Santo
Celerino di nazionalità africana,confessore della fede a Roma sotto Decio,poi
lettore(o diacono) a Cartagine dove trovò il martirio (a metà del secondo
secolo)
Martirologio
Romano:
A Cartagine, nell’odierna
Tunisia, san Celerino, lettore e martire: in carcere, non vinto da ceppi, spada
e vari supplizi, confessò Cristo, seguendo le orme di sua nonna Celerina già da
tempo coronata dal martirio, dello zio paterno Lorenzo e dello zio materno
Ignazio, che, un tempo soldati attivi nella vita militare, ma poi divenuti vera
milizia di Dio, ottennero con la loro gloriosa passione la palma e la corona
dal Signore
Tratto da http://www.santiebeati.it/dettaglio/39420
Africano,
probabilmente di Cartagine, appartenne alla famiglia dei santi martiri Lorenzo,
Ignazio e Celerina, rispettivamente suo zio paterno, suo zio materno e sua
nonna, dei quali la Chiesa cartaginese festeggiava ogni anno il dies natalis.
Allo scoppio della persecuzione di Decio (gennaio 250), Celerino si trovava a
Roma. Arrestato con molti altri cristiani, dopo diciannove giorni di duro
carcere che gli lasciarono i segni dei ceppi e della fame, impegnò battaglia
contro il promotore della feroce persecuzione e «vinse l'avversario con la sua
indomabile energia, così da meritarsi la sua ammirazione e aprire agli altri la
via della vittoria» (san Cipriano). Rilasciato, forse, anche per la sua giovane
età, si angosciò per la sorte di due cristiane «cadute», Numeria e Candida. In
attesa che la decisione sulla riammissione delle colpevoli in seno alla Chiesa
fosse presa dal successore del papa Fabiano (martirizzato il 20 gennaio),
Celerino sollecitò uno speciale intervento dei fratelli cartaginesi imprigionati:
il primo a essere chiamato al martirio avrebbe dovuto concedere alle due
disgraziate un biglietto d'indulgenza in vista del loro pentimento e delle cure
da esse prestate a sessantacinque cristiani cartaginesi esiliati a Roma.
Celerino scrisse in tal senso all'amico Luciano e questi, dalla prigione in cui
languiva d'inedia, rispose positivamente: appena tornata la pace le due
colpevoli e tutti gli altri lapsi romani pentiti avrebbero ottenuto il perdono
previo esame della loro causa da parte del vescovo e la confessione della loro
colpa. San Cipriano biasimò l'iniziativa temeraria di Luciano, «uomo di fede
ardente e di robusto coraggio, ma poco fondato nella Sacra Scrittura»; lodò,
invece, la prudenza e la reverenza per la religione che trasparivano dalla lettera
di Celerino; quando questi, alla fine del 250 (Tillemont) o al principio del
251 (Ferron), si recò a Cartagine ed espresse a Cipriano, appartato nel suo
nascondiglio, l'ammirazione dei cristiani di Roma, il vescovo lo nominò subito
lettore della Chiesa cartaginese, forse meditando di conferirgli in seguito gli
altri ordini sacri. Celerino, riluttante, accettò, dopo una visione notturna,
quell'onore ecclesiastico. Forse una cattiva interpretazione della notifica
della nomina, fatta
da Cipriano al clero e al popolo cartaginese, ha indotto gli autori delle notizie su Celerino nei martirologi storici (compreso il Romano) a designarlo erroneamente come diacono.
È dubbio se debba essere identificato col Celerino che papa Cornelio, nella lettera a Fabio vescovo di Antiochia, dice travolto dallo scisma di Novaziano e poi tornato all'ortodossia (PL, III, coll. 759-60a). Fu certo latore della lettera indirizzata da Cipriano a Cornelio, quando questi era esule a Civitavecchia (Tillemont).
i martirologi storici, seguendo Floro di Lione, ne fissino la festa il 3 gennaio, in coincidenza con la commemorazione della nonna e degli zii.
da Cipriano al clero e al popolo cartaginese, ha indotto gli autori delle notizie su Celerino nei martirologi storici (compreso il Romano) a designarlo erroneamente come diacono.
