Santo
Audentius senatore a Milano(verso il 435)
Attraverso il testo della vita di San Giulio, l’evangelizzatore delle terre novaresi sepolto nell’omonima isola al centro del lago d’Orta. La tradizione narra di Audenzio, un nobile senatore romano originario della città di Milano, che si recò a far visita a Giulio sull’isola. Per la santità di Giulio Audenzio restò con lui dando anche u fattivo sostegno economico all’attività pastorale missionaria di San Giulio.Si sviluppò cosi un’amicizia spirituale profonda che spinse Giulio a suggerire ad Audenzio di farsi seppellire accanto a lui. Il giovane nobile rispose di aver già preparato il suo sepolcro nella sua città ma, al momento della sua morte, i familiari ne trasportarono il corpo sull’isola dove nel frattempo era succeduto a Giulio il sacerdote Elia. Egli depose il corpo di Audenzio accanto a quello del santo, venendo ben presto anch’egli venerato come tale: in suo onore venne dedicata una chiesa a Pettenasco, centro sulla sponda orientale del lago a poca distanza dall’isola stessa. Sant’Audenzio ancora oggi è contitolare, con Santa Caterina di Alessandria, della parrocchia di Pettenasco; la sua commemorazione è riportata dagli antichi calendari al 25 o 26 novembre.
San Siricio, papa di Roma , che si addormentò nel 399.
Tratto
da
http://www.treccani.it/enciclopedia/santo-siricio_(Enciclopedia-dei-Papi)/
Nacque
a Roma il padre si chiamava Tiburzio. Siricio successe a Damaso poco dopo la morte di questi
avvenuta l'11 dicembre 384, e il suo pontificato durò quindici anni. Fonte
importante della sua biografia è l'epitaffio per la sua sepoltura, che permette
di aggiungere qualche notizia relativa agli anni precedenti il pontificato:
"Liberium lector mox et levita secutus, / post Damasum, clarus totos quos
vixit annos, / fonte sacro magnus meruit sedere sacerdos, / cunctus ut populus
pacem tunc soli clamaret. / Hic pius, hic iustus felicia tempora fecit; /
defensor magnus, multos ut nobiles ausus / regi subtraheret ecclesiae aula
defendens; / misericors, largus, meruit per saecula nomen. / Ter quinos populum
qui rexit in annos amore. / Nunc requiem sentit, caelestia regna potitus"
(Inscriptiones Christianae urbis Romae septimo saeculo antiquiores, a cura di
G.B. de Rossi, II, Romae 1888, p. 102). Da questo testo si apprende che era stato lettore e diacono sotto il
pontificato di Liberio. Il quarto verso dell'epitaffio, con il riferimento al
desiderio di pace da parte della popolazione di Roma, sembra alludere a
riflussi di turbamenti, al momento della vacanza dopo la morte di Damaso, da
parte dei seguaci di Ursino. Questi, dopo la morte di papa Liberio, era stato
eletto da un gruppo di presbiteri e diaconi, mentre altri avevano eletto
Damaso. Lo scisma si era consumato tra lotte sanguinose delle opposte fazioni,
a cui aveva posto fine l'intervento delle forze pubbliche e l'esilio di Ursino
e dei suoi seguaci. Durante il pontificato di Damaso, tuttavia, il problema
degli ursiniani era riemerso a più riprese e non era del tutto sopito al
momento dell'elezione di Siricio. Dello svolgimento dei fatti in questa
occasione è conservato il rapporto del prefetto della città, il cristiano
Piniano, a Valentiniano II e la risposta dell'imperatore (Collectio Avellana 4,
a cura di O. Guenther, Pragae-Vindobonae-Lipsiae 1895 [Corpus Scriptorum
Ecclesiasticorum Latinorum 35, 1], p. 47); da tali documenti si ricava che
l'elezione del nuovo papa avvenne all'unanimità ma che in realtà vi fu un certo
movimento a favore di Ursino, ma di scarsa entità dal momento che non fu
necessario l'intervento del prefetto. Un'espressione di Girolamo ("Omnium
paene iudicio dignus summo sacerdotio decernebar", ep. 45, 3) lascia
intendere che egli considerava auspicata da molti una propria candidatura; ma
tali parole sono l'unico riferimento a una tale eventualità. Egli presto lasciò
Roma per il suo ritiro a Betlemme e non si ha testimonianza di alcun suo
successivo rapporto con Siricio. Più tardi, tra il 397 e il 398, quando si
consumò la rottura tra Girolamo e Rufino e questi rientrò in Italia dalla
Palestina, Siricio evitò di entrare
nella disputa che divideva i due personaggi e gli ambienti ascetici romani: la
controversia origenista esplose negli anni seguenti, sotto il pontificato di
Anastasio. Nel dicembre del 384, Imerio vescovo di Tarragona si era rivolto a
papa Damaso, ignorandone la morte. La lettera del vescovo spagnolo non è
conservata; la risposta, da parte del nuovo papa, è datata 2 febbraio 385 ed è
un documento importante per il carattere ad esso conferito da Siricio ., di
disposizioni da applicare in tutte le Chiese. Questa lettera infatti è entrata
a far parte delle raccolte canoniche, e viene considerata del genere delle
decretali, intendendo con tale termine le lettere papali con valore di normativa per la Chiesa
universale o per le Chiese di vasti territori. La lettera a Imerio (P.L., XIII,
coll. 1131-47) espone direttive su quindici argomenti di carattere
disciplinare: la reiterazione del battesimo agli eretici; i giorni in cui
amministrare il battesimo; la separazione degli apostati; la disciplina del
matrimonio; la riconciliazione dei penitenti; i provvedimenti nei riguardi di
monaci e monache inosservanti; le regole da osservare riguardo alla continenza
dei chierici; le norme per l'ammissione agli ordini sacri; l'età per
l'ammissione al sacerdozio; l'ordinazione di uomini di età avanzata; il divieto
delle seconde nozze per i chierici; le norme per l'abitazione di donne in casa
dei chierici; l'ordinazione di monaci; la non sottomissione dei chierici alla
disciplina penitenziale; le situazioni che precludono l'ordinazione. Le
questioni affrontate nella risposta del papa al vescovo di Tarragona lasciano
intravedere difficoltà più o meno recenti nelle Chiese della penisola iberica.
