Santa Illuminata vergine martire a Todi nel IV secolo
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http://ordovirginumsicily.blogspot.it/2012/01/la-santa-vergine-consacrata-del-mese-di_18.html
Cesarea, questo il nome prima di ricevere il battesimo, nacque a
Palazzolo presso Ravenna da genitori pagani. A motivo della sua conversione il
padre la denunziò al prefetto di Ravenna il quale l’arrestò trattenendola in
carcere con l’intento di farla abiurare e di sposarla. Tuttavia un angelo la
liberò e la condusse sulla via Salaria; poi la giovane donna continuò il suo
cammino dirigendosi verso Martana, in Umbria, compiendo molti miracoli.
Informato dei fatti il prefetto di Martana la fece arrestare. Intanto
i suoi genitori si erano convertiti e decisero di raggiungere la figlia.
Illuminata ebbe la grazia dal Signore di poter morire insieme ai genitori il 29
novembre del 303. I loro corpi furono sepolti in un luogo detto Bagno di
Papinio, a due miglia dalla città.
La biografia della santa risale intorno al sec. XI e, dato che esistono diverse redazioni in parte più o meno uguali, qualche storico ipotizzò un adattamento della vita delle sante Fotina o Firmina di Amelia o Felicissima di Todi. Ma la diversità del luogo e del giorno del martirio ci orienta a concludere che Santa Illuminata sia realmente esistita. Ne dà testimonianza un documento in cui l'imperatore Corrado II concesse a Lamberto, abate del monastero di S. Apollinare in Classe, la chiesa di Massa Martana, con annesso monastero, eretta, sopra il sepolcro di santa Illuminata « in territorio tudertino monasterium unum cui vocabulum est Sancta Illuminata ».
Dagli Annales Camaldulenses del 1138 risulta che nel suddetto monastero si insediarono i monaci camaldolesi. Nel sec. XIII il monastero fu soppresso e la chiesa passò al Capitolo della cattedrale di Todi. Nel 1800 passò con un contratto di enfiteusi in mano a dei privati divenendo una masseria rurale. Grazie alla famiglia Spina il complesso monumentale oggi è ritornato al suo antico splendore.
Altre chiese dedicate alla santa si trovano ad Alviano-Guardea (TR), a Montefalco e a Montecastello di Vibio (PG).
La biografia della santa risale intorno al sec. XI e, dato che esistono diverse redazioni in parte più o meno uguali, qualche storico ipotizzò un adattamento della vita delle sante Fotina o Firmina di Amelia o Felicissima di Todi. Ma la diversità del luogo e del giorno del martirio ci orienta a concludere che Santa Illuminata sia realmente esistita. Ne dà testimonianza un documento in cui l'imperatore Corrado II concesse a Lamberto, abate del monastero di S. Apollinare in Classe, la chiesa di Massa Martana, con annesso monastero, eretta, sopra il sepolcro di santa Illuminata « in territorio tudertino monasterium unum cui vocabulum est Sancta Illuminata ».
Dagli Annales Camaldulenses del 1138 risulta che nel suddetto monastero si insediarono i monaci camaldolesi. Nel sec. XIII il monastero fu soppresso e la chiesa passò al Capitolo della cattedrale di Todi. Nel 1800 passò con un contratto di enfiteusi in mano a dei privati divenendo una masseria rurale. Grazie alla famiglia Spina il complesso monumentale oggi è ritornato al suo antico splendore.
Altre chiese dedicate alla santa si trovano ad Alviano-Guardea (TR), a Montefalco e a Montecastello di Vibio (PG).
Saint RUF, martyr à Rome sous Dioclétien (vers 304).
San Rufo Martire
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sec. I
Le informazioni sui santi Rufo e Zosimo sono minime. San Policarpo, in una lettera ai cristiani di Filippi parla di loro. Secondo il martirologio romano, Rufo e Zosimo «furono nel numero di quei discepoli, che fondarono la primitiva Chiesa fra Giudei e i Greci». Entrambe le fonti però non permettono di parlare con sicurezza di un loro martirio avvenuto nel I secolo. In un elenco di "discepoli del Signore" festeggiati dalla Chiesa bizantina si trova infatti un "Rufo" che forse s´identifica con il personaggio omonimo citato dal Vangelo di Marco (15,21) e dalla lettera ai Romani di san Paolo (16,13).
