Santo Severo vescovo di Ravenna e
confessore della fede (verso il 348) con la sua sposa Santa Vincenza diventata
poi sua sorella spirituale e la loro figlia Santa Innocenza
Sul
dodicesimo vescovo di Ravenna, Severo, sono scarse le notizie certe. Si sa che
partecipò al Concilio di Sardica (l'odierna Sofia) nel 342-343. Fu sepolto
nella zona di Classe. Testimonianze dell'antichità del suo culto sono le
notizie di due traslazioni e i mosaici di Sant'Apollinare. Gli fu dedicata nel
VI secolo una basilica, andata distrutta dopo il XV secolo. Per gli agiografi
sarebbe stato un lanaiolo che, recatosi in chiesa dopo la morte del vescovo
Marcellino, sarebbe stato eletto suo successore perché una colomba gli si posò
sul capo. Secondo Liutolfo un monaco trafugò le reliquie per portarle in
Germania. È infatti venerato " oltre che in Emilia-Romagna, Toscana e
Marche " a Magonza ed Erfurt. I bassorilievi marmorei posti sul sepolcro
trecentesco nella chiesa del santo ad Erfurt, lo raffigurano vestito degli
abiti vescovili, in mezzo alle figure della moglie e della figlia, in devoto
atto orante. Ma ben più numerose furono le chiese dedicatogli in tutta la
provincia ravennate, nell'Emilia Romagna, in Toscana, nelle Marche.Solo a
Faenza ve ne furono quattro. furono quattro.
Tratto da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/39350
Dall’antico ‘Catalogo Episcopale’ si
ricava la notizia che s. Severo fu il 12° vescovo di Ravenna, dopo Marcellino e
prima di Liberio; della sua vita purtroppo non si sa niente, tranne che il suo
nome compare tra i partecipanti al Concilio di Sardica (antico nome di Sofia in
Bulgaria), tenutosi nel 342-343, inoltre è fra i sottoscrittori dei canoni
conciliari, della lettera sinodica a papa s. Giulio I (337-352) e di quella a
tutti i vescovi.
Come riferiscono gli agiografi medioevali Agnello e Liutolfo, Severo morì un 1° febbraio in un anno dopo il 342 e in questo giorno venne ricordato nell’antico Calendario italico, inserito poi nel ‘Martirologio Geronimiano’; venne sepolto nella zona di Classe presso Ravenna, detta del ‘Vicus Salutaris’, in un sacello chiamato “monasterium S. Rophili” aderente al Sud della basilica del secolo VI.
Testimonianze dell’antico culto, sono le notizie di due traslazioni di reliquie del santo vescovo, una citata nel ‘Martirologio Geronimiano’ al 27 novembre, avvenuta a Milano, poco dopo l’episcopato di s. Ambrogio (340-397), insieme a quelle di altri quattro santi e un’altra celebrata al 3 settembre ad Aquileia, anche qui con quelle di altri quattro santi, fra cui s. Andrea apostolo.
Grande testimonianza del culto tributatogli a Ravenna, sono i mosaici di S. Apollinare in Classe (consacrata nel 549), situati nella parte inferiore dell’abside, rappresentanti i vescovi s. Severo, s. Orso, Ecclesio ed Ursicino, i primi due recano l’appellativo “Sanctus”, prova questa di sicuro culto.
E poi vi è la grande basilica di S. Severo, iniziata dal vescovo Pietro III nel 575 e condotta a termine da Giovanni Romano (578-95) e da lui consacrata il 17 maggio 582, collocandovi anche l’arca del santo.
Questa basilica abbinata ad un grande monastero benedettino, rimase integra fino al secolo XV, poi dopo varie vicende, venne definitivamente abbandonata e distrutta; era una grande basilica a tre navate divise da dodici colonne per parte; aveva l’abside poligonale all’esterno e semicircolare all’interno (tipo ravennate).
Per quanto riguarda i testi letterari che riguardano s. Severo, essi sono raccolti e trascritti dagli agiografi medioevali e da due sermoni di s. Pier Damiani (1072); la biografia che se ne ricava, dice che il santo, povero lanaiolo di Ravenna, si reca in chiesa dopo la morte del vescovo Marcellino, per assistere all’elezione del successore ed una colomba gli si posa più volte sulla testa, così che tutto il popolo riconosce che è lui l’eletto di Dio; poi racconta ancora che durante una celebrazione eucaristica, va in estasi e presenzia per un prodigio di bilocazione, alla morte dell’amico san Geminiano di Modena.
Gli muore la figlia Innocenza e dietro invito del santo, le ossa della defunta moglie Vincenza si spostano per lasciare alla figlia un posto nell’arca; infine sentendosi vicino alla morte, fa aprire l’arca che si era preparata, vi si distende e rende l’anima a Dio.
Tutti questi episodi si ritrovano, nella narrazione agiografica medioevale, nelle ‘Vite’ di altri santi.
Secondo l’agiografo Liutolfo, il corpo di s. Severo non rimase per molto tempo nella sua basilica di Classe; nell’842 un monaco franco di nome Felice, trafugò le reliquie di s. Severo, Vincenza e Innocenza e le trasferì prima a Magonza poi ad Erfurt, diffondendo così il culto in tutta la Germania, sorgendo chiese in suo onore.
Ma ben più numerose furono le chiese dedicatogli in tutta la provincia ravennate, nell’Emilia Romagna, in Toscana, le Marche, solo a Faenza ve ne furono ben quattro.