È dubbio se debba essere identificato col Celerino che papa Cornelio, nella lettera a Fabio vescovo di Antiochia, dice travolto dallo scisma di Novaziano e poi tornato all'ortodossia (PL, III, coll. 759-60a). Fu certo latore della lettera indirizzata da Cipriano a Cornelio, quando questi era esule a Civitavecchia (Tillemont).
i martirologi storici, seguendo Floro di Lione, ne fissino la festa il 3 gennaio, in coincidenza con la commemorazione della nonna e degli zii.
SANTO BIAGIO MARTIRE IN
CAPPADOCIA E PATRONO DI MATERA IN ITALIA (VERSO IL TERZO SECOLO )
Tratto
dal quotidiano Avvenire
Il martire Biagio è
ritenuto dalla tradizione vescovo della comunità di Sebaste in Armenia al tempo
della "pax" costantiniana. Il suo martirio, avvenuto intorno al 316,
è perciò spiegato dagli storici con una persecuzione locale dovuta ai contrasti
tra l'occidentale Costantino e l'orientale Licinio. Nell'VIII secolo alcuni
armeni portarono le reliquie a Maratea (Potenza), di cui è patrono e dove è
sorta una basilica sul Monte San Biagio. Il suo nome è frequente nella
toponomastica italiana - in provincia di Latina, Imperia, Treviso, Agrigento,
Frosinone e Chieti - e di molte nazioni, a conferma della diffusione del culto.
Avendo guarito miracolosamente un bimbo cui si era conficcata una lisca in
gola, è invocato come protettore per i mali di quella parte del corpo. A quell'atto
risale il rito della "benedizione della gola", compiuto con due
candele incrociate.
MARTIROLOGIO ROMANO.
A Sebàste, in Arménia, la passione di
san Biàgio, Vescovo e Martire, il quale, operatore di molti miracoli, sotto il
Preside Agricolào, dopo essere stato lungamente battuto e sospeso ad un legno,
ove con pettini di ferro gli furono lacerate le carni, dopo aver sofferto
un'orrida prigione ed essere stato sommerso in un lago, dal quale uscì salvo,
finalmente, per ordine del medesimo giudice, insieme con due fanciulli, fu
decapitato. Prima di lui sette donne, le quali raccoglievano le gocce di sangue
che scorrevano dal corpo dello stesso Martire, mentre era tormentato, furono
arrestate come Cristiane, e tutte dopo atroci tormenti percosse con la spada.
Tratto
da https://www.santodelgiorno.it/san-biagio/
S. Biagio nacque a Sebaste
nell'Armenia. Passò la giovinezza fra gli studi, dedicandosi in modo
particolare alla medicina. Al letto dei sofferenti curava le infermità del
corpo, e con la buona parola e l'esempio cristiano cercava pure di risanare le
infermità spirituali. E pensava di
entrare in un monastero, quando, morto il vescovo di Sebaste, venne eletto a
succedergli. Da quell'istante la sua vita fu tutta spesa pel bene dei suoi
fedeli.
In quel tempo la persecuzione scatenata da Diocleziano e continuata da Licinio infuriava nell'Armenia per opera dei presidi Lisia ed Agricola°. Quest'ultimo, appena prese possesso della sua sede, Sebaste, si pose con febbrile attività in cerca di Biagio, il vescovo di cui sentiva continuamente magnificare lo zelo. Ma il sagace pastore, per non lasciare i fedeli senza guida., si era eclissato in una caverna del monte Argeo.
Per moltissimo tempo rimase celato in quella solitudine, vivendo in continua preghiera e continuando sempre il governo della Chiesa con messaggi segreti. Un giorno però un drappello di soldati mandati alla caccia delle belve per i giochi dell'anfiteatro, seguendo le orme delle fiere, giunsero alla sua grotta. Saputo che egli era precisamente il vescovo Biagio, lo arrestarono subito e lo condussero al preside.
