... Hermagora and the origins of Christianity in Aquileia In the four
lunettes there are displayed the scenes of the Passion of Christ and the
Death of Mary
Santo
Ermagora discepolo dell’Evangelista Marco e primo vescovo di Aquileia e Sa
Fortunato il suo diacono martiri sotto Nerone tra l’anno 64 e l’anno 68
Tratto da
quotidiano Avvenire
Ermagora
è il vescovo col quale comincia il catalogo episcopale di Aquileia e non c'è
ragione di dubitare di questa testimonianza. Sarebbe vissuto verso la metà del
III secolo e dopo di lui quel catalogo continua senza interruzione, nonostante
qualche incertezza, fino alla soppressione della diocesi patriarcale nel 1751.
Oltre a questo, nulla sappiamo di sicuro a proposito del protovescovo. A tale
mancanza intese supplire una diffusa leggenda formatasi durante l'VIII secolo.
Essa narra che l'evangelista san Marco, inviato da san Pietro a evangelizzare
l'Italia superiore, giunto ad Aquileia, vi incontrò un cittadino di nome
Ermagora e, convertitolo al Cristianesimo, lo consacrò vescovo della città,
avviando così l'evangelizzazione di tutta l'area mitteleuropea. Egli vi avrebbe
conclusa la sua missione con il martirio durante la persecuzione suscitata da
Nerone e compagno gli sarebbe stato il suo diacono Fortunato. I due santi sono
patroni dell'arcidiocesi di Gorizia, dell'arcidiocesi e della città di Udine nonché,
da pochi anni, di tutta la Regione
Tratto
da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/62150
Ermagora
è il vescovo col quale comincia il catalogo episcopale di Aquileia e non c'è
ragione di dubitare di questa testimonianza. Egli sarebbe vissuto forse verso
la metà del sec. III e dopo di lui quel catalogo continua senza interruzione,
nonostante qualche incertezza.
Oltre a questo, nulla sappiamo di sicuro a proposito del protovescovo. A tale mancanza intese supplire una diffusa leggenda che, formatasi già durante il sec. VIII, raggiunse la sua maturità durante il secolo seguente, non senza subire aggiunte e varianti nell'età posteriore. Essa sorse e si sviluppò nell'intento di dare un'origine apostolica alla Chiesa di Aquileia e narra che l'evangelista s. Marco, inviato da s. Pietro ad evangelizzare l'Italia superiore, giunto ad Aquileia, vi incontrò un cittadino di nome Ermagora e, convertitolo al Cristianesimo, lo consacrò vescovo della città; anzi, secondo una variante, lo condusse a Roma, dove s. Pietro in persona lo consacrò. Mentre s. Marco sarebbe stato inviato ad evangelizzare Alessandria, s. Ermagora sarebbe stato inviato ad Aquileia ed avrebbe evangelizzata quella città e le regioni circonvicine. Egli vi avrebbe conclusa la sua missione con il martirio durante la persecuzione suscitata da Nerone e compagno gli sarebbe stato il suo diacono Fortunato. La loro memoria fu celebrata al 12 luglio, data nella quale sono ricordati anche nel Martirologio Romano, nella Chiesa di Aquileia ed in altre Chiese. Nelle diverse redazioni nelle quali ci fu tramandato il Martirologio Geronimiano, i due martiri sono notati sempre sotto quella stessa data; ma è assai notevole che al primo posto sia ricordato 3. Fortunato, anzi, in qualche esemplare dello stesso Martirologio si legge soltanto il suo nome. Ci sorprende inoltre che Venanzio Fortunato nel sec. VI ricordi due volte s. Fortunato in Aquileia: una volta nella Vita di s. Martino: "Ac Fortunati benedictam urnam", un'altra volta in Miscellanea : "Et Fortunatum fert Aquileiam suum".
Doveva essere perciò un martire assai celebrato; invece Venanzio non fa cenno di Ermagora. Finalmente, nel Martirologio citato, accanto a Fortunato, è ricordato il secondo martire col come così deformato: Armageri, Armagri, Armigeri, secondo i diversi codd. Che questo martire, che non è però qualificato col titolo di vescovo, sia il nostro Ermagora, non pare sia da dubitare, e che il suo nome, tutt'altro che comune, possa essere stato storpiato dai copisti, non sorprende coloro che hanno qualche familiarità col Geronimiano; sorprende invece che sia messo nel secondo posto. Ma la spiegazione di questa anomalia potrebbe aversi nel fatto che l'estensore del Martirologio trovò in un antico elenco di martiri (o forse nello stesso Venanzio Fortunato) il nome dell'aquileiese Fortunato e vi aggiunse quello del primo vescovo aquileiese, che doveva essergli assai meno noto. Ma c'è dell'altro: nello stesso Geronimiano troviamo, sotto il 22 o 23 agosto, ricordati per Aquileia: "sanctorum Fortunati Hermogenis", questo secondo nome deformato anche in Hermogerati, Ermodori. Pare però evidente che questo Ermogene non è che una ripetizione di Ermagora; infatti già gli antichi Bollandisti avevano pensato ad una identificazione dei due gruppi. Va pure notato che il 14 agosto si festeggiavano i martiri Felice e Fortunato (il secondo sempre aquilese) ai quali basti qui accennare.
Oltre a questo, nulla sappiamo di sicuro a proposito del protovescovo. A tale mancanza intese supplire una diffusa leggenda che, formatasi già durante il sec. VIII, raggiunse la sua maturità durante il secolo seguente, non senza subire aggiunte e varianti nell'età posteriore. Essa sorse e si sviluppò nell'intento di dare un'origine apostolica alla Chiesa di Aquileia e narra che l'evangelista s. Marco, inviato da s. Pietro ad evangelizzare l'Italia superiore, giunto ad Aquileia, vi incontrò un cittadino di nome Ermagora e, convertitolo al Cristianesimo, lo consacrò vescovo della città; anzi, secondo una variante, lo condusse a Roma, dove s. Pietro in persona lo consacrò. Mentre s. Marco sarebbe stato inviato ad evangelizzare Alessandria, s. Ermagora sarebbe stato inviato ad Aquileia ed avrebbe evangelizzata quella città e le regioni circonvicine. Egli vi avrebbe conclusa la sua missione con il martirio durante la persecuzione suscitata da Nerone e compagno gli sarebbe stato il suo diacono Fortunato. La loro memoria fu celebrata al 12 luglio, data nella quale sono ricordati anche nel Martirologio Romano, nella Chiesa di Aquileia ed in altre Chiese. Nelle diverse redazioni nelle quali ci fu tramandato il Martirologio Geronimiano, i due martiri sono notati sempre sotto quella stessa data; ma è assai notevole che al primo posto sia ricordato 3. Fortunato, anzi, in qualche esemplare dello stesso Martirologio si legge soltanto il suo nome. Ci sorprende inoltre che Venanzio Fortunato nel sec. VI ricordi due volte s. Fortunato in Aquileia: una volta nella Vita di s. Martino: "Ac Fortunati benedictam urnam", un'altra volta in Miscellanea : "Et Fortunatum fert Aquileiam suum".
