suo corpo fu sepolto nella chiesa di san Giovanni Battista.


La regola benedettina
La regola benedettina venne composta dopo il 530 ma il lavoro di limatura del testo durò praticamente fino a che il santo fu in vita.. Leggendola balzano subito agli occhi i suoi pregi: equilibrio, saggezza, spirito pratico e, soprattutto, la determinazione a voler «regolare» tutta la vita del monaco e del monastero ponendo attenzione a tutti i particolari della vita quotidiana, alle forme istituzionali e alle prescrizioni relative alla spiritualità e alla pratica delle virtù monastiche. Il testo della regola come tutti i testi normativi medievali, risulta costruito intorno a passi della Sacra Scrittura, talvolta citati direttamente, partendo dalla consapevolezza che la principale norma a cui uniformare la vita per il monaco è la Parola di Dio, mentre l’ideale che deve risplendere dalla comunità monastica è quello della primitiva comunità cristiana descritta in Atti degli Apostoli.
San Benedetto scrive il testo della sua regola strutturandolo in 73 capitoli introdotti da un Prologo per il solo monastero di Montecassino. Il monastero per lui è la Dominici schola servitii (Prol. v. 45), la scuola della vita perfetta istituita da Cristo e dagli apostoli, una comunità di laici intenzionati a imitare Cristo, rivivere la sua vita e così guadagnarsi la salvezza. La comunità di cui l’abate è il capo e il padre, ma è la familia a costituire il monastero. Il cenobio non è un gruppo di discepoli riunito attorno al maestro, che, per il fatto di educarli, di emanare e modificare, se occorre, la regola costituirebbe il fondamento dell’abbazia. È, invece, la compagine di singoli che vogliono unirsi in nome di un’identica vita spirituale; la loro unione è poi confermata dalla presenza di un abate che li guida, tenendo tra loro in ruolo di Cristo, ma la cui funzione non avrebbe più senso se ogni monaco singolarmente e tutti i monaci nel loro insieme non cercassero di conformare la propria vita a quella di Gesù.
Alcune fortissime armi.
Obbedienza, umiltà, preghiera e lavoro costituiscono, saldamente connessi, le basi dello stato monastico. La regola benedettina delinea una spiritualità che ha come primo fondamento l’obbedienza, che, non costituisce solamente l’oggetto di uno dei tre voti solennemente pronunciati dal monaco all’atto della sua professione, ma rappresenta il valore che compagina e struttura tutte le relazioni interne al monastero. Essa è il principio vitale che non solo permette un’ordinata vita all’interno del cenobio, ma la virtù che assimila il monaco a Gesù obbediente al Padre e la comunità monastica alla primitiva comunità cristiana guidata dagli apostoli.
Mirabilmente Benedetto esordisce nel Prologo: «Le mie parole si rivolgono a te…che rinunziando alla propria volontà per diventare soldato di Cristo Signore e vero re, prendi le armi fortissime e gloriose dell’obbedienza» (Prol. v. 3). Tale obbedienza deve essere sine mora, senza indugio, animata cioè dalla consapevolezza che «l’obbedienza che si presta ai superiori si presta a Dio» (capitolo V). Dall’obbedienza deriva l’essenziale virtù dell’umiltà, alla quale Benedetto riserva l’intero capitolo VII, una sorta di trattato di teologia spirituale strutturato ascensionalmente in dodici gradini attraverso i quali il monaco, attraverso la rinuncia alla propria volontà, la sottomissione all’abate e la fiduciosa accoglienza delle contrarietà della vita, «arriverà subito a quell’amore di Dio che, perfetto com’è, scaccia via ogni timore». Solo da un cuore umile scaturisce la preghiera, alla quale Benedetto riserva i capitoli VIII-XX. La preghiera monastica consta della pratica della lectio divina (la lettura meditata della Sacra Scrittura) e della recita dell’Ufficio divino (opus Dei), vale a dire la celebrazione in comune di tutte le ore liturgiche.
Una parte considerevole della vita del monaco è dedicata al lavoro manuale (capitolo XLVIII): «Se le esigenze del luogo la povertà richiedono che essi si occupino personalmente di raccogliere le messi, non se ne affliggano, giacché allora sono veramente monaci, se vivono del lavoro delle proprie mani, come i nostri padri e gli apostoli». Il lavoro è visto come antidoto efficace ai principali veleni dell’anima: l’accidia, l’ozio, il parlare vano. La storia dell’ordine benedettino si associa a mirabili opere architettoniche, di bonifica di terreni strappati alla palude e resi coltivabili, all’opera di copiatura e riproduzione di testi attraverso quelle fucine di cultura che erano gli scriptoria. In ragione di ciò, quando si parla di radici cristiane dell’Europa, una menzione di merito va ascritta proprio all’opera svolta dall’Ordine di san Benedetto.










Santo Leone Vescovo e Martire a Roma probabilmente per mano degli eretici ariani

Tratto da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/45300
l solo cod. Bernense del Martirologio Geronimiano lo ricorda il 14 marzo; alla stessa data fu inserito nel Martirologio Romano per decreto della S. Congregazione dei Riti nel 1871, dopo che erano stati trovati alcuni frammenti del suo epitafio, già conosciuto per mezzo della Silloge Lauresbamense. Dal Liber Pontificalis, poi, apprendiamo che il suo sepolcro si trovava nella basilichetta dedicata a s. Stefano dal papa Simplicio (468-83) e che sorgeva in agro Verano accanto a quella di S. Lorenzo.
L'iscrizione però, probabilmente dettata dallo stesso Leone, non autorizza a ritenerlo un martire poiché in essa si dice che egli, ancora pagano, preparò, con i frutti del suo lavoro e per vanità mondana, tutto ciò che stava presso il suo sepolcro; piú tardi disprezzando le ricchezze preferí seguire il Cristo e da quel momento ebbe a cuore di vestire gli ignudi e distribuire ai poveri le sue rendite annuali; in seguito si ascrisse tra il clero e meritò anche di essere fatto vescovo; morí ad oltre ottant'anni e fu sepolto il 14 marzo.
Il De Rossi, indotto dal dodicesimo verso dell'iscrizione in cui si legge "invidia infelix tandem compressa quiescet", ritenne Leone un martire autentico, poiché credette di vedervi un'allusione a persecuzioni ariane


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