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Santo
Gregorio III papa e patriarca di Roma
Siriano di nascita e di studi in medicina confessore della fede
ortodossa contro l’iconoclastia (731-743)
Di
origine siriaca, apparteneva probabilmente a una famiglia giunta a Roma
dall'Oriente a seguito dell'occupazione araba di quelle province dell'Impero
bizantino. Non se ne conosce la data di nascita.
La
biografia di G. III mette in risalto il fatto che egli conosceva sia la lingua
greca sia la latina e loda la sua conoscenza dei salmi e l'attitudine alle
celebrazioni liturgiche. Probabilmente a Roma ottenne la consacrazione a
presbitero, forse del titolo di S. Crisogono, cui dedicò particolari cure
quando divenne papa. La sua elezione sarebbe avvenuta per spontanea iniziativa
della nobiltà e del popolo romano, mentre prestava ossequio al feretro del
predecessore, Gregorio II. Fu consacrato il 18 marzo 731, in un momento in cui
era vivissimo il conflitto con l'imperatore bizantino Leone III per la
questione del culto delle immagini. G. III gli inviò subito un nuovo solenne
ammonimento, che però non giunse a destinazione, perché il presbitero latore
del messaggio non osò compiere la missione e in un primo momento tornò
indietro; quando, minacciato di deposizione dal papa, intraprese finalmente il
viaggio per Costantinopoli, il legato venne trattenuto in Sicilia dai
funzionari imperiali, che gli sequestrarono le lettere papali.
G. III
convocò allora un concilio che ebbe luogo il 1° nov. 731; oltre al clero
romano, vi presero parte il patriarca di Grado Antonino e l'arcivescovo di
Ravenna Giovanni, cioè i più alti prelati delle province bizantine in Italia,
con altri novantatré vescovi provenienti dalle "parti di Esperia", un
termine che nei documenti papali di quegli anni designa genericamente
l'Occidente. Il concilio sanzionò, sembra per la prima volta in modo canonico,
l'ortodossia e l'antichità del culto delle immagini di Cristo, della Vergine e
di tutti gli apostoli e i santi, decretando la scomunica e l'espulsione dalla
Chiesa universale per chiunque avesse distrutto, profanato o insultato le sacre
immagini. Le costituzioni sinodali furono inviate dal papa a Costantinopoli, ma
ancora una volta il messaggero fu arrestato in Sicilia e i documenti
sequestrati, così come furono sequestrate le suppliche inviate da tutte le
popolazioni delle province bizantine in Italia agli imperatori Leone III e
Costantino V suo figlio per chiedere il ristabilimento del culto delle
immagini. Il papa riuscì tuttavia a far pervenire a Costantinopoli lettere
esortatorie che definivano la fede ortodossa e sollecitavano il ristabilimento
delle immagini sacre.
Contemporaneamente
G. III prese un'altra iniziativa di grande significato simbolico, facendo
edificare all'interno della basilica di S. Pietro un oratorio in onore del
Salvatore, della Madre di Dio, di tutti i martiri e i confessori, in cui
istituì un ufficio liturgico perpetuo. Nelle intenzioni del papa la fondazione
doveva essere probabilmente una sorta di santuario del culto dei santi che si
contrapponeva all'empietà dell'imperatore bizantino. G. III fece sanzionare le
disposizioni sulla speciale liturgia di questo santuario, affidata a tre
monasteri collocati presso S. Pietro (Ss. Giovanni e Paolo, S. Stefano
Maggiore, S. Martino), da un sinodo celebrato a Roma il 12 apr. 732, i cui
deliberati furono incisi su tre lastre di marmo collocate all'interno
dell'oratorio. Particolarmente significativa è la circostanza che gli atti del
sinodo non vennero datati con gli anni degli imperatori regnanti, come avrebbe
voluto l'uso protocollare, in quanto esposti alla scomunica.