I bassorilievi marmorei posti sul sepolcro trecentesco nella chiesa del santo ad Erfurt, lo raffigurano vestito degli abiti vescovili, in mezzo alle figure della moglie e della figlia, in devoto atto orante.
Come riferiscono gli agiografi medioevali Agnello e Liutolfo, Severo morì un 1° febbraio in un anno dopo il 342 e in questo giorno venne ricordato nell’antico Calendario italico, inserito poi nel ‘Martirologio Geronimiano’; venne sepolto nella zona di Classe presso Ravenna, detta del ‘Vicus Salutaris’, in un sacello chiamato “monasterium S. Rophili” aderente al Sud della basilica del secolo VI.
Testimonianze dell’antico culto, sono le notizie di due traslazioni di reliquie del santo vescovo, una citata nel ‘Martirologio Geronimiano’ al 27 novembre, avvenuta a Milano, poco dopo l’episcopato di s. Ambrogio (340-397), insieme a quelle di altri quattro santi e un’altra celebrata al 3 settembre ad Aquileia, anche qui con quelle di altri quattro santi, fra cui s. Andrea apostolo.
Grande testimonianza del culto tributatogli a Ravenna, sono i mosaici di S. Apollinare in Classe (consacrata nel 549), situati nella parte inferiore dell’abside, rappresentanti i vescovi s. Severo, s. Orso, Ecclesio ed Ursicino, i primi due recano l’appellativo “Sanctus”, prova questa di sicuro culto.
E poi vi è la grande basilica di S. Severo, iniziata dal vescovo Pietro III nel 575 e condotta a termine da Giovanni Romano (578-95) e da lui consacrata il 17 maggio 582, collocandovi anche l’arca del santo.
Questa basilica abbinata ad un grande monastero benedettino, rimase integra fino al secolo XV, poi dopo varie vicende, venne definitivamente abbandonata e distrutta; era una grande basilica a tre navate divise da dodici colonne per parte; aveva l’abside poligonale all’esterno e semicircolare all’interno (tipo ravennate).
Per quanto riguarda i testi letterari che riguardano s. Severo, essi sono raccolti e trascritti dagli agiografi medioevali e da due sermoni di s. Pier Damiani (1072); la biografia che se ne ricava, dice che il santo, povero lanaiolo di Ravenna, si reca in chiesa dopo la morte del vescovo Marcellino, per assistere all’elezione del successore ed una colomba gli si posa più volte sulla testa, così che tutto il popolo riconosce che è lui l’eletto di Dio; poi racconta ancora che durante una celebrazione eucaristica, va in estasi e presenzia per un prodigio di bilocazione, alla morte dell’amico san Geminiano di Modena.
Gli muore la figlia Innocenza e dietro invito del santo, le ossa della defunta moglie Vincenza si spostano per lasciare alla figlia un posto nell’arca; infine sentendosi vicino alla morte, fa aprire l’arca che si era preparata, vi si distende e rende l’anima a Dio.
Tutti questi episodi si ritrovano, nella narrazione agiografica medioevale, nelle ‘Vite’ di altri santi.
Secondo l’agiografo Liutolfo, il corpo di s. Severo non rimase per molto tempo nella sua basilica di Classe; nell’842 un monaco franco di nome Felice, trafugò le reliquie di s. Severo, Vincenza e Innocenza e le trasferì prima a Magonza poi ad Erfurt, diffondendo così il culto in tutta la Germania, sorgendo chiese in suo onore.
Ma ben più numerose furono le chiese dedicatogli in tutta la provincia ravennate, nell’Emilia Romagna, in Toscana, le Marche, solo a Faenza ve ne furono ben quattro.
I bassorilievi marmorei posti sul sepolcro trecentesco nella chiesa del santo ad Erfurt, lo raffigurano vestito degli abiti vescovili, in mezzo alle figure della moglie e della figlia, in devoto atto orante.
Tratto da
http://www.fondazioneravennacapitale.it/san-severo-vescovo-ravenna/
La nostra chiesa di Ravenna-Cervia
celebra, il primo febbraio, la memoria di San Severo, ricordato nella
cronotassi episcopale ravennate come undicesimo successore di
Sant’Apollinare[2]. La sua vicenda agiografia ci conduce alle origini della
chiesa ravennate, ai primordi di una storia tanto importante, quanto
straordinaria. La sua effigie, in abiti sacerdotali, è nell’area absidale della
Basilica di Sant’Apollinare in Classe, congiunta all’iscrizione sanctus
severus, innegabile attestazione di culto fin dall’epoca antica, come lo sarà
la Basilica eretta in suo onore all’interno della città di Classe.
Egli è il primo, tra i vescovi
ravennati, ad avere una cronologia accertata: egli è attestato al Concilio di
Serdica (342-43) – oggi Sofia, in Bulgaria – un Concilio che, tra i vari temi
trattati, affermava la fede nicena, antiariana. Il suo nome compare tra i
firmatari del Concilio, Severus ab Italia, de Ravenna e nella lettera inviata a
Papa Giulio, Severus ab Italia de Ravennensi[3].