Il tragitto dal monte alla città fu un vero trionfo, perchè il popolo, nonostante il pericolo che correva, venne in folla a salutare colui che aveva in somma venerazione. Fra tanta gente corse anche una povera donna che, tenendo il suo povero bambino moribondo sulle sue braccia, scongiurava con molte lacrime il Santo a chiedere a Dio la guarigione del figlio. Una spina di pesce gli si era fermata in gola e pareva lo volesse soffocare da un momento all'altro. Biagio, mosso a compassione di quel bambino, sollevò gli occhi al cielo e fece sul sofferente il segno della croce.
— Mamma, sono guarito,
— gridò tosto il bambino
— sono guarito!...
Giunto a Sebaste, il prigioniero venne condotto dal giudice Agricola°, che voleva convincerlo a sacrificare agli idoli; ma il Santo con gran calma gli dimostrò che quello era un atto indegno di una creatura ragionevole, perché la ragione dice all'uomo che vi è un Dio solo, eterno, e creatore di ogni cosa, e non molti dei . Per tutta risposta il giudice lo fece battere con verghe e poi gettare in carcere.
Dopo qualche tempo lo volle di nuovo al tribunale, per interrogarlo nuovamente, ma trovò sempre in lui la più grande fermezza. Gli furono allora lacerate le carni con pettini di ferro e così lacero com'era fu sospeso ad un tronco d'albero. Sperimentati ancora contro l'invitto martire tutti i supplizi più inumani, fu condannato ad essere sommerso in un lago. I carnefici condottolo sulla sponda lo lanciarono nell'acqua, e mentre tutti si aspettavano di vederlo annegare. Biagio tranquillamente si pose a camminare sull'acqua finché raggiunse la sponda opposta. Il giudice. fuori di sè, vedendo di non poter spegnere altrimenti quella vita prodigiosa, lo fece decapitare.
In quel tempo la persecuzione scatenata da Diocleziano e continuata da Licinio infuriava nell'Armenia per opera dei presidi Lisia ed Agricola°. Quest'ultimo, appena prese possesso della sua sede, Sebaste, si pose con febbrile attività in cerca di Biagio, il vescovo di cui sentiva continuamente magnificare lo zelo. Ma il sagace pastore, per non lasciare i fedeli senza guida., si era eclissato in una caverna del monte Argeo.
Per moltissimo tempo rimase celato in quella solitudine, vivendo in continua preghiera e continuando sempre il governo della Chiesa con messaggi segreti. Un giorno però un drappello di soldati mandati alla caccia delle belve per i giochi dell'anfiteatro, seguendo le orme delle fiere, giunsero alla sua grotta. Saputo che egli era precisamente il vescovo Biagio, lo arrestarono subito e lo condussero al preside.
Il tragitto dal monte alla città fu un vero trionfo, perchè il popolo, nonostante il pericolo che correva, venne in folla a salutare colui che aveva in somma venerazione. Fra tanta gente corse anche una povera donna che, tenendo il suo povero bambino moribondo sulle sue braccia, scongiurava con molte lacrime il Santo a chiedere a Dio la guarigione del figlio. Una spina di pesce gli si era fermata in gola e pareva lo volesse soffocare da un momento all'altro. Biagio, mosso a compassione di quel bambino, sollevò gli occhi al cielo e fece sul sofferente il segno della croce.
— Mamma, sono guarito,
— gridò tosto il bambino
— sono guarito!...
Giunto a Sebaste, il prigioniero venne condotto dal giudice Agricola°, che voleva convincerlo a sacrificare agli idoli; ma il Santo con gran calma gli dimostrò che quello era un atto indegno di una creatura ragionevole, perché la ragione dice all'uomo che vi è un Dio solo, eterno, e creatore di ogni cosa, e non molti dei . Per tutta risposta il giudice lo fece battere con verghe e poi gettare in carcere.