Alcuni problemi possono essere posti in relazione a pratiche dei circoli legati
a Priscilliano, all'indomani della fine cruenta del deposto vescovo di Avila (384
o 385): a tali ambienti possono riferirsi in particolare le disposizioni che
riguardano la disciplina della vita monastica e alcune specifiche norme per la
vita dei chierici; ma per altre preoccupazioni presumibilmente esposte dal
vescovo spagnolo bisogna risalire a questioni riconducibili a eresie
precedenti. La prima risposta di Siricio . riguarda il problema se la
riammissione degli eretici di matrice ariana debba avvenire mediante la
reiterazione del battesimo, ed è decisamente negativa sulla base di Efesini 4,
5 e dei canoni del concilio di Nicea È
stato supposto che in Spagna l'intransigenza a tale riguardo potesse essere
rappresentata da gruppi oltranzisti antiariani (Gregorio di Elvira morì dopo il
392). L'intransigenza riguardo alla riammissione, mediante la penitenza, di
apostati e peccatori di fornicazione, va ricondotta ad ambienti in cui
persisteva il rigorismo dei discepoli di Novaziano, probabilmente rinfocolato
dall'intransigenza, anche riguardo alla penitenza, di Lucifero di Cagliari e di
Gregorio di Elvira. Di tali ambienti fornisce attestazione Paciano di Barcellona
intorno al 377 (ep. 3, Contra Tractatus Novatianorum, in P.L., XIII, coll.
1063-82). Più in generale, le preoccupazioni del vescovo Imerio dimostravano la
difficoltà a trovare una linea unitaria da parte dei vescovi iberici nei
riguardi della disciplina penitenziale, nel regolare la vita monastica e dei
chierici, nel porre ordine nella liturgia. Il medesimo ambiente era quello da
cui erano emerse le aspirazioni, da parte di Priscilliano, di porsi come
restauratore e riformatore, e probabilmente la sua fine aveva rinfocolato le
polemiche accentuando la confusione tanto da spingere Imerio a rivolgersi a
Roma. La risposta di Siricio ., oltre a richiamare il canone 8 del concilio di
Nicea, si rifà alle disposizioni di papa Liberio ed espone la disciplina romana
che, sin dai tempi di papa Stefano, praticava la riammissione degli eretici e
degli scismatici non reiterando il battesimo, ma per mezzo dell'assoluzione
mediante l'imposizione delle mani (cfr. ep. 1, 2, ibid., col. 1133B). Anche
riguardo a coloro che rinnegano la fede (apostati) e tornano agli idoli,
l'indicazione di Siricio . è conforme alla prassi romana: essi vanno sì
separati dal corpo ecclesiale (concilio di Elvira, canone 1), ma se si pentono
devono rimanere nella condizione di penitenti durante tutto il tempo della loro
vita, per essere riconciliati alla fine della vita perché il Signore non vuole
la morte del peccatore ma la sua conversione (cfr. Ezechiele 18, 23; ep. 1, 3,
in P.L., XIII, col. 1136A). È da notare che la citazione del profeta Ezechiele
era divenuta tradizionale a Roma nelle argomentazioni contro l'intransigenza
dei novaziani. Molta importanza è attribuita da Siricio. ai tempi in cui
amministrare il battesimo, che vengono fissati, secondo la tradizione più
antica, a Pasqua e a Pentecoste considerando invece grave disordine e
confusione la scelta di altri giorni, quali il Natale, l'Epifania o varie feste
di martiri. A tale proposito S. richiama con forza l'autorità della sede
petrina "sulla quale Cristo costruì la Chiesa universale" (ep. 1, 2,
in P.L., XIII, coll. 1155B-56A). La prassi suggerita da Siricio . è tuttavia
molto severa nei confronti di coloro che, sottoposti a penitenza per gravi
peccati, incorrono nuovamente negli stessi, "tam canes et sues ad vomitus
pristinos". Questi peccatori recidivi dovranno rimanere nella condizione
di penitenti per tutta la vita e solo in punto di morte potranno ricevere il
viatico (ep. 1, 5, ibid., col. 1137B). Altrettanto severa è la normativa per
monaci e monache che vengono meno ai loro obblighi: Siricio . ricorda che anche
le leggi dello Stato li condannano, alludendo forse alla disposizione del
codice teodosiano contro il matrimonio delle vergini consacrate (Codex
Theodosianus IX, 25, 2), e prescrive la reclusione a vita nelle loro celle,
concedendo la comunione solo in punto di morte (ep. 1, 6, in P.L., XIII, col.