Le prime fonti scritte relative alla
sua biografia sono del IX secolo e risalgono ad Andrea Agnello, autore del Liber
Pontificalis e a Liutolfo, autore di una testo dove, oltre alla vita, si
racconta della traslazione delle reliquie del Santo prima a Magonza, poi a
Erfurt[4]. Questi testi saranno ripresi da un’anonima Vita dell’XI secolo, la
Vita vel acta sancti Severi confessoris archipraesulis ravennatis, e da due
Sermoni di San Pier Damiani[5].
Con Severo si chiude la serie dei
vescovi colombini, gli undici successori di Apollinare accomunati dalla
leggenda legata alla loro miracolosa elezione per mezzo di una colomba: essa,
posandosi sul loro capo nel momento in cui la comunità cristiana era radunata
per l’elezione del vescovo, li avrebbe designati alla cattedra ravennate[6].
Il Liber Pontificalis è un testo
fondamentale per chiarire l’agiografia, l’iconografia ed il culto di questo
santo ravennate. All’interno del testo agnelliano, la parte dedicata a Severo,
dopo la Vita di Apollinare che comunque per varie ragioni va considerata come
una storia a se stante, è quella più strutturata. Se ai primi dieci successori
di Apollinare sono dedicate solo poche righe ciascuno, per quanto riguarda
Severo il testo è più articolato, anche se l’Autore mette ben presto in guardia
i suoi lettori dichiarando subito di non conoscere una storia scritta e,
implicitamente, la sua difficoltà nel tracciare una biografia solida dal punto
di vista della documentazione. Andrea Agnello, quindi, procede con cautela,
preferibilmente accostando vari temi riguardanti il Santo, più che narrando una
sua Vita.
L’autore inizia spiegando il senso
del nome, Severo, che non va inteso in senso negativo, ma come segno di
fortezza, vero pontefice massimo e fin da subito è introdotto il tema della sua
straordinaria elezione, argomento che sarà più ampiamente narrato in
seguito[7].
Il testo agnelliano, come accennato,
procede per passaggi che, tralasciando volutamente una sequenza cronologica,
mirano a mettere in luce la santità del vescovo attraverso la narrazione di
fatti prodigiosi. Si racconta quindi di come Severo, mentre celebrava a
Ravenna, fosse condotto in spirito a Modena per assistere alla morte e
sepoltura di Geminiano[8].
A questo evento prodigioso, che
induce i ravennati a venerare maggiormente la sua santità, segue il racconto
della sua morte che s’intreccia con la storia della sepoltura della figlia
Innocenza e della moglie Vincenza: «Un giorno, dopo aver celebrato la messa e
avere preso il sacro corpo e sangue del Signore, rivestito della stola
vescovile, ordinò di aprire il suo sepolcro ed entratovi vivo ordinò di esservi
chiuso mentre giaceva fra la sposa e la figlia. E li pregando rese la preziosa
anima a Dio. In tale pace e serenità morì il 1° febbraio. E molti prodigi
mostrò il Signore presso il suo sepolcro, nella sua chiesa, che è situata
nell’antica città di Classe, non lontano dalla zona che è detta Salutare, fino
ai nostri giorni»[9].
Nel coro del Duomo di Ravenna è un
grande quadro che raffigura la morte di Severo secondo la tradizione riportata
nel Liber Pontificalis. L’opera, dipinta da Gioacchino Giuseppe Serangeli
(1768-1852), fu commissionata dall’arcivescovo Antonio Codronchi (1785-1826)
insieme alle altre tre tele che adornano il coro, dipinte ciascuna da un
diverso autore[10].
Terminata la narrazione della morte
del Santo – episodio che oltre a mettere in luce la profonda fede nella
resurrezione, mostra come esso fosse stato sepolto insieme alla moglie e alla
figlia, sottolineatura quest’ultima preziosissima quando si dovrà affrontare il
tema delle reliquie – lo Storico narra un episodio che esalta la potenza
taumaturgica di Severo e per il quale offre al lettore un solido appiglio,
poiché l’uomo che ha beneficiato della benevolenza del santo, come detto nel
testo, è ancora vivo. Leggiamo nel Liber Pontificalis: «E di nuovo racconterò a
voi quello che abbiamo visto accadere ai nostri tempi: lo richiamo alla memoria
perché ricordiate. Un uomo, che oggi vive ancora, da piccolo per una infermità
fisica insieme con sua madre si era prostrato davanti al sepolcro del santo
confessore di Cristo Severo e tutti furono colti dal sonno; nel cuore della
notte solo il piccolo infermo fu preso da spavento ed emise un grido,
svegliando tutti. Tutti quelli che erano stati davanti alle candele spente, le
videro brillare al loro fulgore. E avendo tutti visto una luce straordinaria,
spaventati in cuor loro, diedero gloria a Dio e al suo confessore Severo. Il
bambino fu condotto in mezzo a loro e la madre cominciò a interrogarlo: “Che
cosa ti è successo, figlio mio?”. Ed egli, in presenza di tutti, disse: “Ho
visto un uomo che usciva da questo sepolcro in abiti vescovili, ornato di
capelli bianchi, dal volto angelico: mi ha toccato e mi sono spaventato”.
Immediatamente l’infermità si allontanò da lui ed egli non ebbe più la febbre.
Questo fatto è accaduto a nostri tempi, e non solo questo, ma molti altri»[11].
La Vita termina con il racconto
dell’elezione miracolosa di Severo – tema già introdotto sin dall’inizio –
avvenuta grazie alla colomba che, per tre volte, si posò sul suo capo.