La
determinazione con cui G. III procedette alla condanna dell'iconoclastia è
nuova rispetto al comportamento del predecessore, Gregorio II, il quale aveva
bensì denunciato il carattere eretico della distruzione delle immagini e
ammonito ripetutamente Leone III a rinunciarvi, senza però giungere alla
scomunica; aveva anzi unito all'opposizione religiosa atti di lealtà politica
nei confronti dell'Impero. L'origine orientale di G. III poté renderlo
particolarmente sensibile agli aspetti religiosi e devozionali della questione;
certo è che promosse il culto delle immagini a Roma anche facendo realizzare
numerose immagini di Cristo, della Vergine e dei santi, spesso rivestite di
metalli preziosi, che pose nelle principali basiliche.
L'esarca
Eutichio, rappresentante del governo imperiale in Italia, che risiedeva a
Ravenna, era privo di reali poteri politici e militari e non prese misure
contro il papa; probabilmente egli era anche vincolato da un accordo, stipulato
con Gregorio II, che riconosceva al papa poteri civili e militari nella città
di Roma e nel suo territorio, il Ducato romano, pur nell'ambito della sovranità
imperiale. All'inizio del pontificato di G. III l'esarca aveva anzi donato al
nuovo papa sei colonne tortili di onice che questi aveva posto davanti alla
confessione di S. Pietro.
Invece
l'imperatore reagì duramente alla presa di posizione papale. Probabilmente alla
fine del 732 inviò in Italia una spedizione navale agli ordini dello stratego
Manes, che però naufragò nell'Adriatico. Allora Leone III risolse di punire
l'opposizione del papa colpendo gli interessi economici ed ecclesiastici della
Chiesa di Roma nei territori su cui l'Impero esercitava ancora l'effettivo
controllo. Nel 732 o 733 confiscò infatti tutte le proprietà della Chiesa
romana in Sicilia e contemporaneamente sottopose alla giurisdizione ecclesiastica
del patriarca di Costantinopoli le province ecclesiastiche di Calabria, Sicilia
e Illirico che fin dall'antichità erano state soggette ai papi. I due
provvedimenti ebbero grandi ripercussioni. Dal punto di vista ecclesiastico la
perdita della giurisdizione sulle province meridionali, cui appartenevano anche
diversi vescovati greci, fece venir meno un importante collegamento del Papato
con la Cristianità di lingua greca, accentuando la sua caratteristica di
patriarcato della Cristianità latina. Dal punto di vista economico, la perdita
dei patrimoni siciliani comportò una significativa riduzione delle entrate del
Papato. Secondo la testimonianza del cronista bizantino Teofane, i patrimoni
siciliani rendevano al Papato 3 talenti e mezzo d'oro l'anno, ossia 350 libbre,
corrispondenti a loro volta a 25.200 soldi d'oro (secondo altre
interpretazioni, la cifra data da Teofane si riferirebbe alle imposte che il
Papato versava all'Impero per le proprietà siciliane, in questo caso il reddito
sarebbe stato superiore di circa due volte). Sebbene non si conosca l'incidenza
percentuale di questa rendita nel complesso delle finanze pontificie (il Papato
possedeva diversi altri patrimoni in regioni fuori dalla portata
dell'imperatore bizantino e nello stesso Ducato romano), la perdita era
sicuramente notevole.
Ciò
nonostante G. III fu in grado di svolgere una consistente attività di restauri
e abbellimenti in molte chiese di Roma: rifece i tetti, crollati o pericolanti,
di S. Paolo, S. Maria Maggiore e S. Maria ad Martyres (Pantheon); inoltre
restaurò una "basilica Calisti", forse da identificare con S. Maria
in Trastevere. Ampliò le chiese delle diaconie di S. Maria in Aquiro e dei Ss.
Sergio e Bacco; decorò molte chiese con pitture, parati e vasellame prezioso. Al
restauro della basilica di S. Crisogono sono stati riferiti due gruppi di
pitture rinvenuti sulle pareti meridionale e settentrionale dell'aula e
appartenenti a un unico ciclo in cui sono raffigurati alcuni santi clipeati
identificati da didascalie verticali (Agapito, Felicissimo, Sisto II).