Doveva essere perciò un martire assai celebrato; invece Venanzio non fa cenno di Ermagora. Finalmente, nel Martirologio citato, accanto a Fortunato, è ricordato il secondo martire col come così deformato: Armageri, Armagri, Armigeri, secondo i diversi codd. Che questo martire, che non è però qualificato col titolo di vescovo, sia il nostro Ermagora, non pare sia da dubitare, e che il suo nome, tutt'altro che comune, possa essere stato storpiato dai copisti, non sorprende coloro che hanno qualche familiarità col Geronimiano; sorprende invece che sia messo nel secondo posto. Ma la spiegazione di questa anomalia potrebbe aversi nel fatto che l'estensore del Martirologio trovò in un antico elenco di martiri (o forse nello stesso Venanzio Fortunato) il nome dell'aquileiese Fortunato e vi aggiunse quello del primo vescovo aquileiese, che doveva essergli assai meno noto. Ma c'è dell'altro: nello stesso Geronimiano troviamo, sotto il 22 o 23 agosto, ricordati per Aquileia: "sanctorum Fortunati Hermogenis", questo secondo nome deformato anche in Hermogerati, Ermodori. Pare però evidente che questo Ermogene non è che una ripetizione di Ermagora; infatti già gli antichi Bollandisti avevano pensato ad una identificazione dei due gruppi. Va pure notato che il 14 agosto si festeggiavano i martiri Felice e Fortunato (il secondo sempre aquilese) ai quali basti qui accennare.
Tratto
da
http://www.diocesi.trieste.it/santi-ermacora-vescovo-e-fortunato-diacono-martiri/
Secondo il Catalogo episcopale aquileiese Ermacora e
Fortunato furono il primo vescovo di Aquileia e il suo diacono. Nella loro
passio si racconta che l’apostolo Pietro, mentre si trovava a Roma, incaricò il
discepolo ed evangelista Marco di diffondere la buona novella nella città di
Aquileia. Obbediente, Marco intraprese questo lungo viaggio e finalmente giunse
in vista della metropoli altoadriatica. Presso la porta occidentale incontrò un
giovane lebbroso, il quale, saputo che Marco era un medico cristiano capace di
guarire tutte le malattie, lo scongiurò di sanarlo. L’evangelista allora lo
toccò e all’istante il suo braccio e la sua mano guarirono. Il giovane, che si
chiamava Ataulfo ed era di nobile stirpe, corse a casa e raccontò tutto al
padre Ulfila: questi a sua volta si precipitò dallo straordinario taumaturgo e
lo pregò di guarire completamente il suo figliolo. Marco esaudì la preghiera,
vedendo che Ulfila era pronto ad accogliere la fede cristiana con cuore
sincero; infatti il nobiluomo volle essere subito battezzato insieme alla sua
famiglia.
Dopo aver svolto la sua missione per alcuni anni,
convertendo numerosi aquileiesi e formando la prima comunità cristiana del
luogo, Marco desiderò far ritorno a Roma per rivedere Pietro. Egli condusse con
sé Ermacora, vir christianissimus et elegans persona (uomo di salda fede e
persona corretta), affinché fosse consacrato vescovo da Pietro in persona.
Ritornato in patria, Ermacora continuò a predicare con fervore, compiendo
miracoli, battezzando, ordinando sacerdoti e diaconi, inviando missionari nelle
città della regione aquileiese.
Allorché ad Aquileia si insediò il nuovo preside,
Sebasto, i sacerdoti pagani gli chiesero di intervenire nei confronti di
Ermacora, colpevole di sedurre il popolo con la nuova religione e di
allontanarlo dai templi degli dei romani. Sebasto lo fece arrestare
immediatamente e gli intimò di abiurare e di sacrificare agli dei
pubblicamente. Al suo netto rifiuto, lo condannò alle consuete atroci torture;
Ermacora le sopportò tanto coraggiosamente da impietosire il popolo, che a gran
voce chiese al preside di farle cessare. Temendo disordini, irritato e
impaurito Sebasto fece incarcerare Ermacora. Anche in cella il vescovo continuò
a pregare e a parlare di Cristo, cosicché Ponziano, il suo carceriere,
convertitosi, chiese il battesimo. Con l’aiuto di Ponziano molti aquileiesi
poterono recarsi in carcere per ascoltare la predicazione di Ermacora e
convertirsi, profondamente colpiti dalla luce e dal profumo soavissimo che
emanavano dalla sua cella.
Questo fatto indispettì molto i sacerdoti pagani i
quali, minacciosi, intimarono al preside di condannare il vescovo alla pena
capitale, come del resto era già stato fatto a Roma nei confronti di Pietro.
Sebasto domandò tre giorni di tempo per riflettere e agire con prudenza. In
quei giorni Ermacora potè compiere altri miracoli: guarì il figlio di Gregorio,
che era indemoniato, e ridonò la vista alla matrona Alessandria. Inoltre, su
richiesta dei presbiteri, nominò suo successore il diacono Fortunato. Sempre
più impaurito dalle minacce dei suoi sacerdoti, il preside decise di far
decapitare Ermacora insieme a Fortunato, ma volle che la condanna fosse
eseguita di nascosto, in carcere e di notte, per timore di tumulti. I loro
corpi furono raccolti da Ponziano, Gregorio e Alessandria e sepolti nel recinto
funerario di quest’ultima, in un cimitero non lontano dalle mura della città.