Nell’economia della narrazione alla moglie del Santo è affidato un ruolo non
secondario, quello di rafforzare l’idea – sottolineando l’inadeguatezza di
Severo – di come la scelta del marito per l’arduo compito di pastore della
chiesa ravennate, sia avvenuta esclusivamente per l’esplicito e potente
intervento divino. Il racconto gioca anche sul contrasto tra gli indumenti
squallidi e sudici del santo che lo portano a nascondersi e la colomba più
candida della neve che si poserà sul suo capo, altro elemento che mira a porre
in evidenza i criteri di Dio; non a caso il racconto si chiude con l’accenno
alla Prima Lettera ai Corinti: «Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha
scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha
scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo,
quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono,
perché nessuno possa vantarsi davanti a Dio»[12]. Pier Damiani inizia il quinto
Sermone traendo spunto dall’elezione di Severo, per ribadire il criterio di
discernimento di Dio: «Fratelli carissimi, nel leggere la storia del beato
Severo avete udito come Dio lo trasse dalla bottega di lanaiolo, come in modo
mirabile lo chiamò alle altezze dell’episcopato, non soltanto indipendentemente
dall’opinione di tutti i cittadini, ma anche dalla sua (…). O dilettissimi, mi
piace allora lasciare che si diffondano i raggi della luce interiore su questo
spettacolo bellissimo e riflettere, per quanto mi è possibile, su quanto sia
diverso il giudizio di Dio rispetto a quello degli uomini». Il Sermone si
dilunga, immaginando di scrutare i diversi stati d’animo degli uomini riuniti
in attesa della discesa dello Spirito Santo e, non senza ironia, l’omileta
descrive chi si augura di essere lui l’eletto: «Oh, se la colomba scendesse
sopra di me, se Dio scegliesse me!»[13]. Se la colomba si poserà su Severo –
pare chiosare Pier Damiani – è perché egli già da tempo ospitava lo Spirito di
Dio nel suo cuore: «Scese finalmente la colomba e, con meraviglia di tutti, si
posò sul capo del prescelto. E certamente, già da molto tempo dimorava
invisibile nel petto di colui sulla cui testa ora discendeva in forma
corporea»[14].
Nel quarto Sermone Pier Damiani, già
aveva ricordato la miracolosa elezione di Severo, traendo spunti morali per i
suoi ascoltatori: «Avete sentito, fratelli carissimi, la vita di quest’uomo
povero di beni, ma dovizioso di ricchezze e di virtù? Avete sentito come un
uomo di bassa condizione davanti agli uomini fu sollevato alle sublimi altezze
al cospetto di Dio? Avete sentito di un uomo squallido perché coperto da lacere
vesti, ma splendido per l’onesta dei costumi? Dove sono coloro che dicono: “Noi
non possiamo osservare i precetti di Dio, perché non abbiamo beni terreni
bastevoli alle nostre necessita”? Dove sono, ripeto, coloro che mentre cercano
di trovar scuse davanti agli uomini si rendono molto più gravemente
inescusabili nei riguardi di Dio? Si facciano avanti e sull’esempio del beato
Severo imparino ad abbondare di vere ricchezze, affinché non avvenga che,
mentre sono privi di beni, siano pieni di vizi, e che la povertà, come un
camino, se non vale a purificare dalla ruggine dei vizi, trasformi il metallo
rovinato in fuliggine di inutili scorie. Ecco infatti che quest’uomo
beatissimo, pur sottoposto al peso della sua indigenza, soddisfece largamente
ai comandamenti e, non avendo altro, offrì se stesso sull’altare della santa
semplicità, al modo di una grande colomba, in sacrificio graditissimo a Dio. E
poiché per costumi egli fu come una colomba, meritò l’ufficio della
colomba»[15].
Giovanni Gardini
[1] Il presente articolo sintetizza
in parte quanto esposto nella conferenza tenuta il 28 gennaio 2016 presso la
Parrocchia di Ponte Nuovo, Ravenna, su invito del parroco, don Gianni
Passarella.
[2] Liber Pontificalis Ecclesiae
Ravennatis a cura di D. Mauskopf Deliyannis, in Corpus Christianorum cxcix,
Cambridge 2006, p. 154. Per una traduzione in lingua italiana si veda: Il libro
di Agnello Istorico. Le vicende di Ravenna antica fra storia e realtà,
traduzione e note a cura di M. Pierpaoli, Diamond Byte, Ravenna 1988, p. 38.
[3] J. D. Mansi, Sacrorum
Conciliorum nova et amplissima collectio, 31 voll., Firenze-Venezia 1759-98;
ristampa e continuazione in 53 voll., Parigi 1901-27, 1960, vol. III, pp.
39-40. L’attestazione di Severo a Serdica – un dato importantissimo – non
compare nella primitiva redazione del testo agnelliano. L’annotazione riportata
nel Liber Pontificalis – in sardicense concillio cum legatis romane ecclesie,
vir sanctus interfuit hic Severus – è, come nota il Testi Rasponi, un’aggiunta
del XV secolo riportata dal Codice Estense: sulla questione si veda Codex
pontificalis ecclesiae Ravennatis, RIS, II, 3, Bologna 1924, p. 44, nota 5. Per
un inquadramento generale sulle problematiche relative ai manoscritti del Liber
Pontificalis si vedano: Testi Rasponi 1924, pp. VI-VIII; R. Benericetti, Il
Pontificale di Ravenna. Studio critico, Faenza 1994, pp. 11-24; Mauskopf
Deliyannis 2006, p. 53-93.