Dopo qualche tempo lo volle di nuovo al tribunale, per interrogarlo nuovamente, ma trovò sempre in lui la più grande fermezza. Gli furono allora lacerate le carni con pettini di ferro e così lacero com'era fu sospeso ad un tronco d'albero. Sperimentati ancora contro l'invitto martire tutti i supplizi più inumani, fu condannato ad essere sommerso in un lago. I carnefici condottolo sulla sponda lo lanciarono nell'acqua, e mentre tutti si aspettavano di vederlo annegare. Biagio tranquillamente si pose a camminare sull'acqua finché raggiunse la sponda opposta. Il giudice. fuori di sè, vedendo di non poter spegnere altrimenti quella vita prodigiosa, lo fece decapitare.
Tratto
da
https://it.zenit.org/articles/san-biagio-di-sebaste-il-vescovo-martire-protettore-della-gola/
San Biagio era originario
dell’Armenia, medico e vescovo eletto dalla sua città Sebaste. Invalidando
quell’editto di Milano che pur ne definiva la fine, nel 313 dc Licinio diede
inizio all’ultima persecuzione dei cristiani, una delle più cruente nella
storia dell’impero romano d’Oriente e lo stesso vescovo fu costretto a
nascondersi in una grotta sul monte Argias. Ritrovato dai Romani venne
imprigionato e, rifiutando di negare la propria religione, sottoposto ad
atrocissime torture. Fu frustato, dilaniato con i pettini di ferro, rinchiuso
in una carrozza rovente, addirittura gettato in un fiume legato ad un masso con
il suo corpo che rimase a galla seduto, ricordando il miracolo di Gesù che
camminava sulle acque. Questi furono solo alcuni dei supplizi che subì pur di
difendere la propria fede.
Nonostante fosse in carcere, guarì
molti da diverse malattie tra cui un ragazzo che stava soffocando per una lisca
di pesce, ecco perché ad oggi viene definito come il protettore della gola.
Licinio lo condannò nel 316 dc alla decapitazione e quando la sua testa fu
mozzata fece tre giri intorno a se stessa, continuando a parlare.
Nella cittadina calabrese di Serra
San Bruno, conosciuta per la presenza di una Certosa e dell’ordine certosino di
San Bruno, la figura di San Biagio è venerata da secoli e fino a pochi anni fa
egli ne era il patrono. Le notizie storiografiche insegnano che la sua immagine
venne ritrovata intorno all’ottavo secoloin una chiesa abbandonata vicino la
cittadina e poi trasferita in quella che ad oggi è l’attuale chiesa Matrice
dedicata al Santo, la principale di tutte. Ogni 3 febbraio le celebrazioni
solenni hanno inizio con il Canto dell’Ufficio che ripercorre la vita di Biagio
fino alla morte. A termine della liturgia, si impone la “benedizione della
gola”: incrociando due candele alla gola di ogni fedele, il sacerdote recita
<< per intercessione di San
Biagio, il Signore ti liberi dal mal di gola e da qualsiasi altro male>>,
un rinnovo continuo del miracolo compiuto in prigione.