1137C). Particolarmente ampia è la trattazione sull'obbligo della continenza
per i chierici (ep. 1, 7, ibid., coll. 1138A-41A) che si pone in continuità con
la linea damasiana e sembra inoltre riflettere dibattiti romani dell'epoca, in
cui da parte di chi si opponeva a quest'obbligo si faceva ricorso all'esempio
dei patriarchi veterotestamentari. La disciplina enunciata da Siricio . prevede
che, solo in caso di infrazione della regola a causa di ignoranza, coloro che
hanno mancato possono rimanere nel loro stato, ma non sarà loro concesso di
avanzare negli ordini e nei relativi privilegi; chi incorrerà in abusi non
osservando questa limitazione sarà espulso senza mezzi termini. A partire da
queste disposizioni, la lettera di Siricio. sembra cogliere l'occasione per
stabilire una normativa organica riguardo al conferimento degli ordini (ep. 1,
8-10, ibid., coll. 1141-43): non possono essere ordinati presbiteri o diaconi
coloro che hanno contratto matrimonio più di una volta; l'aspirante chierico
che sia sposato una sola volta e con una donna al suo primo matrimonio, fino
all'età di trent'anni può divenire solo accolito e suddiacono; se accetta
dall'inizio la norma della continenza, può essere ordinato presbitero dopo
cinque anni e vescovo dopo dieci. Per chi aspira agli ordini in età alquanto
tardiva, dovranno essere trascorsi due anni dal battesimo per iniziare il
percorso clericale con le funzioni di lettore o di esorcista; in seguito
dovranno trascorrere cinque anni per accedere all'ordine degli accoliti e dei
suddiaconi e quindi, se giudicato degno, al diaconato. Se col passare del tempo
apparirà integerrimo al clero e al popolo, potrà essere ordinato presbitero e
vescovo (ep. 1, 10, ibid., coll. 1143A-B). Di seguito la lettera enuncia: un
ulteriore divieto per le seconde nozze dei chierici e per coabitazioni di donne
nelle case dei chierici, se non in casi di necessità (ep. 1, 11-12, ibid., col.
1144A); indicazioni sull'accesso agli ordini sacri da parte dei monaci; il
divieto di accettare i penitenti nel clero e di sottoporre i chierici alla
penitenza (ep. 1, 13-14, ibid., coll. 1144-45). L'epilogo è di grande
solennità: ricapitola i punti essenziali degli impedimenti all'accesso al
sacerdozio e ne estende l'obbligo dell'osservanza ai vescovi di tutte le
province: coloro che procederanno in modo contrario "ai canoni e agli
interdetti" prospettati nella lettera dovranno attendersi una congrua
sentenza da parte della Sede apostolica (ep. 1, 15, ibid., coll. 1145B-46A). A
Imerio viene affidato l'incarico di informare la sua diocesi e i vescovi
limitrofi, e inoltre quelli delle province cartaginese, betica, lusitana,
galiziana (ibid., coll. 1146A-B). La lettera si chiude con un sigillo di
autorità: "quatenus et quae a nobis non inconsulte, sed provide sub nimia
cautela et deliberatione sunt salubriter constituta, intemerata permaneant, et
omnibus in posterum excusationibus aditus, qui iam nulli apud nos patere poterit, obstruatur" (ibid.,
coll. 1146B-47A). È stato osservato come la composizione, lo stile e la
terminologia della lettera a Imerio sostengano il livello di autorità che essa
intende esprimere: il proemio non è dissimile nell'impianto da quello di un
rescritto imperiale; ogni questione viene rapportata alla necessità di una
normativa e riceve un giudizio e una sentenza; alla fine vengono proclamate,
come in un editto, le formule di promulgazione e di applicazione. Tutto però è
posto sotto il principio di autorità dichiarato all'inizio: il successore di
Pietro porta il carico di tutti coloro che hanno problemi ("portamus onera
omnium qui gravantur"), anzi è lo stesso apostolo Pietro che, nella
persona del suo successore, protegge e difende la sua eredità (ep. 1, proemio,
ibid., col. 1133A). Il documento si impose anche per la sua sapiente
composizione: costituiva un agile e comodo compendio di norme e come tale entrò
in gran numero di collezioni canoniche, a cominciare dalla più antica raccolta
romana, la Prisca, che lo pone dopo i decreti di Nicea (cfr. F. Maassen,
Geschichte der Quellen, p. 528). Un altro importante documento di S., di
carattere normativo, è l'epistola 5 (in Concilia Africae a. 345-a. 525, a cura
di Ch. Munier, Turnholti 1974 [Corpus Christianorum Series Latina, 149], pp.