[4] Liutolfus presbyter Moguntinus,
Vita et translatio Severi ep. Ravennatis (BHL 7681-7682), ed L. de Heinemann,
in MGH Scriptores XV, Hannoverae 1887, pp. 289-293. Per la storia della
traslazione delle reliquie di Severo, si veda il testo di Martina Caroli e la
bibliografia ivi riportata: M. Caroli, Culto e commercio delle reliquie a
Ravenna nell’alto medioevo, in Ravenna tra Oriente e Occidente: storia e
archeologia, a cura di A. Augenti e C. Bertelli, Fondazione Flaminia Ravenna,
Longo Editore, Ravenna 2007, pp. 15-27.
[5] Bibliotheca Hagiographica
Latina, 7683; Pier Damiani, Sermoni (2-35), a cura di U. Facchini e L.
Saraceno, Città Nuova 2013, pp. 140-167.
[6] Gli studi del Lucchesi, che
riprendono i lavori del Lanzoni e del Testi Rasponi, segnano una tappa
importante nelle indagini agiografico-liturgiche su San Severo e mettono in
luce il valore del suo culto in rapporto ai suoi predecessori: «Nel processo di
valutazione dei dieci oscuri nomi situati nel catalogo episcopale tra S.
Apollinare e S. Severo, fu quest’ultimo che se li raggruppò attorno estendendo
ad essi la leggenda – o la tradizione – che lo riguardava, dell’elezione
colombina. In un primo tempo invece, avanti che si formasse la leggenda
severiana, era stato Apollinare ad illuminarli della sua luce»; cf. G.
Lucchesi, Scritti ravennati di Giovanni Lucchesi, a cura di C. Moschini, Faenza
1992, p. 68; F. Lanzoni, S. Severo vescovo di Ravenna nella storia e nella
leggenda, in «Atti e memorie della R. Deputazione di storia patria per le
province di Romagna», s. IV. Vol. I., Fasc. IV-VI, luglio-dicembre, Bologna
1911, pp. 325-396; F. Lanzoni, S. Severo vescovo di Ravenna nella storia e
nella leggenda, in «Atti e memorie della R. Deputazione di storia patria per le
province di Romagna», s. IV. Vol. II., Fasc. IV-VI, luglio-dicembre, Bologna
1912, pp. 350-396; Testi Rasponi 1924, pp. 42-56.
[7] Il termine pontefice, in questo
contesto, va inteso come sinonimo di vescovo.
[8] La cronologia di Geminiano non
corrisponde esattamente a quella di Severo, pur collocandosi sempre all’interno
del IV secolo; la morte del santo vescovo modenese è datata attorno all’anno
396. Questo passo sarà ripreso da Pier Damiani nel Sermone 5, 7.
[9] Pierpaoli 1988, p. 39.
[10] G. Viroli, I dipinti d’altare
della Diocesi di Ravenna, Banca Popolare pesarese e ravennate, Pesaro 1991, pp.
86-87.
[11] Pierpaoli 1988, pp. 39-40.
[12] 1 Cor 1, 27-29.
[13] Pier Damiani 2013, Sermone 5,
1, p. 153.
[14] Pier Damiani 2013, Sermone 5,
1, p. 155.
[15] Pier Damiani 2013, Sermone 4,
2, p. 143.
Santo ORSO
presbitero ad Aosta confessore della fede
Tratto dal quotidiano Avvenire
Sembra fosse un presbitero di Aosta,
che aveva il compito di custodire e celebrare, nella chiesa cimiteriale di san
Pietro. Sant'Orso, uomo semplice, pacifico e altruista, viveva da eremita
trascorrendo il tempo nella preghiera continua, sia di giorno che di notte,
dedito al lavoro manuale per procurarsi il cibo per vivere, accogliendo e
consolando e aiutando tutti quelli che a lui accorrevano. Il tutto costellato
da miracoli e prodigi, testimonianza della sua santità. Se incerto è il periodo
in cui visse (fra il V e l'VIII secolo), più sicuro è il giorno della morte,
che poi è diventato il giorno della sua festa: 1 febbraio
Sul santo più popolare della Val
d’Aosta, protettore contro le calamità naturali e molte malattie, tra cui i
reumatismi e il mal di schiena, si posa nell’iconografia, un uccellino, a
ricordare che destinava una parte del raccolto del suo campo ai passeri.
Le notizie pervenutaci sulla vita di sant’Orso, sono desunte oltre che dalle tradizioni orali, anche da una “Vita Beati Ursi” di autore sconosciuto, della quale esistono due redazioni, una più antica e breve, della fine dell’VIII secolo o inizio del IX e la seconda più ampia ed elaborata, della seconda metà del XIII secolo.
Così sappiamo che quasi certamente era un presbitero aostano, vissuto fra il V e l’VIII secolo; aveva il compito di custodire e celebrare, nella chiesa cimiteriale di San Pietro.
Questa figura di custode e celebrante di una determinata cappella o chiesa cimiteriale, era molto diffusa nei secoli passati e a volte, quando questi edifici si trovavano in zone più isolate, questi custodi-celebranti prendevano il nome di eremiti, ai quali si rivolgevano i fedeli per le loro necessità spirituali.