Tutti i malati che si recavano a venerarne la tomba riacquistavano la salute.
Tratto
da
http://www.viaggioinfriuliveneziagiulia.it/wcms/index.php?id=5849,2750,0,0,1,0
Non sappiamo
molto sulla vita dei santi
Ermacora e Fortunato. Le notizie che abbiamo ci vengono dalla
tradizione della chiesa aquileiese che indica Ermacora come primo Vescovo di Aquileia e
Fortunato come suo diacono, vissuti, sembra, intorno alla metà del III secolo. Le “passio” medioevali, raccontano che San Pietro, da Roma inviò l’Evangelista Marco ad evangelizzare la città di Aquileia e le terre vicine. Questa era una delle città più grandi dell’Impero e sembra con una presenza ebraica abbastanza numerosa. Marco sbarcò sulle spiagge a sud di Aquileia e si diresse verso la città. Qui si fermò per alcuni anni, predicando il vangelo, compiendo numerose guarigioni e convertendo moltissime persone.
Dopo questo periodo Marco desiderò rivedere Pietro e quindi decise di partire per Roma. Suo compagno di viaggio era colui che egli aveva scelto per diventare il vescovo della comunità cristiana di Aquileia perché fosse ordinato direttamente da Pietro: Ermacora. Questi viene descritto come “vir christianissime et elegans persona” (uomo cristianissimo e persona corretta).
Ermacora fece ritorno nella capitale della Venetia et Histria, per continuare la sua missione. Si dedicò senza sosta alla predicazione, alle guarigioni, all’ordinazione di sacerdoti e diaconi, all’invio di missionari in varie parti della regione. I sacerdoti pagani chiesero al nuovo preside di Aquileia, Sebasto, di contrastare l’azione di Ermacora che era divenuto noto e convertiva alla fede cristiana moltissime persone. Sebasto lo fece arrestare, richiedendo una sua pubblica abiura e sacrifici agli dei.
Il netto rifiuto di Ermacora comportò per lui delle durissime torture, che tuttavia sopportò in maniera tanto eroica da far si che il popolo chiedesse per lui clemenza. Sebasto, timoroso di una rivolta, lo fece incarcerare. Qui il vescovo Ermacora ebbe modo di convertire il suo carceriere Ponziano, che consentì a moltissimi di potergli fare visita, beneficiando della sua predicazione.
Guarì il figlio di Gregorio da una possessione diabolica e fece riacquistare la vista ad una matrona di nome Alessandria. Nomino quindi il diacono Fortunato, suo successore. Si narra che dalla sua cella uscisse una luce e un profumo soavissimo. I sacerdoti pagani chiesero a Sebasto in maniera decisa che Ermacora fosse giustiziato. Sebasto chiese del tempo per agire con prudenza, ma dopo tre giorni fece decapitare di nascosto Ermacora e il suo diacono Fortunato. Ponziano, Gregorio e Alessandria recuperarono i corpi e li deposero in un cimitero in prossimità delle mura della città, in un sepolcro di proprietà di Alessandria.
l luogo della loro sepoltura si dice
che divenne meta di pellegrinaggi e fonte di guarigioni. Luogo che tuttavia non
è mai stato individuato. Sembra fosse nei pressi della via Gemina. Una fonte
medioevale dice che furono traslati in una cripta del duomo di Grado.
Questo, in realtà, è un racconto
tradizionale di carattere leggendario, probabilmente nato anche con finalità
morali e di memoria. L’incongruenza temporale tra le vite di Pietro e Marco (I
secolo) e quella dei due santi (III secolo), tipica della prospettiva storica
medioevale, ne è una prova. Di storico c’è soltanto la decapitazione dei due
santi ad Aquileia, come testimoniato dal martirologio Geronimiano, considerato
attendibile. Esso, il 12 luglio riporta: «IV Id. Iul. In Aquileia sanctorum
Fortunati et Armageri». Questo documento è arrivato a noi in varie redazioni,
in cui viene riportato il nome di Ermacora anche nelle forme Armagrus e
Armigerus. Di fatto non sappiamo bene nemmeno quale rapporto ci fosse tra i due
martiri.
Infatti si nota come nel
martirologio citato i due non vengono definiti Vescovo e diacono e Fortunato
precede Ermacora. Addirittura in un altro codice è presente solo Fortunato. Su
questi aspetti il dibattito storiografico è ancora molto aperto. Le “passio”
medievali si sono basate sugli “acta” di Ermacora e Fortunato che sono una
trascrizione di epoca Carolingia,
della tradizione orale aquileiese.
La tradizione nacque tra il 553 e il
699, all’epoca dello scisma dei Tre Capitoli, in cui Aquileia e Roma erano su
posizioni opposte riguardo ad alcuni assunti teologici. Aquileia rivendicava la
propria dignità di chiesa apostolica, che le derivava dalla linea Ermacora,
Marco, Pietro. Da qui l’autocefalia che autorizzava i propri vescovi a
definirsi patriarchi. Ermacora e Fortunato sono patroni delle arcidiocesi di
Udine e Gorizia e celebrati, come da antica tradizione, il 12 luglio.
Dal 2001 sono patroni della Regione
Friuli Venezia Giulia. Sono stati raffigurati in varie opere d’arte, tra le
quali spiccano gli affreschi della basilica di Aquileia; nelle pale di Giovanni Martini (1501) e Giovan Battista Tiepolo (1732) nel
Duomo di Udine; in alcuni lavori di oreficeria nel tesoro del Duomo di Grado; e
in molte altre opere.
Il tesoro del Duomo di Gorizia è
invece conservato il bastone pastorale di Ermacora, donato da San Pietro
secondo la leggenda, e che fu il pastorale dei Patriarchi sicuramente fin
dall’epoca di Poppone. Prescindendo dai racconti della tradizione è sicuramente
un oggetto molto antico e di un altissimo valore simbolico.
Bibliografia:
AA. VV. - Santi e martiri nel Friuli
Venezia Giulia; Ermacora e Fortunato a cura di Gabriella Brumat Della Sorte;
2001; Edizioni Messaggero Padova.
Paschini, Pio - Storia del Friuli; 1975; III ed.; Arti Grafiche Friulane, Udine.
Paschini, Pio - Storia del Friuli; 1975; III ed.; Arti Grafiche Friulane, Udine.