Un'iscrizione dipinta, conservata solo parzialmente, fu eseguita insieme con
gli affreschi per commemorare il restauro e i doni che G. III offrì alla
chiesa. Al pontefice viene anche attribuita la costruzione della cripta
semianulare, realizzata per custodire, in un'apposita confessio, le
reliquie dei martiri fatte traslare dai cimiteri del suburbio. G. III riedificò
inoltre dalle fondamenta la chiesa dei Ss. Marcellino e Pietro "iuxta
Lateranis". Particolare cura dedicò all'organizzazione degli uffici
liturgici nelle principali basiliche, affidando a comunità monastiche insediate
nei pressi la celebrazione dell'ufficio notturno e diurno in S. Pietro, nel S.
Salvatore in Laterano e in S. Crisogono; si preoccupò inoltre di fornire
risorse materiali sufficienti alle diaconie, monasteri che praticavano
l'assistenza dei poveri. Restaurò anche alcune chiese delle catacombe,
disponendo che vi fosse celebrata la commemorazione dei santi e attribuendo a
questa funzione risorse tratte dalle rendite papali (Le Liber pontificalis,
a cura di L. Duchesne, I, Paris 1955, pp. 419 s.). In particolare il papa
promosse interventi di rifacimento nella basilica subdiale dei Ss. Processo e
Martiniano sulla via Aurelia, di localizzazione incerta, e nei santuari
subdiali e ipogei del cimitero di Pretestato sulla via Appia. Inoltre restaurò
i tetti della basilica "Marci" sulla via Appia, da identificare con
la basilica circiforme rinvenuta recentemente nel sopratterra del comprensorio
callistiano. Nella biografia di G. III viene menzionata, per la prima e unica
volta, la chiesa di S. Genesio sulla via Tiburtina, da localizzare nel
sopratterra del cimitero di Ippolito.
Inoltre
riprese e realizzò in buona parte un'impresa che non era riuscita al suo
predecessore, ossia il restauro delle mura di Roma. È probabile che ciò gli
fosse possibile perché ormai al papa era riconosciuta, dagli stessi funzionari
bizantini residenti in Italia, un'autorità civica in Roma; la biografia di G.
III mette in rilievo che l'opera fu finanziata con le risorse proprie del papa,
che pagò il vitto agli operai e la calce per le costruzioni. G. III fece anche
rialzare le mura crollate di Civitavecchia, forse per dotare Roma di uno scalo
marittimo complementare o alternativo a quello di Porto alle foci del Tevere,
divenuto necessario anche perché l'imperatore aveva fatto presidiare lo scalo
di Terracina, nel Lazio meridionale.
Nel
complesso non sembra che i provvedimenti punitivi di Leone III comportassero
serie limitazioni all'attivismo civico ed ecclesiastico del papa.
G. III
si trovò però presto a dover fronteggiare i riflessi del conflitto
iconoclastico nei rapporti tra l'Impero bizantino e il Regno longobardo in
Italia. Sotto il suo predecessore era stato raggiunto un accordo fra il re
longobardo Liutprando e l'esarca bizantino Eutichio, consistente nel reciproco
riconoscimento delle due sfere di sovranità longobarda e bizantina in Italia;
in particolare al re Liutprando dovette essere riconosciuta autorità sui Ducati
di Spoleto e Benevento, da tempo tendenti all'autonomia, nonché il possesso dei
castelli e delle città già bizantini in Emilia, che si erano spontaneamente
sottomessi al suo potere. Questo accordo venne rotto dal duca bizantino di
Perugia, Agatone, che tentò di riconquistare Bologna, una delle città bizantine
passate ai Longobardi. Sebbene il tentativo fallisse, esso sembra aver
provocato la reazione dei Longobardi che conquistarono la stessa Ravenna, da
cui l'esarca e l'arcivescovo fuggirono coi maggiorenti locali, riparando
probabilmente nel territorio veneto, anch'esso soggetto all'Impero. G. III
intervenne allora in sostegno dell'esarca, chiedendo al patriarca di Grado
Antonino di esortare i Veneti a difendere la causa dell'Impero e prestare il
dovuto servizio agli imperatori Leone III e Costantino V, cacciando i
Longobardi da Ravenna, in modo che venisse ripristinata l'organizzazione
imperiale nel rispetto della fede ortodossa. In effetti una spedizione navale
veneta riuscì a riconquistare Ravenna, riportandovi l'esarca. La cronologia dei
fatti è incerta: taluni studiosi li pongono nel 732; altri, più probabilmente,
nel 737-738.