Lo sconosciuto autore della ‘Vita’, lo descrive come uomo semplice, dolce, umile, pacifico ed altruista; un “uomo di Dio” che coniugava la preghiera continua alle opere di carità, visitando i malati, sfamando i poveri, consolando gli afflitti e aiutando oppressi, vedove e orfani; dedito al lavoro del suo campicello per procurarsi il cibo necessario, Orso, di quanto riusciva a raccogliere dalla coltivazione, ne faceva tra parti, per sé, per i poveri, per gli uccellini, i quali dice la leggenda, riconoscenti si posavano affettuosamente sulla sua testa, sulle spalle, sulle mani; inoltre curava una piccola vigna, il cui vino aveva la virtù di guarire i malati.
Non si conosce l’anno della sua morte, ma alcuni studiosi la pongono nell’anno 529, mentre è sicuro il giorno della morte, il 1° febbraio, divenuto poi il giorno della sua festa liturgica.
Le notizie pervenutaci sulla vita di sant’Orso, sono desunte oltre che dalle tradizioni orali, anche da una “Vita Beati Ursi” di autore sconosciuto, della quale esistono due redazioni, una più antica e breve, della fine dell’VIII secolo o inizio del IX e la seconda più ampia ed elaborata, della seconda metà del XIII secolo.
Così sappiamo che quasi certamente era un presbitero aostano, vissuto fra il V e l’VIII secolo; aveva il compito di custodire e celebrare, nella chiesa cimiteriale di San Pietro.
Questa figura di custode e celebrante di una determinata cappella o chiesa cimiteriale, era molto diffusa nei secoli passati e a volte, quando questi edifici si trovavano in zone più isolate, questi custodi-celebranti prendevano il nome di eremiti, ai quali si rivolgevano i fedeli per le loro necessità spirituali.
Lo sconosciuto autore della ‘Vita’, lo descrive come uomo semplice, dolce, umile, pacifico ed altruista; un “uomo di Dio” che coniugava la preghiera continua alle opere di carità, visitando i malati, sfamando i poveri, consolando gli afflitti e aiutando oppressi, vedove e orfani; dedito al lavoro del suo campicello per procurarsi il cibo necessario, Orso, di quanto riusciva a raccogliere dalla coltivazione, ne faceva tra parti, per sé, per i poveri, per gli uccellini, i quali dice la leggenda, riconoscenti si posavano affettuosamente sulla sua testa, sulle spalle, sulle mani; inoltre curava una piccola vigna, il cui vino aveva la virtù di guarire i malati.
Non si conosce l’anno della sua morte, ma alcuni studiosi la pongono nell’anno 529, mentre è sicuro il giorno della morte, il 1° febbraio, divenuto poi il giorno della sua festa liturgica.
Gli stessi prodigi, che gli sono
stati attribuiti, sia dalla “Vitae Beati Ursi”, sia dalla tradizione, sono atti
semplici, ma sufficienti a capire la grandezza della sua intercessione, a
favore dei singoli e delle popolazioni, segnatamente della Val d’Aosta, dove
visse ed operò.
Ne riportiamo qualcuno dei tanti che la tradizione gli attribuisce; per mesi e mesi non aveva piovuto, la siccità devastava i campi, ma cominciava anche a scarseggiare l’acqua necessaria per i bisogni dei suoi fedeli; allora il santo preoccupato per loro, fece scaturire colpendo una roccia col suo bastone, una sorgente a Busséyaz; la sorgente, chiamata “Fontana di Sant’Orso”, continua ancora oggi ad offrire la sua acqua, una volta considerata miracolosa, sotto la cappella costruita nel 1649 e restaurata nell’Ottocento.
Un’altra volta, mentre dava da mangiare ai suoi uccellini, passò davanti alla chiesa di s. Pietro, un giovane cavaliere in atteggiamento disperato, si trattava di un palafreniere, che gli disse di aver smarrito il miglior cavallo del suo nobile padrone; preso dalla compassione, il santo sacerdote lo fece entrare in chiesa a pregare, poi gli disse di guardare meglio il cavallo che montava, sorprendentemente era quello che cercava, senza più riuscire a riconoscerlo.
La città di Aosta poté vedere la potenza della preghiera di s. Orso, quando fu minacciata da una terribile inondazione per lo straripamento del torrente Buthier; già le acque si erano innalzate lungo le mura, dopo aver alluvionata tutta la zona circostante, quando Orso dopo aver pregato, tracciò sulle acque un segno di croce e queste si fermarono risparmiando la città.
Ma non solo prodigi operò, ebbe anche il dono della profezia e seppe anche infuriarsi a difesa degli oppressi; un servo del vescovo-signore del tempo, Plocéan, si era comportato male nei suoi confronti; temendo un terribile castigo dal suo signore, che era un uomo crudele, sebbene fosse uomo di chiesa, il servo pentito si rivolse al santo chiedendogli di intercedere per lui.
Recatosi s. Orso dal vescovo Plocéan (Ploziano), ottenne da questi il perdono per il servo; in realtà era una finta, e quando il poveraccio uscì dalla chiesa, dove si era rifugiato, lo fece prendere dai suoi sgherri, poi flagellare, rasare a zero, infine gli fece versare sulla testa della pece bollente.
Più morto che vivo, il servo barcollando si recò dal sacerdote, rimproverandolo di averlo consegnato al vescovo. Orso indignato, rimandò il servo dal suo padrone, per riferire che sarebbe presto morto, prima dell’infelice servo.