• Viaggio in Friuli Venezia Giulia
Leggere anche
Appunti storiografici sui Santi aquileiesi Ermacora e
Fortunato
Santo Paolino da
Antiochia primo vescovo di Lucca in Toscana e martire sotto Nerone
Tratto da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/61950
S.
Paolino è venerato a Lucca come protovescovo e martire; sono numerose le
pubblicazioni che parlano di lui, del culto e soprattutto della leggenda che lo
fa primo vescovo della città e poi dell’epigrafe del suo sarcofago.
Il suo nome è sconosciuto nel catalogo medioevale dei primi vescovi di Lucca e anche alle fonti agiografiche e liturgiche, fino alla seconda metà del secolo XIII; il culto è strettamente collegato ad una ‘invenzione’ delle reliquie, avvenuta nella chiesa di S. Giorgio nel 1261, fra le altre scoperte archeologiche, che già dal secolo precedente avvenivano in quella chiesa.
La leggenda è frutto della favolosa ‘passio’ pisana di s. Torpete, che racconta di Nerone (37-68), persecutore dei cristiani in Pisa, ma che presenta anche come battezzatore del santo, un presbitero di nome ‘Antonius’ che viveva sul monte fuori porta lucchese, chiamato Monte degli Eremiti, perché sede fin dall’alto Medioevo degli eremiti toscani.
E la ricerca e ritrovamento del sepolcro dell’eremita Antonio, conosciuto poi come infaticabile raccoglitore dei corpi dei martiri, da lui sepolti sul suo monte; portò alla scoperta della lapide ‘titulus’ del vescovo Paolino, insieme a quelli di altri.
Il suo sepolcro comunque ebbe la solenne ricognizione o invenzione molti anni dopo, il 15 giugno 1261; la lettera del vescovo di Lucca che accordava delle indulgenze in quell’occasione riporta i dati dell’iscrizione, limitandosi a parlare di tre martiri, solo elencati per nome: Paolino vescovo e discepolo di s. Pietro apostolo, primo vescovo di Lucca, Severo presbitero e Teobaldo soldato.
I martiri nominati in quell’occasione e lo stesso Antonio finirono nell’oblio a tutto vantaggio di s. Paolino che nella ‘passio’ elaborata poi, divenne primo vescovo ed evangelizzatore e patrono, nonostante l’antico culto tributato al vescovo locale s. Frediano e quello già dato come patrono della Chiesa lucchese a s. Martino, a cui era dedicata la cattedrale.
Quando nel 1341 venne rinnovata la chiesa di San Paolino, questa è presentata negli ‘Atti’ come primitiva cattedrale di Lucca.
Il culto per s. Paolino, aumentò nei secoli successivi; tra il 1518 e 1519 venne eretta al santo patrono, su disegno di Baccio da Montelupo, una più ampia e ricca basilica, dove ogni anno la Magistratura della Repubblica di Lucca, rendeva solennemente omaggio al santo nella sua festa del 12 luglio.
Il sarcofago antichissimo, con l’epigrafe descrivente il ritrovamento delle reliquie di s. Paolino, di s. Severo e s. Teobaldo e della ricognizione del 1261, è conservato a Lucca nella Prioria dei ss. Paolino e Donato.
Il suo nome è sconosciuto nel catalogo medioevale dei primi vescovi di Lucca e anche alle fonti agiografiche e liturgiche, fino alla seconda metà del secolo XIII; il culto è strettamente collegato ad una ‘invenzione’ delle reliquie, avvenuta nella chiesa di S. Giorgio nel 1261, fra le altre scoperte archeologiche, che già dal secolo precedente avvenivano in quella chiesa.
La leggenda è frutto della favolosa ‘passio’ pisana di s. Torpete, che racconta di Nerone (37-68), persecutore dei cristiani in Pisa, ma che presenta anche come battezzatore del santo, un presbitero di nome ‘Antonius’ che viveva sul monte fuori porta lucchese, chiamato Monte degli Eremiti, perché sede fin dall’alto Medioevo degli eremiti toscani.
E la ricerca e ritrovamento del sepolcro dell’eremita Antonio, conosciuto poi come infaticabile raccoglitore dei corpi dei martiri, da lui sepolti sul suo monte; portò alla scoperta della lapide ‘titulus’ del vescovo Paolino, insieme a quelli di altri.
Il suo sepolcro comunque ebbe la solenne ricognizione o invenzione molti anni dopo, il 15 giugno 1261; la lettera del vescovo di Lucca che accordava delle indulgenze in quell’occasione riporta i dati dell’iscrizione, limitandosi a parlare di tre martiri, solo elencati per nome: Paolino vescovo e discepolo di s. Pietro apostolo, primo vescovo di Lucca, Severo presbitero e Teobaldo soldato.
I martiri nominati in quell’occasione e lo stesso Antonio finirono nell’oblio a tutto vantaggio di s. Paolino che nella ‘passio’ elaborata poi, divenne primo vescovo ed evangelizzatore e patrono, nonostante l’antico culto tributato al vescovo locale s. Frediano e quello già dato come patrono della Chiesa lucchese a s. Martino, a cui era dedicata la cattedrale.
Quando nel 1341 venne rinnovata la chiesa di San Paolino, questa è presentata negli ‘Atti’ come primitiva cattedrale di Lucca.
Il culto per s. Paolino, aumentò nei secoli successivi; tra il 1518 e 1519 venne eretta al santo patrono, su disegno di Baccio da Montelupo, una più ampia e ricca basilica, dove ogni anno la Magistratura della Repubblica di Lucca, rendeva solennemente omaggio al santo nella sua festa del 12 luglio.
Il sarcofago antichissimo, con l’epigrafe descrivente il ritrovamento delle reliquie di s. Paolino, di s. Severo e s. Teobaldo e della ricognizione del 1261, è conservato a Lucca nella Prioria dei ss. Paolino e Donato.
