Santo
Apostolo Aquila ebreo per nascita e fabbricante di tende a Roma e la sua sposa
Santa Priscilla discepoli di San Paolo e martiri entrambi probabilmente ad
Efeso(nel I secolo)
Tratto dal quotidiano
Avvenire
Aquila
e Priscilla erano due coniugi giudeo - cristiani, molto cari all'apostolo Paolo
per la loro fervente e molteplice collaborazione alla causa del Vangelo.
Aquila, giudeo originario del Ponto, trasferitosi in tempo imprecisato a Roma,
sposò Priscilla (o Prisca).L'apostolo intuì subito le buone qualità dei due
coniugi, quando chiese di essere ospitato nella loro casa a Corinto. I due lo
seguirono anche in Siria, fino ad Efeso. Qui istruirono nella catechesi
cristiana Apollo, l'eloquente giudeo - alessandrino, versatissimo nelle
Scritture, ma ignaro di qualche punto essenziale della nuova dottrina
cristiana, come il battesimo di Gesù. Aquila e Priscilla fecero in modo di
battezzarlo prima che partisse per Corinto. Niente si può asserire con certezza
sul tempo, luogo e genere di morte di Aquila e Priscilla, dato che le uniche
fonti su di essi sono citazioni bibliche. Alcuni identificano Priscilla con la
vergine e martire romana Prisca e Aquila con qualcuno della gens Acilia,
collegata con le Catacombe, perciò i due sarebbero martiri per decapitazione.
Martirologio
Romano: Commemorazione dei santi Aquila e Prisca o Priscilla, coniugi, che,
collaboratori di san Paolo, accoglievano in casa loro la Chiesa e per salvare
l’Apostolo rischiarono la loro stessa vita.
Tratto
da http://www.santiebeati.it/dettaglio/61150
Aquila
e Priscilla erano due coniugi giudeo-cristiani, molto cari all'apostolo s.
Paolo per la loro fervente e molteplice collaborazione alla causa del Vangelo.
Aquila, giudeo originario del Pònto, trasferitosi in tempo imprecisato a Roma,
sposò Priscilla o Prisca, come è due volte chiamata.
Troviamo i due santi per la prima volta a Corinto, quando Paolo vi arrivò nel suo secondo viaggio apostolico l'anno 51: essi erano venuti da poco nella capitale dell'Acaia provenienti da Roma, loro abituale dimora, in seguito al decreto dell'imperatore Claudio, che ordinava l'espulsione da Roma di tutti i giudei, fossero essi cristiani, o meno. Aquila e Priscilla erano probabilmente cristiani prima del loro incontro con Paolo a Corinto, come sembra suggerire la familiarità che subito nacque tra di loro, benché il Sinassario Costantinopolitano li dica battezzati da Paolo. L'apostolo intuì subito le buone qualità dei due coniugi e l'utilità che ne poteva trarre per la sua difficile missione a Corinto e chiese o accettò di essere loro ospite. Esercitando essi il medesimo mestiere di Paolo (fabbricanti di tende), diedero all'apostolo agio di poter lavorare e provvedersi il necessario alla vita senza essere di peso a nessuno. Quando poco dopo si dice che Paolo, lasciata la sinagoga, "entrò nella casa d'un tale Tizio Giusto, proselita", non è necessario pensare che abbia lasciato la casa di Aquila e Priscilla; I'apostolo, abbandonata la sinagoga per il rifiuto dei giudei a convertirsi, avrebbe scelto come luogo di predicazione e di culto la casa vicina ad essa, quella del proselita Tizio Giusto, mantenendo però come dimora abituale durante l'anno e mezzo che rimase a Corinto la casa di Aquila e Priscilla. È opportuno notare a questo riguardo che non si dice fungesse da "chiesa domestica" l'abitazione dei due a Corinto, come era invece il caso di quelle che essi avevano a Roma e a Efeso. Quando s. Paolo, terminata la sua missione a Corinto, volle fare ritorno in Siria, ebbe compagni di viaggio A. e P. fino ad Efeso, dove essi rimasero. L'oggetto del loro viaggio potrà essere stato commerciale, ma l'averlo fatto coincidere con quello di Paolo indica, oltre alla loro stima ed amore per lui, che essi non erano estranei alle sue preoccupazioni apostoliche. Ad Efeso infatti li vediamo premurosi, dopo la partenza dell'apostolo, nell'istruire "nella via del Signore", cioè nella catechesi cristiana, nientemeno