La leggenda narra, che quella notte stessa, Plocéan fu strangolato nel suo letto da due diavoli; la scena è rappresentata scolpita su un capitello del chiostro della Collegiata, dov’è narrata la vita di sant’Orso.
Per tutti questi leggendari prodigi, sant’Orso è considerato protettore contro la siccità, le malattie del bestiame, le intemperie, le alluvioni, i soprusi dei potenti, i parti difficili, i reumatismi e il mal di schiena, per queste due malattie, i fedeli che ne erano afflitti o volevano essere preservati, si recavano nella cripta della Collegiata e camminando carponi attraversavano il “musset”, un breve cunicolo aperto nel basamento dell’altare, dove una volta vi erano deposte le reliquie di s. Orso e passavano da un lato all’altro.
Generalmente viene raffigurato con il bastone dei priori in mano, perché secondo la tradizione (non confermata), egli sarebbe stato il fondatore della Collegiata che porta il suo nome; infatti su un capitello è scolpito s. Orso che presenta a s. Agostino, il primo priore della nuova comunità, Arnolfo.
La prima Collegiata fu costruita fra il 994 e il 1025 dal vescovo Anselmo d’Aosta, inglobando al centro una chiesetta paleocristiana, dov’erano sepolti i primi martiri aostani, tanto che era detta “Concilia sanctorum”, successivamente dedicata a San Pietro e che fu la chiesa di cui era custode e celebrante il sacerdote Orso.
La collegiata rifatta più volte, ha conservato l’antica cripta, mentre le reliquie del santo, poste in una grande cassa reliquiario in argento sbalzato, fatta eseguire nel 1359 dal priore Guglielmo di Liddes, furono traslate a metà del XV secolo, dall’altare della cripta, all’altare maggiore della ricostruita Collegiata.
Sulla cassa vi sono raffigurati, Cristo tra i santi Orso e Grato, la Madonna tra i santi Pietro e Paolo e un santo diacono; grazie all’antica Collegiata e il chiostro annesso, due capolavori dell’arte romanica, a lui dedicati, a cui si aggiunge il poderoso campanile risalente al XII-XIII secolo, sant’Orso è il più noto fra i santi aostani.
Il culto di sant’Orso, assai diffuso nella Vallée già attorno all’anno Mille, dal XII secolo raggiunse anche le vicine diocesi di Torino, Vercelli, Novara, Ivrea (dove sorse poi l’ospizio che porta il suo nome); il culto si diffuse poi anche in Savoia, ad Annecy e nel Vallese.
Ne riportiamo qualcuno dei tanti che la tradizione gli attribuisce; per mesi e mesi non aveva piovuto, la siccità devastava i campi, ma cominciava anche a scarseggiare l’acqua necessaria per i bisogni dei suoi fedeli; allora il santo preoccupato per loro, fece scaturire colpendo una roccia col suo bastone, una sorgente a Busséyaz; la sorgente, chiamata “Fontana di Sant’Orso”, continua ancora oggi ad offrire la sua acqua, una volta considerata miracolosa, sotto la cappella costruita nel 1649 e restaurata nell’Ottocento.
Un’altra volta, mentre dava da mangiare ai suoi uccellini, passò davanti alla chiesa di s. Pietro, un giovane cavaliere in atteggiamento disperato, si trattava di un palafreniere, che gli disse di aver smarrito il miglior cavallo del suo nobile padrone; preso dalla compassione, il santo sacerdote lo fece entrare in chiesa a pregare, poi gli disse di guardare meglio il cavallo che montava, sorprendentemente era quello che cercava, senza più riuscire a riconoscerlo.
La città di Aosta poté vedere la potenza della preghiera di s. Orso, quando fu minacciata da una terribile inondazione per lo straripamento del torrente Buthier; già le acque si erano innalzate lungo le mura, dopo aver alluvionata tutta la zona circostante, quando Orso dopo aver pregato, tracciò sulle acque un segno di croce e queste si fermarono risparmiando la città.
Ma non solo prodigi operò, ebbe anche il dono della profezia e seppe anche infuriarsi a difesa degli oppressi; un servo del vescovo-signore del tempo, Plocéan, si era comportato male nei suoi confronti; temendo un terribile castigo dal suo signore, che era un uomo crudele, sebbene fosse uomo di chiesa, il servo pentito si rivolse al santo chiedendogli di intercedere per lui.
Recatosi s. Orso dal vescovo Plocéan (Ploziano), ottenne da questi il perdono per il servo; in realtà era una finta, e quando il poveraccio uscì dalla chiesa, dove si era rifugiato, lo fece prendere dai suoi sgherri, poi flagellare, rasare a zero, infine gli fece versare sulla testa della pece bollente.
Più morto che vivo, il servo barcollando si recò dal sacerdote, rimproverandolo di averlo consegnato al vescovo. Orso indignato, rimandò il servo dal suo padrone, per riferire che sarebbe presto morto, prima dell’infelice servo.
La leggenda narra, che quella notte stessa, Plocéan fu strangolato nel suo letto da due diavoli; la scena è rappresentata scolpita su un capitello del chiostro della Collegiata, dov’è narrata la vita di sant’Orso.