Santa
Epifania martire a Lentini in Sicilia Sotto Diocleziano-“"convertita dai Tre Santi Frartelli Alfio, Cirino e Filadelfo martiri, subi il taglio delle
mammelle e poi rese lo spirito "
Tratto da
http://www.centamore.it/TreSanti/I_Santi_Martiri.asp
Santa
Epifana martire
nella conversione del marito Alessandro
nella conversione del marito Alessandro
Il Ministro di Tertullo, Alessandro,
una notte vide nel Carcere dove stavano rinchiusi i Tre Santi Fratelli, una
gran luce soprannaturale. Dal buco della serratura della porta scorse che
Sant'Andrea Apostolo, sceso dal cielo, (confortava i Tre Santi. Poi vide Tecla
e Giustina entrare nel carcere con riserve di viveri mentre le porte si
aprivano da sole. Alessandro si convertì alla fede dei Cristiani e fuggì allo
Sperone.
Tertullo fece arrestare la moglie di
lui per conoscere il luogo del nascondiglio del marito.
Invano; Epifania tacque e non
cedette alle losche brame del tiranno. La fece uccidere lassù dove c'è oggi la
Chiesa della Madonna della Catena, tagliandole le mammelle come a Sant'Agata.
Il corpo di Santa Epifana fu
raccolto da Tecla e riposto nei Sepolcri dei Tre Fratelli.
Santo Paterniano Vescovo di Fano
Tratto dal Quotidiano Avvenire
Secondo
un’antica tradizione, san Paterniano nacque a Fano verso il 275. Mentre
infuriava la persecuzione di Diocleziano una visione angelica lo avvertì di
lasciare la città, riparando in luogo deserto al di là del fiume Metauro. Più
tardi, quando le persecuzioni cessarono e il Cristianesimo divenne religione di
stato con l’imperatore Costantino, la cittadinanza fanese reclamò vescovo il
virtuoso eremita da tutti considerato santo. Invano egli tentò di opporsi,
tanto che «quasi a viva forza» fu portato in città. Governò la diocesi per 42
anni istruendo, confortando e convertendo numerosi pagani. Il Signore avvalorò
il suo zelo con molti prodigi. Avvertito della fine imminente, intraprese la
visita all’intera diocesi, volendo arrivare di persona dove non era giunto il
suo insegnamento. Morì alla periferia della città il 13 novembre, probabilmente
dell’anno 360. Sul suo sepolcro si moltiplicarono i prodigi e il suo culto si
estese rapidamente anche oltre i confini d’Italia. Trentadue paesi l’hanno
scelto patrono e molte località portano il suo nome. Le sue reliquie si
venerano a Fano, nella Basilica a Lui dedicata
Tratto
da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/90981
Secondo
un'antica tradizione, San Paterniano nacque a Fano verso il 275.
Mentre infuriava la persecuzione di Diocleziano una visione angelica lo avvertì di lasciare la città, riparando in luogo deserto al di là del fiume Metauro. Più tardi, quando le persecuzioni cessarono e il Cristianesimo divenne Religione di Stato con l'imperatore Costantino, la cittadinanza fanese reclamò Vescovo il virtuoso eremita che la voce comune considerava santo.
Invano egli tentò di opporsi, tanto che "quasi a viva forza" fu portato in città. Governò la diocesi per 42 anni placando gli animi, istruendo e confortando. I pagani, trascinati dalla sua predicazione, abbandonarono gli idoli e distrussero i templi stringendosi al santo Vescovo. Il Signore avvalorò il suo zelo con una bella fioritura di prodigi.
Avvertito della fine imminente, intraprese la visita all'intera diocesi, volendo arrivare di persona dove non era giunto il suo insegnamento di Vescovo. Morì alla periferia della città il 13 novembre, probabilmente dell'anno 360. Sul suo sepolcro si moltiplicarono i prodigi e il suo culto si estese rapidamente anche oltre i confini d'Italia. Trentadue paesi l'hanno scelto patrono e molte località portano il suo nome. Le sue reliquie si venerano a Fano, nella Basilica a Lui dedicata.
Mentre infuriava la persecuzione di Diocleziano una visione angelica lo avvertì di lasciare la città, riparando in luogo deserto al di là del fiume Metauro. Più tardi, quando le persecuzioni cessarono e il Cristianesimo divenne Religione di Stato con l'imperatore Costantino, la cittadinanza fanese reclamò Vescovo il virtuoso eremita che la voce comune considerava santo.
Invano egli tentò di opporsi, tanto che "quasi a viva forza" fu portato in città. Governò la diocesi per 42 anni placando gli animi, istruendo e confortando. I pagani, trascinati dalla sua predicazione, abbandonarono gli idoli e distrussero i templi stringendosi al santo Vescovo. Il Signore avvalorò il suo zelo con una bella fioritura di prodigi.
Avvertito della fine imminente, intraprese la visita all'intera diocesi, volendo arrivare di persona dove non era giunto il suo insegnamento di Vescovo. Morì alla periferia della città il 13 novembre, probabilmente dell'anno 360. Sul suo sepolcro si moltiplicarono i prodigi e il suo culto si estese rapidamente anche oltre i confini d'Italia. Trentadue paesi l'hanno scelto patrono e molte località portano il suo nome. Le sue reliquie si venerano a Fano, nella Basilica a Lui dedicata.
Tratto da
http://www.turismo.comunecervia.it/it/scopri-il-territorio/personaggi-storia-tradizioni/riti-leggende/antiche-feste-cervesi/san-paterniano
Paterniano visse la maggior parte
della sua vita nel IV secolo, quando la Chiesa , ormai libera di manifestarsi e
di annunciare il Vangelo, approfondiva il contenuto della dottrina cristiana
lottando contro le eresie e, intorno ai suoi vescovi, rinsaldava le basi delle
convivenza civile. Fu quella un'epoca di grandi santi vescovi: Ambrogio (+397),
Geminiano (+397), Gaudenzio di Rimini (+360), la condivisero con Paterniano e
probabilmente ebbero ad incontrarlo.
Nato verso il 275, fu eremita, poi
Vescovo di Fano e la tradizione vuole che sia morto il 13 novembre del 360,
dopo quarantadue anni di ministero pastorale.
All'epoca della persecuzione di
Diocleziano degli anni 304-305, che fu l'ultima e la più dolorosa, il giovane
Paterniano visitava, confortava e sosteneva i cristiani che attendevano in
preghiera di essere chiamati in giudizio. Provvidenzialmente gli fu evitato il
processo: lo attendeva infatti un altro destino. Un angelo lo invitò ad
allontanarsi dalla città in solitudine, per fare la volontà di Dio. Si fece
quindi eremita, con pochi amici, in una grotta di là dal Metauro; qui, tentando
di sfruttare la sua bontà e, presentandosi come una fanciulla bisognosa di
protezione, il diavolo lo tentò inutilmente. Dopo che nel 313 Costantino diede
libertà di culto ai cristiani, le comunità cercavano buoni vescovi che le
guidassero e la città di Fano chiese all'eremita di assumere la sua guida.