59-63; P.L., XIII, coll. 1156-62). La lettera è conservata nelle raccolte
africane, tra gli atti del concilio tenuto a Telepta il 24 febbraio 418, dove
fu letta dai legati della sede di Cartagine (cfr. Concilia Africae, p. 54). Ma
alla sua origine la lettera è principalmente diretta alle Chiese d'Italia e fa
riferimento a un sinodo riunitosi a Roma il 6 gennaio 386. Siricio dice nella lettera che l'assemblea era
composta di ben ottanta vescovi, e sottolinea l'importanza dell'evento che
venne celebrato solennemente in S. Pietro. Le difficoltà del momento storico
spiegano il significato di questo sinodo. A Milano , l'imperatrice Giustina,
madre di Valentiniano II, appoggiava il riemergere di alcuni fermenti ariani;
Ambrogio opponeva la sua resistenza, coinvolgendo la popolazione: è della
primavera 385 l'occupazione della basilica Porziana. L'episcopato italiano si
poneva certamente interrogativi riguardo alla piega che avrebbe preso la
politica religiosa imperiale. Alcuni giorni dopo il sinodo romano, il 23
gennaio 386, venne promulgata una legge favorevole a coloro che si rifacevano
alla professione di fede omea (il Figlio è solo simile al Padre) di Rimini (360);
nei mesi precedenti si era venuto a sapere della preparazione di questa legge e
le preoccupazioni si erano accentuate. In tale contesto è da collocare il
sinodo di Roma, delle cui disposizioni l'epistola 5 di S. costituisce la
promulgazione. La normativa è di carattere disciplinare ed è preceduta da un
solenne proemio in cui il papa ne sottolinea l'importanza per l'unità della
Chiesa che, sulla base di Efesini 5, 27, deve essere "senza macchia né
ruga" e porsi in fedele continuità con la tradizione (cfr. 2 Tessalonicesi
2, 15). La normativa è espressa poi in otto formule stringate riguardanti le
ordinazioni dei vescovi e dei chierici, cui fa seguito una parte più ampia e
articolata sulla continenza dei membri del clero. Due sono i principi che
reggono questa scarna sintesi di norme che mira alla compattezza
dell'organizzazione gerarchica della Chiesa: l'uno afferma il principio di
autorità secondo cui nessun vescovo deve essere ordinato all'insaputa del papa
("Primum, ut extra conscientiam sedis apostolicae, nemo audeat
ordinare": P.L., XIII, col. 1157A); l'altro esprime la convinzione che una
disciplina saldamente organizzata e osservata è garanzia contro l'emergere di
eresie e scismi. L'enunciazione di questo fondamento, espresso nella
conclusione della lettera, assume i toni della parenesi: "Se queste cose,
fratelli, saranno osservate da tutti con piena vigilanza, avrà fine
l'ambizione, si placherà la discordia, non emergeranno eresie e scismi, il
demonio non avrà spazio per le sue trame, persisterà la concordia, sarà
superata e calpestata l'iniquità, la carità sarà infiammata di fervore spirituale,
la pace predicata con le labbra concorderà con la volontà. Dovunque sarà la
pace del nostro Dio, che a noi è stato comandato di conservare dal Salvatore in
persona, prima della sua passione" (cfr. Giovanni 14, 27; ep. 5, 4, in
P.L., XIII, col. 1161B). La lettera successiva (ep. 6, in P.L., XIII, coll.
1164-66), conservata solo nelle raccolte ispaniche, è probabilmente
un'espressione diversificata delle norme del sinodo del 386, ed è destinata ai
vescovi delle province italiane. Si apre con una formula lapidaria che
giustifica l'intervento del papa: "Siricio ecclesiarum omnium cura",
ed è strutturata in modo analogo alla precedente: un lungo solenne esordio
ricco di citazioni scritturistiche; il corpo della lettera in cui vengono
riprese le norme riguardanti principalmente i criteri per l'ordinazione del
clero; la conclusione che caratterizza la natura del documento come un monito,
ed esorta alla concordia e all'unione nella tradizione; una breve professione
di fede trinitaria conclude l'esortazione. L'elemento peculiare della normativa
espressa in questo documento è l'insistenza sulla prescrizione che non si
proceda all'ordinazione di neofiti o laici, cioè di persone che non si siano
prima dedicate per un certo tempo al servizio della Chiesa (ep. 6, 5, 3, ibid.,
col. 1166A). È da osservare che, se il papa rivendicava a sé perlomeno la
conoscenza previa delle nomine episcopali, in quegli anni sulla fisionomia
dell'episcopato in molte regioni influì ampiamente il prestigio di Ambrogio di
Milano. Furono legati in diversi modi ad Ambrogio, Vigilio di Trento Felice di
Como, Gaudenzio di Brescia, Profuturo di Pavia; numerose Chiese, da Aquileia
fino a Bologna, e verso Occidente fino alle province alpine, richiesero il
supporto o l'intervento del vescovo di Milano o ricevettero personaggi che lo
rappresentavano. All'avvento di Siricio . al pontificato, alla fine del 384, la
Gallia era sottoposta da alcuni mesi all'uccisore dell'imperatore Graziano,
Massimo, che aveva posto la capitale a Treviri e che, nei primi anni del suo
impero, intese porsi come difensore dell'ortodossia con il processo a
Priscilliano, seguito dalla condanna e dall'esecuzione del vescovo spagnolo.