che il celebre Apollo, l'eloquente giudeo-alessandrino, versatissimo nelle Scritture, ma ignaro di qualche punto essenziale della nuova dottrina c ristiana, come il battesimo di Gesù. Aquila e Priscilla, mossi da apostolico zelo, si presero cura di completare la sua istruzione e probabilmente di battezzarlo prima che egli partisse per Corinto. Ad Efeso offrirono la loro casa a servizio della comunità per le adunanze cultuali (ecclesia domestica) e, secondo la lezione di alcuni codd. greci, seguiti dalla Volgata latina, s. Paolo sarebbe stato loro ospite anche ad Efeso, come già lo era stato a Corinto. Scrivendo infatti da Efeso (verso il 55) la prima lettera ai Corinti, dice: "Molti saluti nel Signore vi mandano Aquila e Priscilla, con quelli che nella loro casa si adunano, dei quali sono ospite". Ma l'elogio più caldo di Aquila e Priscilla Io fa l'apostolo scrivendo da Corinto ai Romani nell'a. 58 (intanto i due coniugi per ragione del loro commercio si erano trasferiti a Roma). Nella lunga serie di venticinque persone salutate nel c. 16 della lettera ai Romani Aquila e Priscilla sono i primi: "Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù: per salvare a me la vita, essi hanno rischiato la testa; a loro non solo io rendo grazie, ma anche tutte le Chiese dei gentili. Salutate anche la comunità che si aduna in casa loro". In queste parole si sente l'animo grato dell'apostolo per i suoi insigni benefattori, che con grave loro pericolo gli hanno salvato la vita, in un'occasione non meglio precisata: forse ad Efeso, durante il tumulto degli argentieri capeggiati da Demetrio. Grande lode è poi per i due santi sposi che tutte le Chiese dei gentili siano loro debitrici d i gratitudine; di tre delle principali - Corinto, Efeso, Roma - si è fatto cenno nei testi sopracitati. L'ultima menzione di Aquila e Priscilla l'abbiamo nell'ultima lettera di s. Paolo che, prigioniero di Cristo per la seconda volta a Roma, scrive al suo discepolo Timoteo, vescovo di Efeso, incaricandolo di salutare Priscilla e Aquila, che di nuovo si erano recati ad Efeso. Niente si può asserire con certezza sul tempo, luogo e genere di morte di Aquila e Priscilla, dato che le uniche fonti su di essi sono le poche notizie bibliche citate. Alcuni, volendo identificare Priscilla, moglie di Aquila, con la vergine e martire romana s. Prisca. venerata nella chiesa omonima sull'Aventino, e con Priscilla, la titolare delle Catacombe della Via Salaria, e credendo altresì ravvisare nel nome di Aquila qualcuno della gens Acilia collegata con le dette Catacombe, li fanno martiri, anzi, prendendo occasione dal "cervices suas supposuerunt" di Rom. 16,4. determinano il genere di martirio: la decapitazione.
Troviamo i due santi per la prima volta a Corinto, quando Paolo vi arrivò nel suo secondo viaggio apostolico l'anno 51: essi erano venuti da poco nella capitale dell'Acaia provenienti da Roma, loro abituale dimora, in seguito al decreto dell'imperatore Claudio, che ordinava l'espulsione da Roma di tutti i giudei, fossero essi cristiani, o meno. Aquila e Priscilla erano probabilmente cristiani prima del loro incontro con Paolo a Corinto, come sembra suggerire la familiarità che subito nacque tra di loro, benché il Sinassario Costantinopolitano li dica battezzati da Paolo. L'apostolo intuì subito le buone qualità dei due coniugi e l'utilità che ne poteva trarre per la sua difficile missione a Corinto e chiese o accettò di essere loro ospite. Esercitando essi il medesimo mestiere di Paolo (fabbricanti di tende), diedero all'apostolo agio di poter lavorare e provvedersi il necessario alla vita senza essere di peso a nessuno. Quando poco dopo si dice che Paolo, lasciata la sinagoga, "entrò nella casa d'un tale Tizio Giusto, proselita", non è necessario pensare che abbia lasciato la casa di Aquila e Priscilla; I'apostolo, abbandonata la sinagoga per il rifiuto dei giudei a convertirsi, avrebbe scelto come luogo di predicazione e di culto la