Paterniano vedendo in ciò la volontà di Dio, accettò.
Di lui si ricorda, tra l'altro, che
restituì la vista a una donna che aveva consumato i suoi occhi piangendo i
cristiani perseguitati e sanato uno storpio.
Trenta giorni prima della sua morte,
un angelo gli annunciò l'imminente trapasso: il santo vescovo si mise dunque in
viaggio e visitò tutte le comunità che da lui dipendevano, rinvigorendone la
fede. Il dies natalis (cioè il giorno della sua morte che equivale al giorno
della nascita al Cielo) di Paterniano fu contrassegnata da un raggio di luce
che squarciò le nubi e investì tutta la persona dell'anziano vescovo.
La fama di Paterniano si diffuse
ovunque e nei nomi stessi di molti paesi ne troviamo la testimonianza. La sua
fama infatti si era diffusa in tutte le Marche, l'Umbria, l'Emilia Romagna, e,
portata dai pellegrini, giunse, lungo la famosa via del sale, fino ad un paese
del Salisburgese, Paternion, che porta il suo nome, e nella cui chiesa troviamo
narrata per immagini la sua storia.
Santi Nabore e Felice martiri a Milano (verso 304)
Tratto dal quotidiano Avvenire
FriulNabore
e Felice erano due soldati di origine nordafricana, arrivati a Milano nel IV
secolo per servire nell'esercito di Massimiano. Divennero cristiani e, a Lodi
Vecchio (Laus Pompeia), furono giustiziati per aver disertato. Si trattava in
realtà di un'«epurazione» dei cristiani dai ranghi militari. I corpi furono
portati nella basilica milanese detta «naboriana». Il loro culto pian piano
decadde, e con esso la chiesa, fino a che nel XIII secolo i francescani non
ravvivarono tutt'e due. Nel 1799 i martiri furono traslati nella basilica di
Sant'Ambrogio. Ma i busti con i crani sparirono e furono ritrovati 160 anni
dopo presso un'antiquario belga.i Venezia Giulia.
Tratto da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/62000
S. Ambrogio vescovo di Milano è
l’autore dell’inno Victor Nabor, Felix pii che è diventato il fondamento
storico della figura dei tre martiri Vittore, Nabore e Felice. Sì i martiri
secondo Ambrogio sono tre, ma Vittore è celebrato da solo l’8 maggio, mentre
Nabore e Felice il 12 luglio; la divisione del culto, secondo una leggenda
venuta dopo l’età ambrosiana, è stata determinata dalla diversa collocazione
dei sepolcri, oltre che dalla data, Vittore a Milano, gli altri due a Lodi.
Essi erano soldati di origine nord-africana (Mauri genus), venuti a Milano per servire nell’esercito di Massimiano (governatore delle regioni nord-occidentali), qui divennero cristiani. Nel 303 la persecuzione contro i cristiani era già di fatto esplosa in Oriente, soprattutto contro quelli appartenenti alla forza militare; anche Massimiano, seguendo l’invito dei governatori orientali, diede ordine di effettuare le depurazioni nel suo esercito.
I tre soldati disertarono e quindi processati e condannati a morte, ma la sentenza non fu eseguita a Milano, ma furono trasferiti a Lodi Vecchio (Laus Pompeia) e lì giustiziati mediante decapitazione, per dare un monito alla fiorente comunità cristiana del luogo.
Si suppone che dopo il 311 i corpi dei tre martiri vennero traslati a Milano e deposti separatamente in due basiliche cimiteriali: Vittore in quella che poi sarebbe stata incorporata in S. Ambrogio; Nabore e Felice in quella detta poi “Naboriana”.
Nella ricognizione dei corpi dei santi Gervasio e Protasio del 386, si racconta che essi erano nella basilica in cui Nabore e Felice godevano di gran culto popolare, culto che venne tributato dai milanesi sino a tutto il secolo IV, poi con il progredire del culto dei ‘milanesi’ santi Protasio e Gervasio, la devozione verso Nabore e Felice, subì un’attenuazione per tutto l’Alto Medioevo.
Dopo il 1249, la vetusta e cadente basilichetta ‘naboriana’ fu affidata ai francescani, i quali la rinnovarono completamente, riproponendo il culto dei martiri lì sepolti, infatti gli statuti milanesi del 1396, stabilirono che il 12 luglio fosse festa di precetto per la città, precetto che Carlo V abolì nel 1537.
Nel 1258 i due martiri vennero traslati nella nuova chiesa, nel 1472 vi fu una diversa posizione dei corpi collocati insieme al nuovo altare, in questa occasione i due crani furono divisi dal resto delle reliquie e posti in appositi reliquiari d’argento a forma di busto, esposti poi, come anche nei secoli successivi, solennemente nelle feste principali sull’altare maggiore.
Il 22 gennaio 1799, le reliquie furono traslate in S. Ambrogio, perché l’antica basilica paleocristiana venne soppressa, in quel periodo scomparvero i due busti con i crani, che sono stati poi ritrovati solo 160 anni dopo presso un antiquario di Namur in Belgio, completi delle reliquie.
L’allora arcivescovo di Milano cardinale Montini, futuro papa Paolo VI, ne dispose il ritorno con solenni onoranze, prima a Milano e poi a Lodi Vecchio; il culto ancora una volta si è rinverdito; i santi sono raffigurati di solito con la corazza di soldati e la palma del martirio, in vari luoghi sacri della diocesi ambrosiana.
Essi erano soldati di origine nord-africana (Mauri genus), venuti a Milano per servire nell’esercito di Massimiano (governatore delle regioni nord-occidentali), qui divennero cristiani. Nel 303 la persecuzione contro i cristiani era già di fatto esplosa in Oriente, soprattutto contro quelli appartenenti alla forza militare; anche Massimiano, seguendo l’invito dei governatori orientali, diede ordine di effettuare le depurazioni nel suo esercito.