Questi fatti furono accompagnati e seguiti da giudizi e persecuzioni nei
confronti dei priscillianisti, che ebbero luogo sia da parte di vescovi che da
parte di funzionari imperiali, senza segni di rapporti con Roma. Tra la fine
del 386 e l'inizio del 387, tuttavia, in data non lontana dall'esecuzione di
Priscilliano, si può dedurre che il papa scrisse all'imperatore, dal momento
che si conserva la risposta di quest'ultimo (Collectio Avellana, pp. 90-1;
P.L., XIII, coll. 591-92), che insiste sulla regolarità del processo a
Priscilliano, cerca di delegare ai vescovi la soluzione del caso di una ordinazione
irregolare e, in linea generale, si pone come difensore degli interessi della
Chiesa. L'esatto tenore della lettera del papa non può essere desunto; essa va
tuttavia registrata come un intervento che chiede conto di una così autonoma
gestione di affari ecclesiastici. Negli anni successivi fu ancora il prestigio
di Ambrogio di Milano a indirizzare le Chiese della Gallia prima e dopo la fine
di Massimo nel 388. L'influsso del vescovo di Milano si estese fino a Grenoble Marsiglia Orange , Lione: i vescovi di queste
ultime tre Chiese, Procolo, Costanzo e Giusto, avevano partecipato al concilio
di Aquileia del 381; Costanzo di Orange fu presente anche al concilio di Milano
del 391; Procolo di Marsiglia a quello di Torino Quest'ultimo concilio fu convocato nel 398 da
Simpliciano, successore di Ambrogio, su richiesta dell'episcopato della Gallia,
e affrontò diverse situazioni di contrasto tra quei vescovi non ancora
solidamente stabiliti in una organizzazione metropolitana; inoltre,
richiamandosi alle prese di posizione di Ambrogio a proposito del procedimento
contro Priscilliano (cfr. Ambrogio, ep. 24, 12), il concilio di Torino
scomunicò Felice, il vescovo di Treviri che aveva fiancheggiato l'imperatore
Massimo nella vicenda. Il canone 6 del concilio di Torino (Concilia Africae,
pp. 54-60) fa anche riferimento a uno scritto di Siricio . che avrebbe
pronunciato la scomunica per Felice. All'epoca di Siricio ., la situazione
amministrativa dell'Illirico, soprattutto quella delle diocesi della Macedonia
e della Dacia, oscillava tra la dipendenza da Milano e quella da Costantinopoli
Nel 387, probabilmente, l'Illirico
costituiva una prefettura distinta dall'Occidente e legata all'Oriente; nel 386
invece, apparteneva alla prefettura d'Italia. Queste oscillazioni sono legate
alle vicende politiche occidentali di quegli anni, ma anche nei momenti di
prevalenza dell'influsso orientale il contatto dell'Occidente con l'Illirico
non venne mai meno: nel 387, Valentiniano II, dopo la discesa di Massimo in
Italia, si stabilì a Tessalonica Quando
Teodosio, l'anno successivo, vinto Massimo riunificò l'Impero, la questione
della suddivisione delle diocesi divenne meno importante. Alla sua morte, nel
395, le diocesi di Dacia e Macedonia restarono praticamente sotto l'influsso
dell'Oriente, ma l'Occidente non rinunciò a far valere i suoi diritti:
Stilicone, nello stesso anno, invase la Pannonia e la Dalmazia successivamente la Macedonia e la Tessaglia e minacciò la Tracia. Ma furono vittorie che
ben presto cedettero il passo alle trattative con l'Oriente che riottenne il
controllo sull'Illirico orientale. Durante questi anni, il vescovo di Roma non
ebbe la possibilità di sviluppare da parte sua la politica iniziata dal
predecessore Damaso nei confronti di quelle regioni. È conservata una breve
lettera di Siricio . al vescovo Anicio di Tessalonica (ep. 4, in P.L., XIII,
coll. 1148-49), la quale parla di un'altra lettera inviata precedentemente e
che non ha avuto risposta. Siricio . mostra di essere stato informato di non
pochi contrasti tra i vescovi di quella regione riguardo alle ordinazioni di
nuovi vescovi, e indica la prassi secondo cui al vescovo di Tessalonica è
affidato il compito della decisione ultima su ciascun candidato all'episcopato.