L'iniziativa
del papa dimostra comunque che, nonostante il conflitto religioso con
l'imperatore, egli intendeva conservare le province dell'Italia
centrosettentrionale al governo bizantino, sia pure valorizzando la loro
autonomia e la partecipazione del Papato alla loro difesa. Nella lettera al
patriarca di Grado egli definiva infatti Esarcato e Pentapoli come "fines
nostri", in contrapposizione alle "terre dei longobardi". In
quell'occasione gli imperatori Leone e Costantino, nonostante la condanna per
la loro politica ecclesiastica, venivano ancora qualificati "figli"
del papa. L'Impero bizantino conservava dunque, nella concezione di questo papa
di origine orientale, il ruolo di riferimento politico essenziale per la Chiesa
romana; inoltre G. III doveva avvertire che l'estensione del Regno longobardo a
danno del governo bizantino nell'Italia centrosettentrionale avrebbe
compromesso anche l'autonomia e l'autorità politica che il Papato aveva
conquistato non solo in Roma, ma anche nelle province bizantine.
In
questo contesto iniziò a manifestarsi quell'ostilità pregiudiziale dei papi nei
confronti dei Longobardi, che caratterizzò tutta la successiva politica
pontificia dell'VIII secolo e fu tra le cause della finale caduta del Regno
longobardo a opera di Carlomagno. Del resto fu presto evidente che
l'aggressione longobarda rivolta contro i territori imperiali poteva
coinvolgere lo stesso territorio romano: nel 739 il duca di Spoleto Trasmondo
occupò infatti il castello di Gallese, ai confini del Ducato romano. G. III
riuscì a persuadere il duca che quel gesto danneggiava non solo l'Impero, ma il
papa stesso, e poté riscattare il castello per denaro; una volta ottenutolo, lo
incorporò nuovamente nella "santa repubblica", cioè nell'Impero
romano-bizantino, attribuendolo però concretamente all'esercito romano, che
poteva possedere beni come ente giuridico, e che forse in quell'occasione assunse
l'esercizio dei diritti pubblici nel castello. Pur avendo recuperato lui stesso
Gallese, il papa non attribuì alla Chiesa romana i diritti giurisdizionali
dell'Impero, e tuttavia pose in essere una novità istituzionale che dava
originali poteri a una istituzione statale quale l'esercito, di cui si
accentuava il carattere cittadino e la proiezione nel territorio regionale.
L'accordo
con il duca Trasmondo doveva prevedere anche il ristabilimento di quelle
relazioni privilegiate tra il Papato e il Ducato spoletino che si erano già
manifestate durante il precedente pontificato e che in certa misura erano
rivolte a limitare il potere del re longobardo. Infatti nello stesso 739 il re
Liutprando invase il Ducato spoletino da cui Trasmondo fuggì riparando in Roma.
Il re si diresse allora contro la stessa Roma e poiché G. III e il duca di Roma
Stefano rifiutarono di consegnargli Trasmondo, assediò la città, devastandone i
dintorni e catturando molti nobili romani. Non riuscendo comunque ad aver
ragione della resistenza, nell'agosto 739 tolse l'assedio, ma rientrando nel
Regno occupò i quattro castelli di Amelia, Orte, Bomarzo e Blera, che
controllavano il collegamento di Roma con l'Italia settentrionale, lasciandovi
guarnigioni longobarde.