I tre soldati disertarono e quindi processati e condannati a morte, ma la sentenza non fu eseguita a Milano, ma furono trasferiti a Lodi Vecchio (Laus Pompeia) e lì giustiziati mediante decapitazione, per dare un monito alla fiorente comunità cristiana del luogo.
Si suppone che dopo il 311 i corpi dei tre martiri vennero traslati a Milano e deposti separatamente in due basiliche cimiteriali: Vittore in quella che poi sarebbe stata incorporata in S. Ambrogio; Nabore e Felice in quella detta poi “Naboriana”.
Nella ricognizione dei corpi dei santi Gervasio e Protasio del 386, si racconta che essi erano nella basilica in cui Nabore e Felice godevano di gran culto popolare, culto che venne tributato dai milanesi sino a tutto il secolo IV, poi con il progredire del culto dei ‘milanesi’ santi Protasio e Gervasio, la devozione verso Nabore e Felice, subì un’attenuazione per tutto l’Alto Medioevo.
Dopo il 1249, la vetusta e cadente basilichetta ‘naboriana’ fu affidata ai francescani, i quali la rinnovarono completamente, riproponendo il culto dei martiri lì sepolti, infatti gli statuti milanesi del 1396, stabilirono che il 12 luglio fosse festa di precetto per la città, precetto che Carlo V abolì nel 1537.
Nel 1258 i due martiri vennero traslati nella nuova chiesa, nel 1472 vi fu una diversa posizione dei corpi collocati insieme al nuovo altare, in questa occasione i due crani furono divisi dal resto delle reliquie e posti in appositi reliquiari d’argento a forma di busto, esposti poi, come anche nei secoli successivi, solennemente nelle feste principali sull’altare maggiore.
Il 22 gennaio 1799, le reliquie furono traslate in S. Ambrogio, perché l’antica basilica paleocristiana venne soppressa, in quel periodo scomparvero i due busti con i crani, che sono stati poi ritrovati solo 160 anni dopo presso un antiquario di Namur in Belgio, completi delle reliquie.
L’allora arcivescovo di Milano cardinale Montini, futuro papa Paolo VI, ne dispose il ritorno con solenni onoranze, prima a Milano e poi a Lodi Vecchio; il culto ancora una volta si è rinverdito; i santi sono raffigurati di solito con la corazza di soldati e la palma del martirio, in vari luoghi sacri della diocesi ambrosiana.
Tratto da
http://www.30giorni.it/articoli_supplemento_id_22117_l1.htm
«Si può facilmente immaginare la
sorpresa e la gioia» (è lui stesso a esprimersi così) di Giovanni Battista
Montini, allora arcivescovo di Milano, quando, alla vigilia del Natale 1959,
gli giunse notizia dal vescovo di Namur che erano stati là fortunosamente
rinvenuti i crani dei santi martiri Nabore e Felice. Continua Montini:
«Dobbiamo dirci fortunati per questo eccezionale episodio che ci richiama allo
studio della nostra storia religiosa, legata, con nodo intrecciato dallo stesso
sant’Ambrogio, alla memoria di questi santi, ci invita a considerare
l’importanza che ha avuto la venerazione delle reliquie nella nostra
spiritualità ambrosiana, ci esorta a rinnovare il nostro culto verso questi pignora della nostra fede». Furono pignora di Milano cristiana, in
effetti, quei due soldati; cioè furono al contempo segni sicuri, caparre e
ostaggi, secondo le diverse valenze del termine latino. Sui basamenti di quella
Chiesa di Milano, ancora piccola al tempo della persecuzione di Diocleziano e sterilem martyribus (senza martiri),
come la dirà poi sant’Ambrogio, finalmente venivano scritti dei nomi.
Finalmente in quei corpi essa cominciava ad avere la caparra della sua fede.
A quella Chiesa di Milano erano stati donati in pegno dalle lontane terre dell’Africa occidentale. Erano Mauri genus, provenivano cioè dalla Mauritania e forse appartenevano a quella tribù dei Getuli che costituì una delle riserve cui attinsero di preferenza gli eserciti del Basso Impero. Erano di stanza a Milano, allora residenza dell’augusto Massimiano Erculeo e anche delle sue truppe scelte. «Solo hospites terrisque nostris advenae / ospiti del nostro suolo, e di passaggio nelle nostre terre», li dice sant’Ambrogio. Eppure sono loro per antonomasia i Mediolani martyres (i martiri di Milano), perché la loro vera nascita (dies natalis) non avvenne nel sangue getulo della loro madre di carne, ma nel sangue del martirio (due vasetti di vetro custodiscono ancora le tracce di quel sangue che, con cura, come tante altre volte avvenne, qualche cristiano aveva raccolto).
Furono uccisi di spada, dopo essere stati individuati come cristiani, in quell’anticipo della persecuzione di Diocleziano del 297 consistente nell’epurazione dall’esercito, o comunque in misure degradanti per coloro che si rifiutavano al culto idolatrico.
Niente di favolistico o di inventato ad arte in questo e tanti altri martìri di soldati.
L’esercito era ormai da tempo, almeno dalla metà del III secolo, il fulcro del potere imperiale; insieme con esso, l’altro punto di forza considerato irrinunciabile dal potere imperiale del momento era il recupero della antica tradizione religiosa: la fedeltà ad essa veniva ora riconosciuta come unico criterio di verità, di moralità e di ordine. Non a caso Diocleziano e Massimiano, i due augusti a capo dell’Impero, avevano assunto fin dal 289 il titolo rispettivamente di Iovius e di Herculius, volendo fondare la loro autorità attraverso l’autoadozione nella famiglia delle tradizionali divinità romane. Da una parte, alcuni filosofi prestati alla politica, come Teotecno o come il neoplatonico Ierocle, con impazienza furiosa, davano copertura teoretica e più raffinate ragioni a quella politica religiosa. Dall’altra, la potente casta degli aruspici, tradizionali custodi del paganesimo etrusco-romano, fomentava questa medesima politica religiosa col denunciare la presenza dei cristiani come ragione del “silenzio” della divinità, cioè dell’inefficacia dei vaticini.