Questa lettera deve essere stata scritta dopo il 386, dal momento che in
quell'anno Siricio ., facendo riferimento alla celebrazione del sinodo romano,
aveva promulgato e diffuso le disposizioni riguardo alle ordinazioni (cfr. epp.
5-6, sopra esaminate): le preoccupazioni per l'Illirico sembrano aver
sollecitato un reiterato intervento. La lettera ad Anicio non è indicativa del
conferimento di quello che sarà più tardi il vicariato del vescovo di
Tessalonica, quanto piuttosto è nello spirito espresso nella lettera , sopra esaminata, dove, come prima
affermazione di principio, viene indicato il criterio che deve guidare le
ordinazioni episcopali, e cioè che nessuno osi procedere a un'ordinazione
"extra conscientiam sedis apostolicae" (ep. 5, 2, 1, in Concilia
Africae, p. 61; P.L., XIII, col. 1157A). La lettera di Siricio . al vescovo di
Tessalonica rappresenta comunque l'affermazione di una nuova autorità
ecclesiastica in Macedonia, e più tardi sarà evocata da Leone Magno (ep. 6, 2,
in P.L., LIV, col. 617) come un precedente del vicariato apostolico. Da parte
del vescovo di Tessalonica non si conosce risposta. Alcuni eventi, qualche anno
dopo la lettera di Siricio ., mostrano come in quel lasso di tempo sia
piuttosto Ambrogio il vescovo a cui dall'Illirico si fa ricorso per richiesta
di sostegno e di consiglio. Del caso di Bonoso, vescovo di Serdica , si è
principalmente informati da un'altra lettera conservata sotto il nome di S.,
diretta ad Anicio di Tessalonica e agli altri vescovi dell'Illirico (ep. 9,
ibid., XIII, coll. 1176-78). Ma la lettera figura come epistola 56/a
dell'epistolario di Ambrogio, ed è da attribuire al vescovo di Milano. Bonoso
era stato accusato di negare la verginità perpetua di Maria, forse in relazione
a una cristologia di stampo adozionista. Tra la fine del 391 e l'inizio del
392, venne convocato un sinodo, con l'assenso dell'imperatore Teodosio, a Capua,
dove la dottrina di Bonoso venne condannata e dove il ruolo principale venne
svolto da Ambrogio (cfr. epp. 56-56/a). Quanto al caso personale, i padri
sinodali preferirono rimettere la questione ai vescovi limitrofi della diocesi
di Bonoso, e cioè quelli della Macedonia, che erano stati anche i suoi
accusatori e che vennero ritenuti meglio informati sulla situazione locale. In
particolare, la lettera insiste sul ruolo che spetta in questo giudizio ad
Anicio, il vescovo di Tessalonica, a cui viene assegnata una sorta di vicaria
del sinodo ("vicem synodi recepistis": P.L., XIII, col. 1177A).
Bonoso si appellò ad Ambrogio, una volta che i suoi colleghi decretarono per
lui l'allontanamento dalla sua Chiesa; e anche i vescovi macedoni chiesero
consiglio a Milano. La risposta fu estremamente prudente: Ambrogio da una parte
ricusò la sua competenza nella questione, dall'altra invitò Bonoso
all'esercizio della pazienza con l'accettazione dei provvedimenti nei suoi
riguardi. Proprio questo tono della risposta, insieme ad osservazioni sullo
stile, fanno inclinare ad attribuire la lettera ad Ambrogio il quale, con la
prudente risposta, sembra astenersi dall'assumere un ruolo d'autorità che
spettava al vescovo di Roma. L'epistola 7 di S. (ibid., coll. 1168-72) affronta
il problema di Gioviniano. Diretta "ad diversos episcopos", la
lettera ha lo scopo di comunicare la condanna dell'eretico, descritto a fosche
tinte ("pudicitiae adversarius, luxuriae magister"), e dei suoi
seguaci. La lettera è conservata nell'epistolario di Ambrogio (ep. 41/a)
insieme alla risposta del vescovo di Milano (ep. 42). Essa, quindi, fu inviata
a Milano e per tale destinazione Siricio . l'affidò a tre presbiteri in essa
nominati: Crescente, Leopardo e Alessandro. Dalla risposta di Ambrogio si
ricava che Gioviniano si era rifugiato a Milano cercando probabilmente appoggi
negli ambienti di corte. Ambrogio, nella risposta, mostra ogni genere di
rispetto per il vescovo di Roma e assoluto accordo nello smascherare l'eretico
che egli assimila ai manichei. La Chiesa di Roma è la depositaria e la custode
del Credo apostolico; il suo giudizio viene accolto e condiviso (Ambrogio, ep.