Tratto da http://www.enrosadira.it/santi/b/biagio.htm
Biagio, vissuto nel IV
secolo, era un medico di origine armena. Divenne vescovo della città di Sebaste
dove operò numerosi miracoli. Arerstato dal preside Agricolao durante la
persecuzione ordinata da Licinio, fu imprigionato, lungamente picchiato e sospeso
ad un legno, dove con pettini di ferro gli fu scorticata la pelle e quindi
lacerate le carni. Dopo un nuovo periodo di prigionia, fu gettato in un lago,
dal quale uscì salvo, quindi per ordine dello stesso giudice, subì il martirio
decapitato insieme con due fanciulli e dopo l'uccisione di sette donne
arrestate perché raccoglievano le gocce di sangue che scorrevano dal corpo
dello stesso martire, durante il suo supplizio. E’ stato innalzato alla dignità
di santo ed è invocato contro i mali di gola, perché durante la sua prigionia,
guarì miracolosamente un ragazzo che aveva una lisca di pesce conficcata nella
trachea. E’ Patrono di Maratea, città che ne conserva le reliquie. Secondo la
tradizione, queste, insieme a quelle di san Macario, giunsero a Maratea nel
732, quando una nave proveniente da un porto orientale, si arenò a causa di una
tempesta presso l'isolotto di S. Janni. Gli abitanti del Castello raggiunsero
l'imbarcazione per portare soccorso e vi trovarono oltre l’equipaggio, le sacre
reliquie conservate in un urna marmorea, che fu portata in cima al monte dove
rimase custodita. Il 3 maggio 1941 fu fatta una ricognizione ufficiale per il
riconoscimento di quanto contenuto nell’urna: il torace, una parte del cranio,
un osso di un braccio e un femore del santo armeno. La venerazione di Maratea
per il santo protettore accrebbe l'evento miracoloso della santa manna. in più
di un’occasione, la statua e le pareti della basilica si ricoprirono, e in modo
abbondante, di un liquido acquoso, di colore giallastro, raccolto dai fedeli e
adoperato con estrema devozione per la cura dei malati, in quanto proprietario
di poteri taumaturgici. Fu papa Pio IV, all’epoca vescovo di Cassano, che nel
1563 riconobbe il liquido come “manna celeste”. San Biagio è ricordato dalla
chiesa il giorno natale, cioè il 3 febbraio, quando fu decapitato, ma a Maratea
la festa patronale si celebra nella seconda domenica di maggio con un
cerimoniale stabilito da un protocollo vecchio di secoli. I festeggiamenti
durano otto giorni e si aprono il sabato precedente la prima domenica di maggio
con la processione al Castello, detta "S.Biagio va per la terra". Il
giovedì successivo, il simulacro del Santo viene portato a Maratea Inferiore,
ela mattina della seconda domenica di maggio la statua, coperta col drappo
rosso, torna nella sua abituale sede al Castello.
Saint CELERIN, Africain de nation, confesseur à Rome sous Dèce, puis diacre à Carthage (milieu du IIIème siècle). A
Cartagine, nell’odierna Tunisia, san Celerino, lettore e martire: in
carcere, non vinto da ceppi, spada e vari supplizi, confessò Cristo,
seguendo le orme di sua nonna Celerina già da tempo coronata dal
martirio, dello zio paterno Lorenzo e dello zio materno Ignazio, che, un
tempo soldati attivi nella vita militare, ma poi divenuti vera milizia
di Dio, ottennero con la loro gloriosa passione la palma e la corona dal
Signore
Sainte SECONDINE, vierge et martyre à Agnani (vers 257). Santa
Secondina, originaria di Anagni, si
convertì al cristianesimo e ricevette il battesimo per mano del vescovo
San Magno martire. Non tardò ad abbattersi anche su di lei la furia
della persecuzione anticristiana indetta dall’imperatore Decio. Il suo
corpo riposa nella cattedrale di Anagni, nell’altare di sinistra
Saint BLAISE le Bouvier, martyr à Césarée de Cappadoce (IIIème siècle). Il
martire Biagio è ritenuto dalla tradizione vescovo della comunità di
Sebaste in Armenia al tempo della "pax" costantiniana. Il suo martirio,
avvenuto intorno al 316, è perciò spiegato dagli storici con una
persecuzione locale dovuta ai contrasti tra l'occidentale Costantino e
l'orientale Licinio. Nell'VIII secolo alcuni armeni portarono le
reliquie a Maratea (Potenza), di cui è patrono e dove è sorta una
basilica sul Monte San Biagio.
Il suo nome è frequente nella
toponomastica italiana - in provincia di Latina, Imperia, Treviso,
Agrigento, Frosinone e Chieti - e di molte nazioni, a conferma della
diffusione del culto. Avendo guarito miracolosamente un bimbo cui si era
conficcata una lisca in gola, è invocato come protettore per i mali di
quella parte del corpo.
A quell'atto risale il rito della "benedizione
della gola", compiuto con due candele incrociate
Saint LAURENT l'Illuminateur, Syrien de nation, évêque de Spolète en Ombrie (Italie, vers
576).
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