Miniatura dal Salterio di santa Elisabetta della prima metà del XIII
secolo (Cividale, Museo archeologico nazionale, cod. CXXXVII, f. 149r).
San Potito martire in Sardegna sotto Marco Aurelio (verso il 166)
Tratto dal quotidiano Avvenire Martirologio Romano:
Commemorazione di san Potito, martire, che, dopo aver patito molte
sofferenze a Sardica in Dacia si tramanda che sia infine morto martire
trafitto con la spada.
Adolescente martire è un santo poco conosciuto, patrono principale
della città e diocesi di Tricarico (Matera) e patrono di Ascoli Satriano
(Foggia). Ci sono giunte alcune antiche recensioni della «Passio sancti
Potiti», la più antica delle quali è del IX secolo, che narra di Potito
come un'adolescente tredicenne, nato a Sardica nella Dacia Inferiore
(attuale Romania), che era diventata provincia romana nel 107, dopo
essere stata conquistata da Traiano. Secondo queste fonti sarebbe stato
l'unico figlio di una famiglia ricchissima. Contro la volontà del padre,
convinto pagano, il giovane Potito aveva abbracciato la fede cristiana
con rara convinzione. I documenti antichi gli attribuiscono gesti e
miracoli che però non possono essere confermati da fonti storiche. In
particolare avrebbe liberato dal diavolo la figlia dell'imperatore
Antonino Pio (138-161). Dallo stesso imperatore, però, venne torturato e
infine decapitato verso il 160 in odio alla sua fede da cristiano.
dal sinassario ROCOR in lingua francese
Saint POTIT, martyr en Sardaigne sous Marc-Aurèle (166).
Saints SECOND (SECONDIN), ENON et QUIRION, martyrs à Rome (vers 262). Saints CYRIAQUE, CIMIN, ZOTIQUE, HERISE (HERIN), GLYCERE, FELIX et JANVIER, martyrs à Naples
Il 13 di questo mese, memoria del nostro santo padre Nicola il Greco.
Le incursioni saracene del X secolo arrivarono a minacciare la sopravvivenza di alcune comunità monastiche italogreche nel Italia Meridionale: nel 977, sotto la guida dell'archimandrita Ilarione, un gruppo di 29 monaci dei monasteri di San Martino di Giove presso la località Canale del comune di Pietrafitta, e di Santa Maria di Pesaca, presso Taverna, lasciò la Calabria per cercare rifugio nel Sannio.
Molti monaci preferirono ritirarsi a vita anacoretica sui monti del Molise; l'archimandrita Ilarione e sette dei suoi discepoli, tra cui Nicola, si spinsero in Abruzzo e acquistarono con del denaro questuato al conte di Chieti Trasmondo († 987) il castello di Prata, presso Casoli, antico possedimento dell'abbazia di Montecassino. Morto Ilarione, per l'umiltà che spingeva i suoi discepoli a rifiutare le cariche ecclesiastiche, i monaci non riuscirono a eleggere un suo successore: stabilirono quindi di porre ciascuno la propria ciotola sulla riva del fiume Aventino e di attendere che un pesce entrasse in una di esse; il proprietario di quella scodella sarebbe stato il nuovo archimandrita. La scelta ricadde su Nicola che, per la sua vita mistica e le opere di carità, acquistò fama di santità. Questi morì all'età di 100 anni nel monastero italogreco di Prata, probabilmente il 13 gennaio di un anno del pontificato di papa Sergio IV (1009-1012).
Il suo culto non è registrato nel Martirologio Romano. La sua memoria viene celebrata a Guardiagrele la terza domenica di maggio.
Il 13 di questo mese, memoria di San Falco di Palena.
tratto da
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San Falco, nato a Taverna in Calabria verso la metà del decimo secolo, dall'antica e nobile famiglia dei Poerio, fu da giovanissimo attirato dalla solitudine e dall’eremitaggio. Decise presto di ritirarsi nel monastero di Pesica vicino al suo paese, nella zona di Cosenza, fra i monaci italogreci, sotto la disciplina di un santo abate, di nome Ilarione. La comunità era già conosciuta in tutte le Calabrie per le virtù e la santità di tutti i confratelli che la formavano come afferma il B. Pietro da Pesica ricordato nel Monologio greco.