42, 1, 14). A Milano è stato anche convocato un sinodo dei vescovi più
facilmente raggiungibili: gli errori di Gioviniano sono stati accuratamente
esaminati e, nella risposta a S., Ambrogio li espone con i dettagli
scritturistici e dottrinali da opporvi. Tutto ciò è da collocare prima della morte
di Valentiniano II, avvenuta il 15 maggio 392; fino alla sua morte, avvenuta
nel 397, Ambrogio fu vigilante nei confronti dei simpatizzanti di Gioviniano,
di cui si conoscono due nomi, i monaci Sarmazio e Barbaziano, attivi a Vercelli
nel 396 (cfr. Ambrogio, ep. 63). Intorno al 394, papa S. venne interpellato
riguardo a una delicata questione che riguardava la Chiesa di Bostra in Siria Il vescovo di quella città durante un'assenza
era stato deposto e sostituito da Agapio, eletto e consacrato in modo alquanto
irregolare. Dopo numerosi contrasti, i due avversari vennero a Roma alla
ricerca del giudizio decisivo da parte del papa. Ma Siricio . demandò la
spinosa questione al patriarca di Alessandria , Teofilo. La notizia è nota
dalla menzione che ne fa papa Pelagio nella sua opera Pro defensione trium
capitulorum (P.L., Supplementum, IV, coll. 1313-69; cap. 2, ibid., coll.
1313-14), ed ha un certo interesse perché può essere collegata con le
contemporanee vicende della Chiesa di Antiochia anche a proposito delle quali papa Siricio sembra avere sostenuto il ruolo del patriarca
di Alessandria (cfr. Severo di Antiochia, ep. 2, 3, in E.W. Brooks, The Sixth
Book of the Select Letters of Severus Patriarch of Antioch, II, London 1969²,
p. 223). Tale ruolo venne riconosciuto in definitiva anche da Ambrogio (ep. 56,
2-5). Teofilo riconobbe come vescovo legittimo di Antiochia Flaviano, che era
stato eletto alla morte di Melezio nel 381, nel contesto del concilio di
Costantinopoli, e ciò rappresentò un avvio alla conclusione dello scisma di
Antiochia. Al tempo di papa Siricio . a Roma vennero ampiamente portati avanti
i lavori per le basiliche di S. Pudenziana e di S. Clemente. Quanto alla prima,
si colloca al tempo di S. la sistemazione dell'interno; sono piuttosto
controverse la data d'inizio del rimaneggiamento della costruzione anteriore e
quella del completamento definitivo della decorazione, che oscillano tuttavia
tra il pontificato di Damaso e quello d'Innocenzo. La basilica utilizza lo
spazio di una grande sala termale che venne riadattata e completata con la
struttura dell'abside e dell'entrata monumentale verso est. I lavori principali
per l'interno della basilica si collocano sotto il pontificato di Siricio .,
tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta. Nel quindicennio successivo,
a spese del presbitero Leopardo, fu portata a termine la decorazione
dell'abside con il mosaico le cui rappresentazioni figurate sono le più antiche
sopravvissute a Roma e presumibilmente tra le prime concepite per una chiesa di
Roma. La figurazione esprime un'ecclesiologia ampiamente strutturata: al centro
è raffigurato Cristo in trono, con manto in oro; ai fianchi sono gli apostoli
togati come senatori romani; alle spalle di Pietro e Paolo, l'uno a destra di
chi guarda, l'altro a sinistra, vi sono due figure femminili che rappresentano
la "ecclesia ex circumcisione" e la "ecclesia ex gentibus"
cioè i cristiani provenienti dal giudaismo e quelli d'origine pagana; lo sfondo
rappresenta il grandioso scenario architettonico di un palazzo imperiale, alle
cui spalle si intravede la città monumentale. Su tutto trionfa, su modulazioni
ispirate al libro dell'Apocalisse, la grande croce gemmata che si staglia nel
cielo dove aleggiano i simboli degli evangelisti. La basilica di S. Clemente si
impianta sul primo piano di una grande "insula , e la sua abside su un
edificio che ospitava un luogo di culto mitraico. Anche per questa basilica i
lavori di riadattamento delle strutture anteriori cominciarono probabilmente
all'epoca di Damaso. I frammenti di un'iscrizione integrata dal de Rossi fanno
riferimento alla dedicazione della basilica a s. Clemente martire, voluta da un
presbitero di cui non resta il nome, durante il pontificato di Siricio. L'edificio
su cui si innesta la basilica risaliva alla seconda metà del III secolo. Nulla
rimane della sistemazione che venne data originariamente all'ingresso e alla
facciata; così pure non si conosce la primitiva strutturazione dell'interno,
dal momento che la struttura sopravvissuta, in quella che attualmente è la
chiesa inferiore, rappresenta un rifacimento posteriore al IV secolo. Anche
nell'ambito dei cimiteri si registrano interventi del tempo di papa Siricio .
in continuità con le opere iniziate sotto Damaso, in particolare nell'area tra
l'Ardeatina e l'Ostiense. La piccola cappella fatta edificare da Damaso in
memoria dei ss. Nereo e Achilleo venne trasformata in una chiesa sotterranea,
di struttura basilicale a tre navate, con abside. All'ingresso si accedeva per
mezzo di una larga scala. La struttura originaria richiese restauri all'epoca
di papa Giovanni I, probabilmente senza alterare in modo decisivo la basilica
primitiva. Documenti epigrafici attestano che l'area cimiteriale circostante
era ancora utilizzata all'inizio del V secolo. Nelle catacombe di Commodilla,
dove Damaso aveva valorizzato la memoria dei ss. Felice e Adautto,
un'iscrizione (Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, II, a cura
di G.B. de Rossi-A. Silvagni, Romae-In Civitate Vaticana 1935, nr. 6017, p.