Durante
l'assedio G. III inviò una pressante richiesta d'aiuto al principe dei Franchi
Carlo Martello, invitandolo a soccorrere la Chiesa romana e il suo "popolo
peculiare", identificato con gli abitanti di Roma, per salvarli dalla
persecuzione dei Longobardi. G. III doveva ricevere informazioni sulla
situazione politica d'Oltralpe non solo dai pellegrini che giungevano a Roma,
ma in particolare da Bonifacio, l'anglosassone evangelizzatore della Germania
cui nel 732 aveva conferito l'autorità di arcivescovo per rafforzare l'opera di
organizzazione della Chiesa in Germania che quegli andava compiendo. Nel 737
Bonifacio era tornato a Roma per la terza volta, e aveva discusso col papa il
futuro dell'evangelizzazione e della Chiesa in Germania, probabilmente
informandolo anche dell'interesse di Carlo Martello per le missioni. Il papa,
che nel 739 era ancora in rapporto epistolare con Bonifacio, poté profittare di
questi contatti per cercare di coinvolgere Carlo Martello nella difesa del
Papato. Il suo appello non ebbe però effetto: Carlo Martello era infatti
alleato di Liutprando, con cui aveva collaborato in diverse imprese militari.
Tuttavia il principe inviò a Roma due abati franchi con doni per s. Pietro e
probabilmente chiese spiegazioni a Liutprando e all'altro re associato al trono
Ildeprando, giacché in una lettera dell'anno seguente (740) G. III lamentava
che egli avesse prestato fede più alle giustificazioni dei re longobardi che
alle denunce della Chiesa romana e ripeteva l'appello a difendere la Chiesa di
s. Pietro e il suo popolo peculiare.
L'idea
del "popolo peculiare" aveva un rilievo politico oltre che pastorale:
facendo degli abitanti di Roma l'oggetto di una particolare protezione da parte
del principe degli apostoli, li distingueva dagli altri sudditi dell'Impero
bizantino e li legava al papa, che diveniva loro rappresentante e difensore in
quanto successore e vicario dell'apostolo. La lettera papale contiene anche
interessanti accenni alle risorse economiche del Papato, che possedeva nel
territorio laziale centri di organizzazione e raccolta della produzione
agricola e riceveva dal territorio ravennate sussidi per le spese di assistenza
ai poveri e di culto nelle basiliche romane, segno che in quelle province i
suoi patrimoni non erano stati confiscati. Il papa lamentava invece che tali
risorse della Chiesa venivano compromesse dall'aggressione dei Longobardi.
Comunque,
quando Liutprando tolse l'assedio l'esercito romano riportò Trasmondo nel suo
Ducato, di cui questi riprese il completo controllo nel dicembre del 739. Sembra
che il duca promettesse al papa, in cambio dell'aiuto ricevuto, di recuperare i
quattro castelli occupati dal re. Nel frattempo a Benevento veniva eletto il
nuovo duca Godescalco, che aderiva anch'egli all'intesa col papa. G. III
insisteva dunque nella direttiva di creare un'intesa politica e militare tra
gli eterogenei potentati dell'Italia centrale, egualmente ostili all'espansione
dell'autorità del re longobardo, per compensare l'isolamento del Ducato romano,
cui sembra che l'esarca non fosse in grado di portare alcun aiuto concreto.
Contemporaneamente rinnovava l'appello ai Franchi, proponendo la difesa della
Chiesa romana e del suo popolo peculiare come atto di devozione all'apostolo
Pietro. Sembra però poco probabile la notizia riportata da alcune cronache
franche dell'VIII secolo, secondo cui G. III avrebbe progettato di sottrarsi
alla sovranità dell'Impero bizantino offrendo a Carlo Martello il dominio
temporale su Roma. Questa notizia appare come un'anticipazione impropria di ciò
che sarebbe accaduto solo dopo. G. III non ebbe comunque il tempo di vedere i
risultati della spregiudicata trama di alleanze che aveva tessuto.
Il
duca Trasmondo non diede corso all'impegno assunto e Liutprando stava già
preparando una nuova spedizione militare contro Roma, quando G. III morì, il 28
nov. 741. Fu sepolto in S. Pietro nell'oratorio dedicato alla Vergine da lui
stesso fatto costruire.
Fonti
e Bibl.: Per la bibliografia si rinvia a P. Delogu, G. III, in Enciclopedia
dei papi, I, Roma 2000, pp. 655 s.
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