casa vicina ad essa, quella del proselita Tizio Giusto, mantenendo però come dimora abituale durante l'anno e mezzo che rimase a Corinto la casa di Aquila e Priscilla. È opportuno notare a questo riguardo che non si dice fungesse da "chiesa domestica" l'abitazione dei due a Corinto, come era invece il caso di quelle che essi avevano a Roma e a Efeso. Quando s. Paolo, terminata la sua missione a Corinto, volle fare ritorno in Siria, ebbe compagni di viaggio A. e P. fino ad Efeso, dove essi rimasero. L'oggetto del loro viaggio potrà essere stato commerciale, ma l'averlo fatto coincidere con quello di Paolo indica, oltre alla loro stima ed amore per lui, che essi non erano estranei alle sue preoccupazioni apostoliche. Ad Efeso infatti li vediamo premurosi, dopo la partenza dell'apostolo, nell'istruire "nella via del Signore", cioè nella catechesi cristiana, nientemeno che il celebre Apollo, l'eloquente giudeo-alessandrino, versatissimo nelle Scritture, ma ignaro di qualche punto essenziale della nuova dottrina c ristiana, come il battesimo di Gesù. Aquila e Priscilla, mossi da apostolico zelo, si presero cura di completare la sua istruzione e probabilmente di battezzarlo prima che egli partisse per Corinto. Ad Efeso offrirono la loro casa a servizio della comunità per le adunanze cultuali (ecclesia domestica) e, secondo la lezione di alcuni codd. greci, seguiti dalla Volgata latina, s. Paolo sarebbe stato loro ospite anche ad Efeso, come già lo era stato a Corinto. Scrivendo infatti da Efeso (verso il 55) la prima lettera ai Corinti, dice: "Molti saluti nel Signore vi mandano Aquila e Priscilla, con quelli che nella loro casa si adunano, dei quali sono ospite". Ma l'elogio più caldo di Aquila e Priscilla Io fa l'apostolo scrivendo da Corinto ai Romani nell'a. 58 (intanto i due coniugi per ragione del loro commercio si erano trasferiti a Roma). Nella lunga serie di venticinque persone salutate nel c. 16 della lettera ai Romani Aquila e Priscilla sono i primi: "Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù: per salvare a me la vita, essi hanno rischiato la testa; a loro non solo io rendo grazie, ma anche tutte le Chiese dei gentili. Salutate anche la comunità che si aduna in casa loro". In queste parole si sente l'animo grato dell'apostolo per i suoi insigni benefattori, che con grave loro pericolo gli hanno salvato la vita, in un'occasione non meglio precisata: forse ad Efeso, durante il tumulto degli argentieri capeggiati da Demetrio. Grande lode è poi per i due santi sposi che tutte le Chiese dei gentili siano loro debitrici d i gratitudine; di tre delle principali - Corinto, Efeso, Roma - si è fatto cenno nei testi sopracitati. L'ultima menzione di Aquila e Priscilla l'abbiamo nell'ultima lettera di s. Paolo che, prigioniero di Cristo per la seconda volta a Roma, scrive al suo discepolo Timoteo, vescovo di Efeso, incaricandolo di salutare Priscilla e Aquila, che di nuovo si erano recati ad Efeso. Niente si può asserire con certezza sul tempo, luogo e genere di morte di Aquila e Priscilla, dato che le uniche fonti su di essi sono le poche notizie bibliche citate. Alcuni, volendo identificare Priscilla, moglie di Aquila, con la vergine e martire romana s. Prisca. venerata nella chiesa omonima sull'Aventino, e con Priscilla, la titolare delle Catacombe della Via Salaria, e credendo altresì ravvisare nel nome di Aquila qualcuno della gens Acilia collegata con le dette Catacombe, li fanno martiri, anzi, prendendo occasione dal "cervices suas supposuerunt" di Rom. 16,4. determinano il genere di martirio: la decapitazione.
Tratto
da
http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2007/documents/hf_ben-xvi_aud_20070207.html
I coniugi Priscilla e Aquila si collocano nell’orbita dei numerosi
collaboratori gravitanti intorno all’apostolo Paolo. In base alle notizie in
nostro possesso, questa coppia di coniugi svolse un ruolo molto attivo al tempo
delle origini post-pasquali della Chiesa.