313) attesta lavori nella cripta al tempo di Siricio. Quanto alle catacombe di
Priscilla, si ha notizia dal Liber pontificalis che Siricio . vi predispose la
sua tomba, la cui localizzazione è però incerta. Il nome di Siricio . è
attestato anche per alcuni lavori di restauro, nelle stesse catacombe,
riguardanti "moenia sanctorum" (Inscriptiones Christianae urbis Romae
septimo saeculo antiquiores, nr. 39, p. 104). S. morì il 26 novembre (giorno in
cui se ne celebra la memoria liturgica) del 399. Fonti e Bibl.: S. Siricii
papae Epistulae et Decreta, in P.L., XIII, coll. 1131-78 (che riproduce
l'edizione di P. Coustant del 1721). Per le raccolte di cui entrarono a far
parte le lettere di Siricio ., la tradizione testuale e le edizioni parziali,
cfr. Clavis Patrum Latinorum, a cura di E. Dekkers, Steenbrugis 1995³, pp.
527-28. Per l'attestazione dell'epistola 6 nella raccolta Hispana, cfr. F.
Maassen, Der Primat des Bischofs von Rom und die alten Patriarchalkirchen, Bonn1853,
pp. 241, 690. Per questioni di autenticità, cfr. F. Di Capua Il ritmo prosaico
nelle lettere dei papi e nei documenti della cancelleria romana dal IV al XIV
sec., II, Roma 1939, pp. 161-79. Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne,
I, Paris 1955², pp. CXL, 216-17. F. Maassen, Geschichte der Quellen und
Literatur des canonischen Rechts, I, Graz1956², p. 528. Studi di carattere
generale: M. Schan, Geschichte der römischen Literatur, IV, 1, München 1914²,
pp. 365, 366; E. Caspar Geschichte des Papsttums, I, Tübingen 1930, pp. 256-85;
G. Bardy, in Storia della Chiesa, a cura di A. Fliche-V. Martin, IV, Torino
1961, §§ 345-47. Dictionnaire de théologie catholique, XIV, 2, Paris 1939,
s.v., coll. 2171-74; V. Monachino, Siricio, in B.S., XI, coll. 1234-37; B.
Studer Siricio, in Patrologia, III, a cura di A. Di Berardino, Torino 1978, pp.
548-49; Dizionario patristico e di antichità cristiane, II, Casale Monferrato 1984,
s.v., col. 3239; Dizionario storico del Papato, a cura di Ph. Levillain, II,
Milano 1996, s.v., pp. 1393-94. Studi su aspetti specifici: i vari aspetti del
pontificato di S., in relazione al contesto storico, sono ampiamente trattati
da Ch. Pietri, Roma Christiana. Recherches sur l'Église de Rome, son
organisation, sa politique, son idéologie de Miltiade à Sixte III (311-440),
I-II, Roma 1976; cfr. in partic., per i caratteri del pontificato: II, pp.
888-909, 967-71, 1045-62, 1070-83, 1282-88; per le costruzioni urbane e le aree
cimiteriali: I, pp. 468-74, 546-51. Sulla presenza di gruppi di opposizione a
Roma al tempo dell'elezione di S.: B. Kötting, Christentum und heidnische
Opposition in Rom am Ende des 4. Jahrhunderts, Münster 1961. Per la disciplina
penitenziale e la normativa sulla vita del clero: P.H. Lafontaine, Remarques
sur le prétendu rigorisme pénitentiel du pape Sirice, "Revue de
l'Université d'Ottawa", 28, 1958, pp. 31-48; Id., Les conditions positives
de l'accession aux ordres dans la première législation ecclésiastique
(300-492), Ottawa 1963; É. Griffe, À propos du canon 33 du Concile d'Elvire,
"Bulletin de Littérature Ecclésiastique", 74, 1973, pp. 142-45; D.
Callam, Clerical Continence in the Fourth Century, "Theological
Studies", 41, 1980, pp. 3-50. Per gli edifici di culto: oltre alle sintesi
di Ch. Pietri, citate sopra, cfr. R. Krautheime-S. Corbett-W. Frankl, Corpus
basilicarum christianarum Romae. Le basiliche paleocristiane di Roma (Sec.
IV-IX), III, Città del Vaticano 1971, pp. 280-305 (basilica di S. Pudenziana);
R. Krautheimer, Roma. Profilo di una città, 312-1308, Roma 1981, pp. 46-7,
56-7; G. Matthiae, Pittura romana del Medioevo. Secoli IV-X, a cura di
M.Andaloro, ivi 1987, pp. 38-42, 217-30.
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