Per tutti questi leggendari prodigi, sant’Orso è considerato protettore contro la siccità, le malattie del bestiame, le intemperie, le alluvioni, i soprusi dei potenti, i parti difficili, i reumatismi e il mal di schiena, per queste due malattie, i fedeli che ne erano afflitti o volevano essere preservati, si recavano nella cripta della Collegiata e camminando carponi attraversavano il “musset”, un breve cunicolo aperto nel basamento dell’altare, dove una volta vi erano deposte le reliquie di s. Orso e passavano da un lato all’altro.
Generalmente viene raffigurato con il bastone dei priori in mano, perché secondo la tradizione (non confermata), egli sarebbe stato il fondatore della Collegiata che porta il suo nome; infatti su un capitello è scolpito s. Orso che presenta a s. Agostino, il primo priore della nuova comunità, Arnolfo.
La prima Collegiata fu costruita fra il 994 e il 1025 dal vescovo Anselmo d’Aosta, inglobando al centro una chiesetta paleocristiana, dov’erano sepolti i primi martiri aostani, tanto che era detta “Concilia sanctorum”, successivamente dedicata a San Pietro e che fu la chiesa di cui era custode e celebrante il sacerdote Orso.
La collegiata rifatta più volte, ha conservato l’antica cripta, mentre le reliquie del santo, poste in una grande cassa reliquiario in argento sbalzato, fatta eseguire nel 1359 dal priore Guglielmo di Liddes, furono traslate a metà del XV secolo, dall’altare della cripta, all’altare maggiore della ricostruita Collegiata.
Sulla cassa vi sono raffigurati, Cristo tra i santi Orso e Grato, la Madonna tra i santi Pietro e Paolo e un santo diacono; grazie all’antica Collegiata e il chiostro annesso, due capolavori dell’arte romanica, a lui dedicati, a cui si aggiunge il poderoso campanile risalente al XII-XIII secolo, sant’Orso è il più noto fra i santi aostani.
Il culto di sant’Orso, assai diffuso nella Vallée già attorno all’anno Mille, dal XII secolo raggiunse anche le vicine diocesi di Torino, Vercelli, Novara, Ivrea (dove sorse poi l’ospizio che porta il suo nome); il culto si diffuse poi anche in Savoia, ad Annecy e nel Vallese.
Saint
SEVERE, évêque de Ravenne et confesseur (348), sainte VINCENTIA son
épouse devenue sa soeur spirituelle et sainte INNOCENTIA leur fille. della
sua vita purtroppo non si sa
niente, tranne che il suo nome compare tra i partecipanti al Concilio di
Sardica (antico nome di Sofia in Bulgaria), tenutosi nel 342-343,
inoltre è fra i sottoscrittori dei canoni conciliari, della lettera
sinodica a papa s. Giulio I (337-352) e di quella a tutti i vescovi.
Come riferiscono gli agiografi medioevali Agnello e Liutolfo, Severo morì un 1° febbraio in un anno dopo il 342 e in questo giorno venne ricordato nell sntico Calendario italico, inserito poi nel Martirologio Geronimiano venne sepolto nella zona di Classe presso Ravenna, detta del Vicus Salutaris, in un sacello chiamato monasterium S. Rophili aderente al Sud della basilica del secolo VI.
http://www.santiebe ati.it/dettaglio /39350
Saint OURS, prêtre à Aoste, confesseur contre l'iconoclasme qui infestait les Alpes à cause de l'hérésie de Claude de Turin (début du IXème siècle). Sembra
fosse un presbitero di Aosta, che aveva il compito di custodire e
celebrare, nella chiesa cimiteriale di san Pietro. Sant'Orso, uomo
semplice, pacifico e altruista, viveva da eremita trascorrendo il tempo
nella preghiera continua, sia di giorno che di notte, dedito al lavoro
manuale per procurarsi il cibo per vivere, accogliendo e consolando e
aiutando tutti quelli che a lui accorrevano. Il tutto costellato da
miracoli e prodigi, testimonianza della sua santità. Se incerto è
il periodo in cui visse (fra il V e l'VIII secolo), più sicuro è il
giorno della morte, che poi è diventato il giorno della sua festa: 1
febbraioCome riferiscono gli agiografi medioevali Agnello e Liutolfo, Severo morì un 1° febbraio in un anno dopo il 342 e in questo giorno venne ricordato nell sntico Calendario italico, inserito poi nel Martirologio Geronimiano venne sepolto nella zona di Classe presso Ravenna, detta del Vicus Salutaris, in un sacello chiamato monasterium S. Rophili aderente al Sud della basilica del secolo VI.
http://www.santiebe ati.it/dettaglio /39350
Sainte BRIGITTE, Ecossaise de nation, moniale à Fiésole en Italie (début du Xème siècle).
1 di Febbraio, memoria del nostro santo padre Pietro di Buscemi in Sicilia
tratto da
https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=2165317620231736&id=100002605583903
Permane il ricordo di questo venerato asceta greco, la sua tomba nella chiesa rupestre, a lui intitolata, in contrada "Grotte di san Pietro" di Buscemi (Palazzolo Acreide, SR), su cui sorse (1192) il monastero rupestre dello Spirito Santo definito dall'illustre studioso Paolo Orsi (1917) "uno dei monumenti bizantini di primo ordineancora conservato nella Siciclia Orientale". Morto prima del 1160, veniva ricordato il 1 Febbraio, come l'epigrafe della tomba del santo parzialmente in rovina recita letteralmente: [...]MEMORIE PETRI PRIMO DIE MENSE FEBRAIO / DEPOSITUS MCLX... ANNO.... DNI .
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