I nomi di Aquila e Priscilla sono
latini, ma l’uomo e la donna che li portano erano di origine ebraica. Almeno
Aquila, però, proveniva geograficamente dalla diaspora dell’Anatolia
settentrionale, che si affaccia sul Mar Nero - nell'attuale Turchia -, mentre
Priscilla, il cui nome si trova a volte abbreviato in Prisca, era probabilmente
un’ebrea proveniente da Roma (cfr At
18,2). È comunque da Roma che essi erano giunti a Corinto, dove Paolo li
incontrò all’inizio degli anni ’50; là egli si associò ad essi poiché, come ci
racconta Luca, esercitavano lo stesso mestiere di fabbricatori di tende o
tendoni per uso domestico, e fu accolto addirittura nella loro casa (cfr At 18,3). Il motivo della loro venuta
a Corinto era stata la decisione dell’imperatore Claudio di cacciare da Roma i
Giudei residenti nell’Urbe. Lo storico romano Svetonio ci dice su questo
avvenimento che aveva espulso gli Ebrei perché “provocavano tumulti a motivo di
un certo Cresto” (cfr “Vite dei dodici Cesari, Claudio”, 25). Si vede che non
conosceva bene il nome — invece di Cristo scrive “Cresto” — e aveva un'idea
solo molto confusa di quanto era avvenuto. In ogni caso, c'erano delle
discordie all'interno della comunità ebraica intorno alla questione se Gesù
fosse il Cristo. E questi problemi erano per l'imperatore il motivo per
espellere semplicemente tutti gli Ebrei da Roma. Se ne deduce che i due coniugi
avevano abbracciato la fede cristiana già a Roma negli anni ’40, e ora avevano
trovato in Paolo qualcuno che non solo condivideva con loro questa fede — che Gesù
è il Cristo — ma che era anche apostolo, chiamato personalmente dal Signore
Risorto. Quindi, il primo incontro è a Corinto, dove lo accolgono nella casa e
lavorano insieme nella fabbricazione di tende.
In un secondo tempo, essi si
trasferirono in Asia Minore, a Efeso. Là ebbero una parte determinante nel
completare la formazione cristiana del giudeo alessandrino Apollo Poiché egli
conosceva solo sommariamente la fede cristiana, «Priscilla e Aquila lo
ascoltarono, poi lo presero con sé e gli esposero con maggiore accuratezza la
via di Dio» (At 18,26). Quando
da Efeso l’apostolo Paolo scrive la sua Prima
Lettera ai Corinzi, insieme ai propri saluti manda esplicitamente anche
quelli di «Aquila e Prisca, con la comunità che si raduna nella loro casa»
(16,19). Veniamo così a sapere del ruolo importantissimo che questa coppia
svolse nell’ambito della Chiesa primitiva: quello cioè di accogliere nella
propria casa il gruppo dei cristiani locali, quando essi si radunavano per
ascoltare la Parola di Dio e per celebrare l'Eucaristia. È proprio quel tipo di
adunanza che è detto in greco “ekklesìa” - la parola latina è “ecclesia”,
quella italiana “chiesa” - che vuol dire convocazione, assemblea, adunanza.
Nella casa di Aquila e Priscilla, quindi, si riunisce la Chiesa, la
convocazione di Cristo, che celebra qui i sacri Misteri. E così possiamo vedere
la nascita proprio della realtà della Chiesa nelle case dei credenti. I
cristiani, infatti, fin verso il secolo III non avevano propri luoghi di culto:
tali furono, in un primo tempo, le sinagoghe ebraiche, fin quando l'originaria
simbiosi tra Antico e Nuovo Testamento si è sciolta e la Chiesa delle Genti fu
costretta a darsi una propria identità, sempre profondamente radicata
nell'Antico Testamento. Poi, dopo questa “rottura”, si riuniscono nelle case i
cristiani, che diventano così “Chiesa”. E infine, nel III secolo, nascono veri
e propri edifici di culto cristiano. Ma qui, nella prima metà del I secolo e
nel II secolo, le case dei cristiani diventano vera e propria “chiesa”. Come
detto, si leggono insieme le Sacre Scritture e si celebra l'Eucaristia. Così
avveniva, per esempio, a Corinto, dove Paolo menziona un certo «Gaio, che
ospita me e tutta la comunità» (Rm
16,23), o a Laodicea, dove la comunità si radunava nella casa di una certa
Ninfa (cfr Col 4,15), o a
Colossi, dove il raduno avveniva nella casa di un certo Archippo (cfr Fm 2).