Nel 980 le Calabrie divennero teatro di rovina e sterminio, preda dei Saraceni. Dal monastero di Taverna i monaci decisero perciò di partire alla volta degli Abruzzi.
Qui costruirono alcune stanze ed una chiesetta, i cui ruderi erano visibili fino a verso la fine dell’800, e qui si stabilirono vivendo in povertà, e santità imponendosi rigide regole quali veri imitatori degli antichi monaci d’Egitto.
Sotto la guida del loro santo abate Ilarione condussero vita austera e di digiuno, cibandosi per lo più di erbe, ad eccezione delle sole domeniche.
La loro conversazione consisteva nella pratica delle orazione, e nella recita delle lodi.
Alla morte del santo abate elessero superiore il più giovane, Nicolò Greco, minore per età, ma non per meriti.
Il nuovo egumeno, per rendere grazie a Dio, chiese ai confratelli di compiere un pellegrinaggio a Roma. Durante il viaggio, con le loro orazioni “i sette fratelli” riuscirono a liberare dagli spiriti maligni sette indemoniati incontrati nei pressi del Lago di Fucino. Rimessisi in cammino, uno di essi, aggravato dagli acciacchi di salute, lasciò i compagni e nei pressi di Ortucchio, trovò ricovero nella chiesa della Santissima Vergine, a S. Maria in Capo d'acqua.
Gli altri compagni compiuto il pellegrinaggio, tornarono a Prata alla loro vita monastica. Nicolò fu per diversi anni egumeno, ma alla sua morte gli altri confratelli, non riuscendo ad eleggere un suo successore, si ritennero liberi di seguire ognuno la propria strada. Falco decise di tornare a Roma, e s’incamminò, ma la stessa sera, giunto a Palena, tentando di salire la montagna di Coccia, sentì mancare le forze e fu costretto a riposarsi nella vicina villa di S. Egidio. All’arrivo inaspettato di questo santo monaco, la contrada infestata da spiriti maligni, fu subito purificata, e la sua presenza fu motivo di speranza per gli abitanti del luogo che lo acclamarono da subito e gli portarono rispetto. Decise così di rimanere tra quei monti continuando la sua vita di rigori e di preghiere. Per estrema umiltà non volle mai abbracciare il sacerdozio, ma rimanere un umilissimo monaco esempio di virtù.
Era il mattino del 13 gennaio presumibilmente di un anno verso la metà dell'undecimo secolo, improvvisamente si sentì suonare la piccola campana dell'eremo dove viveva in ritiro. Accorsero in molti pensando che il frate avesse bisogno di soccorso e lo trovarono esanime steso su di una tavola con due candele accese. Il suo corpo fu trasportato nella chiesa di S. Egidio Abate dove, dopo le esequie, fu sepolto.
Passava da quelle parti un ossesso che trascinato e legato alla statua di S. Panfilo di Sulmona, e tutti con stupore lo videro spezzare le funi e correre verso il sepolcro del Santo, dove appena giunto, fu liberato dal maligno.
Da quel momento la fama di San Falco divenne ancora più grande e confermata da diversi altri prodigi, tanto che a richiesta del popolo le spoglie furono esposte alla pubblica venerazione.
Nel 1383, a causa di continue scorrerie e latrocini, temendo per la loro sorte, il vescovo di Sulmona decise la traslazione delle reliquie e della statua di S. Falco nella chiesa di S. Antonino Martire al centro di Palena.
Da allora la chiesa e le reliquie di San Falco divennero meta di pellegrini, fedeli, devoti, malati ed ossessi, provenienti anche da molto lontano.
Per la crescente devozione e gli innumerevoli pellegrinaggi nel 1841 si decise di demolire la vecchia chiesa per erigerne una molto più grande e capiente, e nel 1842, ad opera del celebre Domenico Capozzi, per la grande devozione, fu eretta al santo una statua di argento a mezzo busto.
La teca con le sue reliquie, la tunica Dalmatica alla Greca, e la statua di argento contenente il suo teschio, vengono esposti due volte l'anno alla devozione dei fedeli, il 13 gennaio in commemorazione della morte, e nella domenica successiva al 15 agosto in memoria della traslazione delle sue reliquie dalla chiesa di S. Egidio.
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