Tornati successivamente a Roma,
Aquila e Priscilla continuarono a svolgere questa preziosissima funzione anche
nella capitale dell’Impero. Infatti Paolo, scrivendo ai Romani, manda questo
preciso saluto: «Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù;
per salvarmi la vita essi hanno rischiato la loro testa, e ad essi non io
soltanto sono grato, ma tutte le Chiese dei Gentili; salutate anche la comunità
che si riunisce nella loro casa» (Rm
16,3-5). Quale straordinario elogio dei due coniugi in queste parole! E a
tesserlo è nientemeno che l’apostolo Paolo. Egli riconosce esplicitamente in
loro due veri e importanti collaboratori del suo apostolato. Il riferimento al
fatto di avere rischiato la vita per lui va collegato probabilmente ad
interventi in suo favore durante qualche sua prigionia, forse nella stessa
Efeso (cfr At 19,23; 1 Cor 15,32; 2 Cor 1,8-9). E che alla propria gratitudine Paolo associ
addirittura quella di tutte le Chiese delle Genti, pur considerando
l’espressione forse alquanto iperbolica, lascia intuire quanto vasto sia stato
il loro raggio d’azione e, comunque, il loro influsso a vantaggio del Vangelo.
La tradizione agiografica posteriore
ha conferito un rilievo tutto particolare a Priscilla, anche se resta il
problema di una sua identificazione con un’altra Priscilla martire. In ogni
caso, a Roma abbiamo sia una chiesa dedicata a Santa Prisca sull’Aventino sia le
Catacombe di Priscilla sulla Via Salaria. In questo modo si perpetua la memoria
di una donna, che è stata sicuramente una persona attiva e di molto valore
nella storia del cristianesimo romano.
Santa
Fosca vergine e Santa Maura la sua nutrice martiri a Ravenna durante la
persecuzione di Decio tra il 249 e il 251
Tratto dal
Quotidiano Avvenire
La storia delle martiri
Fosca e Maura, secondo gli agiografi, va collocata durante la persecuzione di
Decio, nel III secolo. Secondo la narrazione di un'antica «passio», la giovane
Fosca, figlia di genitori pagani di Ravenna, a quindici anni confidò alla nutrice
Maura il desiderio di divenire cristiana. Insieme si recarono dal sacerdote
Ermolao che le educò alla fede e le battezzò. A nulla valsero i tentativi del
padre di far recedere la figlia da questo passo. Fosca fu denunciata al
prefetto Quinziano, ma gli uomini inviati ad arrestarla la trovarono con un
angelo e non riuscirono nel loro intento. Quindi Fosca e Maura, presentatesi
spontaneamente a Quinziano, vennero processate, crudelmente torturate e infine
decapitate il 13 febbraio. I loro corpi furono gettati in mare o, secondo altre
versioni, rapiti da marinai e trasportati in Tripolitania dove ebbero sepoltura
nelle grotte presso Sabratha (oggi Saqratha). Molti anni più tardi, occupata la
regione dagli Arabi, un cristiano di nome Vitale per divina ispirazione riportò
le reliquie in Italia, nell'isola di Torcello, nella laguna veneta, dove venne
eretta una chiesa in onore delle due martiri
Tratto da http://www.santiebeati.it/dettaglio/40700
Per quanto riguarda il rapporto con Ravenna, ritengo che esso abbia un'origine semplicemente "architettonica": la chiesetta di S. Fosca, che costituisce un gruppo unitario con la basilica e col battistero di Torcello, è il più antico monumento veneto che si ispiri così visibilmente al gusto bizantinoravennate (che divenne poi una delle determinanti di quello veneziano) da potere far pensare con grande probabilità ad un suo architetto proveniente dall'Esarcato. La somiglianza (seppure in scala ridotta) di quel monumento col S. Vitale di Ravenna e la comparsa appunto del nome Vitale nella passio come quello di colui che portò sulla laguna i corpi santi non fa che confermare questa ipotesi.
Tratto da
https://gpcentofanti.wordpress.com/2014/02/13/santo-di-oggi-sante-fosca-e-maura-martiri-13-febbraio/
Nei
dintorni di Venezia, una delle località più malinconicamente suggestive è
Torcello, la più antica, e per molti secoli la più splendida città della laguna
veneta. Nacque nel V secolo, quando la popolazione di Altinum fuggì davanti al
cavallo di Attila. Altinum era stata cinta di mura turrite. In ricorda
dell’antica, la nuova città fu perciò chiamata Turricellum, poi Torcello.
Quando, al tempo dei Longobardi, anche il Vescovo Paolino vi trapiantò il
pastorale, Torcello si estese e prosperò. Divenne un « grande emporio di
traffici e di lavoro », per decadere poi con lo sviluppo della vicina Venezia,
finché la malaria e l’insabbiamento della laguna completò l’opera di abbandono.
Gli antichi e mirabili edifici della città solcata dai canali, cedettero allora
sulle fondazioni marce, sprofondarono nella melma lagunare, furono spogliati.
Oggi sopravvivono soltanto due, bellissimi. Uno è la chiesa che fu cattedrale,
snella come un alto vascello, alberata da uno squadrato campanile. L’altro è la
chiesa di Santa Fosca, più tarda, ma ancor più interessante nella sua
architettura circolare, con cupola e portici ai lati: in questa chiesa
che si conservano le reliquie di Santa Fosca e di Santa Maura, martiri del III
secolo, non di Torcello, che ancora non esisteva, ma di Ravenna, allora
municipio romano.
Santa Giuliana pia donna di Torino che raccolse le reliquie dei santi martiri Ottavio Solutore ed Avventore della legione tebana(IV secolo)
Santa Giuliana pia donna di Torino che raccolse le reliquie dei santi martiri Ottavio Solutore ed Avventore della legione tebana(IV secolo)
Nella passio dei Santi martiri torinesi Avventore,
Solutore ed Ottavio, Giuliana è presentata come una pia matrona cristiana di
Ivrea che, avendo scoperto il corpo di Solutore, martirizzato sulla riva
della Dora Riparia, lo trasporta a Torino per deporlo accanto a quello dei
suoi due compagni uccisi in città, sul luogo fa edificare una memoria presso
la quale anch’ essa venne poi sepolta Alla santa gli agiografi
medievali attribuirono anche un altro ruolo, quello di educatrice di
Gaudenzio, futuro vescovo di Novara che, secondo il racconto tradizionale
della sua vita, sarebbe stato originario proprio della città di Ivrea. Essa,
prendendosi cura del piccolo Gaudenzio, avrebbe a lui trasmesso anche i primi
insegnamenti della dottrina cristiana, ad insaputa dei suoi famigliari che
nonostante i successivi sforzi del giovane, formatosi poi presso il cenobio
eusebiano di Vercelli, non abbandonarono la religione pagana.
Le reliquie della Santa sono ora conservate
nella chiesa torinese dei Santi Martiri, trasportate dalla chiesa edificata
dalla stessa santa e ingrandita nel tempo, con annesso monastero benedettino,
abbattuta nel 1536 per ordine di Francesco I di Francia
|
Santo Benigno martire a Todi sotto Diocleziano(verso il 303)
Tratto da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/40800
Nacque a Todi. La tradizione ci racconta
che fu ordinato sacerdote per la sua rettitudine e la sua bontà, e che affrontò
coraggiosamente il martirio durante l’ ultima persecuzione di Domiziano e
Massimiano. Fu seppellito lungo la strada che conduceva al Vicus Martis, una
località che oggi si chiama s. Benigno, dove un tempo fu edificato un oratorio
e quindi un monastero benedettino.
Santo Stefano igumeno a
Rieti (verso il 590)
Martirologio Romano: A Rieti,
commemorazione di santo Stefano, abate, uomo di mirabile pazienza, come attesta
di lui il papa san Gregorio Magno.
Santo Gregorio II papa e Patriarca di Roma che confessa la
retta fede di fronte l’eresia iconoclasta(731)
Martirologio Romano: A Roma presso san
Pietro, deposizione di san Gregorio II, papa, che, nei tempi funesti
dell’imperatore Leone l’Isaurico, difese la Chiesa e il culto delle sacre
immagini e inviò san Bonifacio in Germania a predicare il Vangelo.
Interessante e significativa il
seguente articolo
“E. B RUNET –Papa Gregorio II e la ricezione del
Trullano -Il ruolo di papa Gregorio II (715-731)nel processo di ricezione del
concilio Trullano o Quinisesto (692)
sta in
http://www.iuraorientalia.net/IO/IO_03_2007/III_02_2007_brunet.pdf
Aimo e Vermondo fondantori di un
Monastero a Meda nella dicoesi di Milano (verso il 790)
Tratto da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/94268
Il
più antico documento intorno ai santi Aimo e Vermondo è quello conservato in
originale alla biblioteca Trivulziana di Milano, che risale all'incirca al
1357, cui si rifecero coloro che ne scrissero, come il Bascapè, il Bugato, il
Morigia, il Ferrari e, da ultimo, l'Agrati, che ne ha pubblicato integralmente
il testo latino, dando a fianco la traduzione italiana. La tradizione li vuole
fratelli, conti di Turbigo sul Ticino, dove fondarono il monastero di S.
Vittore. Sospinti da un branco di cinghiali, mentre cacciavano in luogo
solitario, ripararono verso levante, nella regione briantea, dove più tardi
sorse l'industriosa cittadina di Meda e dove edificarono una chiesa in onore di
s. Vittore, alla quale unirono un monastero femminile secondo la regola
benedettina.
Sepolti in quella chiesa, la loro tomba fu spesso miracolosa e molti, anche da lontano, ottennero segnalati favori e grazie particolari, onde sorse la fama di santità dei due fondatori, che ancora perdura.
Il 31 maggio 1581 furono venerati da s. Carlo e da Federico Borromeo, mentre il card. Ildefonso Schuster fece una ricognizione delle reliquie dei due santi nel 1932, quando si celebrarono in loro onore dei solenni festeggiamenti.
Sepolti in quella chiesa, la loro tomba fu spesso miracolosa e molti, anche da lontano, ottennero segnalati favori e grazie particolari, onde sorse la fama di santità dei due fondatori, che ancora perdura.
Il 31 maggio 1581 furono venerati da s. Carlo e da Federico Borromeo, mentre il card. Ildefonso Schuster fece una ricognizione delle reliquie dei due santi nel 1932, quando si celebrarono in loro onore dei solenni festeggiamenti.
Tratto
da
http://www.corrierealtomilanese.com/2017/02/13/il-13-febbraio-ricorre-la-memoria-dei-santi-aimo-e-vermondo-corio-conti-di-turbigo/
Un articolo, già pubblicato sul
bollettino parrocchiale di novembre Turbigo,
un paese di 7000 abitanti che sorge su una delle sponde del fiume Ticino, ci accompagna alla scoperta di una delle cornici
affrescate nella navata centrale della chiesa parrocchiale.
Entrando nella chiesa Beata Vergine
Assunta, dirigiamoci in avanti, nella navata centrale, in corrispondenza della terza
campata dall’ingresso, sulla destra.
“Ci troviamo di fronte ad una coppia
di santi, e lo schema con cui viene organizzata la rappresentazione è
differente dalle altre cornici. Mentre il consueto angelo, all’interno di un
grande sole, è posto in centro alla scena (e non nel lobo superiore), in questo
caso troviamo due cartigli che identificano singolarmente i protagonisti: S.
AYMON e S. VERMONDOS. La sesta ed ultima cornice è dunque dedicata alla memoria
dei SANTI AIMO e VERMONDO CORIO, ai quali la tradizione medievale attribuisce
il titolo di conti di Turbigo. La narrazione viene bloccata in un momento di
grande suspense. Nel lobo inferiore fa la sua comparsa un branco di cinghiali
inferociti, raffigurati nell’atto di svellere le radici di due alberi. Al di
sopra di tali arbusti trovano riparo i Santi, che per il precario equilibrio si
aggrappano con forza agli esili rami; Aimo, sulla sinistra, osserva con timore
l’imminente pericolo e lo indica al fratello Vermondo (sulla destra), che al
contrario volge lo sguardo verso il cielo per invocare la protezione divina.
Gli abiti tradiscono l’origine nobiliare dei due giovani, entrambi abbigliati
con tuniche sontuose e mantelli dai colori sgargianti, ed in particolare si può
notare come Vermondo indossi l’armatura con una spada legata in vita. In
secondo piano, poco al di sotto del grande sole, si apre una radura, che ci
consente di intravedere un piccolo oratorio campestre con una finestra
circolare nel frontespizio. La celeberrima vicenda narrata dal pittore Albertella
si riferisce al momento della conversione di Aimo e Vermondo, che abbandonando
agi e comodità, scelsero di condurre una vita di preghiera. Approfondiamo
quindi la vita dei due protagonisti, cercando di riflettere sul significato
nascosto di quanto abbiamo descritto.
Il più antico documento che riporta
la “leggenda” di Aimo e Vermondo è conservato presso la Biblioteca Trivulziana
di Milano, e consiste in un codice miniato trecentesco, composto da autore
ignoto e miniato da Anovelo di Imbonate per incarico di Fiorina di Solbiate,
canevaria del monastero di Meda dal 1357 al 1368. Un secondo codice “gemello” è
conservato presso il Paul Getty Museum di Malibu, in California. AIMONE e
VEREMONDO, conti di Turbigo, meglio conosciuti come Aimo e Vermondo, sono due
giovani appartenenti alla nobile, ricca e potente famiglia dei Corio. Vivono
probabilmente intorno al secolo VIII, cioè all’epoca della transizione tra la
dominazione longobarda di Desiderio e quella dei Franchi di Carlo Magno, e i
loro nomi hanno una chiara origine longobarda. La biografia dei Santi Aimo e
Vermondo non è particolarmente dettagliata. La tradizione ce li descrive come
giovani aristocratici che conducevano una vita lussuosa, sempre pronti ad
ostentare le proprie ricchezze. Un giorno i due fratelli partono per una
battuta di caccia al cinghiale, circondati da amici e servitori. Mossi
dall’impeto e dalla frenesia, si allontanano dal gruppo, e una volta soli nel
silenzio del fitto bosco vengono assaliti da un branco di cinghiali inferociti.
Presi alla sprovvista, senza rinforzi e senza i loro destrieri, Aimo e Vermondo
tentano di mettersi al sicuro arrampicandosi al di sopra di due alberi
d’alloro, posti vicino ad un’edicola votiva dedicata a San Vittore martire.
Tuttavia i cinghiali non desistono, e tentano di abbattere gli arbusti.
Isolati, indifesi e deboli di fronte alle avversità, Aimo e Vermondo
comprendono la vacuità della loro esistenza, realizzando come il potere, il
denaro e il prestigio non siano in grado di salvarli. Sentendosi prossimi alla
fine, i due nobili fanno voto alla Vergine Maria e a San Vittore martire,
promettendo, in cambio della loro incolumità, di donare ingenti ricchezze ai
poveri e di edificare in quel luogo un monastero. Miracolosamente i cinghiali
desistono dal loro intento, consentendo ai fratelli Corio di poter discendere
sani e salvi dal loro riparo. In seguito a quanto accaduto i due giovani
tengono fede a quanto promesso, e dopo aver fondato il monastero benedettino di
Meda (dedicato a San Vittore) vi trascorsero il resto della loro esistenza,
dedicandosi al servizio dei più bisognosi. I fratelli Corio vennero sepolti
nella chiesa del monastero, e qualche tempo dopo la loro morte si verificarono
eventi prodigiosi attribuiti alla loro intercessione, spingendo la Chiesa ad
istruire la pratica per la loro canonizzazione. Venerati anche da San Carlo
Borromeo e dal Cardinale Federico Borromeo, i due Santi furono da sempre
oggetto di una devozione particolare. La memoria liturgica ricorre il 13
febbraio.
La devozione nei confronti di Aimo e
Vermondo non figura tra gli antichi culti turbighesi, e venne riscoperta
inizialmente grazie all’infaticabile don Pietro Bossi, che avviò le prime
indagini sui due Santi. L’anno di svolta fu però il 1932, quando il cardinale Ildefonso
Schuster, Arcivescovo di Milano, compì una ricognizione delle reliquie. Sempre
in quell’anno, grazie all’interessamento del parroco don Edoardo Riboni, si
riuscì a ottenere la traslazione di parte dei resti dal Monastero di Meda alla
Parrocchia di Turbigo, dando il via a solenni festeggiamenti. Nel “Chronicum”
del 1932 troviamo infatti così annotato: “Turbigo ignorava la nascita dei SS.
Aimo e Vermondo, due fratelli dei Conti Corio. Il Parroco col Card. Schuster e
coi documenti alla mano poterono accertarsi che questi santi sono oriundi di
Turbigo. Si fecero feste grandiose per il trasporto delle Reliquie. Venne il
Vicario Generale, Mons. Tredici, che poi venne nominato Vescovo di Brescia,
compagno di scuola (del Parroco). I Turbighesi hanno tanta devozione a questi
Santi”. Anche i registri dell’anagrafe parrocchiale testimoniano il progressivo
attaccamento della popolazione al nuovo culto, come ci viene ricordato dai
numerosi “Aimo” e “Vermondo” battezzati in quegli anni. Per ufficializzare in
modo definitivo la nuova devozione si decise dunque di inserire i due Santi
all’interno del ciclo pittorico della parrocchiale, collocando la grande
cornice proprio di fronte all’altare, in posizione speculare rispetto ad altri
due fratelli santi, Cosma e Damiano.
CARLO AZZIMONTI
BIBLIOGRAFIA
- Bibliotheca Sanctorum, Roma, Città Nova Editrice, 1967, vol. I, p. 641.
- GIUSEPPE LEONI – PAOLO MIRA – PATRIZIA MORBIDELLI, La parrocchia e i suoi parroci. Quinto centenario di fondazione parrocchia Beata Vergine Assunta, Turbigo, 1995.
- PAOLO MIRA, La Chiesa della Beata Vergine Assunta di Turbigo, Turbigo, 2002.
- PAOLO MIRA, Aimo e Vermondo, due santi della nobiltà longobarda, FONDAZIONE Abbatia Sancte Marie de Morimundo, 2004, anno XI.
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