A quella Chiesa di Milano erano stati donati in pegno dalle lontane terre dell’Africa occidentale. Erano Mauri genus, provenivano cioè dalla Mauritania e forse appartenevano a quella tribù dei Getuli che costituì una delle riserve cui attinsero di preferenza gli eserciti del Basso Impero. Erano di stanza a Milano, allora residenza dell’augusto Massimiano Erculeo e anche delle sue truppe scelte. «Solo hospites terrisque nostris advenae / ospiti del nostro suolo, e di passaggio nelle nostre terre», li dice sant’Ambrogio. Eppure sono loro per antonomasia i Mediolani martyres (i martiri di Milano), perché la loro vera nascita (dies natalis) non avvenne nel sangue getulo della loro madre di carne, ma nel sangue del martirio (due vasetti di vetro custodiscono ancora le tracce di quel sangue che, con cura, come tante altre volte avvenne, qualche cristiano aveva raccolto).
Furono uccisi di spada, dopo essere stati individuati come cristiani, in quell’anticipo della persecuzione di Diocleziano del 297 consistente nell’epurazione dall’esercito, o comunque in misure degradanti per coloro che si rifiutavano al culto idolatrico.
Niente di favolistico o di inventato ad arte in questo e tanti altri martìri di soldati.
L’esercito era ormai da tempo, almeno dalla metà del III secolo, il fulcro del potere imperiale; insieme con esso, l’altro punto di forza considerato irrinunciabile dal potere imperiale del momento era il recupero della antica tradizione religiosa: la fedeltà ad essa veniva ora riconosciuta come unico criterio di verità, di moralità e di ordine. Non a caso Diocleziano e Massimiano, i due augusti a capo dell’Impero, avevano assunto fin dal 289 il titolo rispettivamente di Iovius e di Herculius, volendo fondare la loro autorità attraverso l’autoadozione nella famiglia delle tradizionali divinità romane. Da una parte, alcuni filosofi prestati alla politica, come Teotecno o come il neoplatonico Ierocle, con impazienza furiosa, davano copertura teoretica e più raffinate ragioni a quella politica religiosa. Dall’altra, la potente casta degli aruspici, tradizionali custodi del paganesimo etrusco-romano, fomentava questa medesima politica religiosa col denunciare la presenza dei cristiani come ragione del “silenzio” della divinità, cioè dell’inefficacia dei vaticini.
Così, Nabore e Felice – che sembrano
già cristiani da quanto racconta la loro Passio
del V secolo: e dunque non avrebbero ricevuto neppure la fede a Milano, come
sembra invece suggerire sant’Ambrogio nel suo Inno (ostaggi sì, pignora, ma totalmente donati, non dovuti) –
subiscono l’interrogatorio di rito e sono spinti al sacrificio agli dei
dell’Impero. Il loro rifiuto comporta l’esecuzione capitale a Lodi, dove forse
esisteva una comunità cristiana più cospicua da terrorizzare. Le loro spoglie,
trafugate da una matrona, vengono riportate però a Milano (anche come vittime
sono nuovamente donate a questa comunità) e cominciano ad essere oggetto di
grande venerazione. Finché sant’Ambrogio non scopre vicino ai loro sepolcri i
corpi dei santi Protasio e Gervasio, di cui si erano perse le tracce, sebbene
non fossero del tutto ignoti alla memoria dei più vecchi fra i cristiani
milanesi. «Senes repetunt audisse se
aliquando horum martyrum nomina, titulumque legisse. Perdiderat civitas suos
martyres quae rapuit alienos / I vecchi ripetono di aver sentito i nomi
di questi martiri [Protasio e Gervasio] e di aver letto una iscrizione. La
città che rubò i martiri altrui, aveva perduto i suoi [Protasio e Gervasio]».
Il culto dei martiri ritrovati soppianta quello di Nabore e Felice e altrettanto fa la nuova Basilica, edificata da sant’Ambrogio per Protasio e Gervasio, rispetto alla piccola e antica Basilica naboriana, di cui poi in epoca moderna si perderanno addirittura le tracce.
Non potevano avere altro destino quei pignora. «Granum certe sinapis res est vilis et simplex: si teri coepit vim suam fundit... Granum sinapis martyres nostri sunt Felix, Nabor et Victor: habebant odorem fidei sed latebant. Venit persecutio, arma posuerunt, colla flexerunt, contriti gladio per totius terminos mundi gratiam sui sparsere martyrii, ut iure dicatur: in omnem terram exiit sonus eorum. / Un granello di senape è veramente cosa umile e semplice: solo se si prende a frantumarlo spande la sua forza... Granello di senape sono i nostri martiri Felice, Nabore e Vittore: possedevano la fragranza della fede, ma di nascosto. Venne la persecuzione, deposero le armi, piegarono il collo; uccisi di spada, diffusero la grazia del loro martirio fino ai confini del mondo, perché a buon diritto si dica: per ogni terra si è diffusa la loro voce».
Ma mentre Vittore prese a Milano dimora stabile e separata dai suoi compagni di milizia e di martirio, il granello dei santi Nabore e Felice non aveva finito di spandere la sua forza fino ai confini del mondo.
Il luogo dove ancora riposavano sempre più declassati era diventato dal 1200 sede di una chiesa e poi di un convento francescano. Nell’autunno del 1797 fu adibito a caserma, prima per la cavalleria cisalpina e poi per le truppe francesi di passaggio. Nabore e Felice, «strappati a empie caserme» – come dice sant’Ambrogio nell’Inno a essi dedicato –, c’erano di nuovo finiti! Ma si involarono ben presto, in mezzo alla confusione indescrivibile di quegli anni, nascosti (latebant, come un tempo) nei loro busti preziosi di cui qualche soldato si sarà invaghito o da cui avrà tratto guadagno. E così arrivarono a Namur, allora francese come quasi tutta l’Europa, quella Namur che ha così strana assonanza col nome latino Nabore (Nabor o secondo un’altra grafia Navor). Per essere riconsegnati a quell’arcivescovo di Milano che da papa avrebbe dovuto coltivare ben altro che «la storia religiosa» o «la spiritualità ambrosiana», così come egli si esprimeva nel 1959.
Ridotto pelle e ossa e con la voce rotta dal pianto, Paolo VI avrebbe dovuto gridare la sua fedeltà a Gesù Cristo, rinnegando il prezioso involucro culturale in cui si era formato e che era divenuto soffocante bozzolo, per far diventare lui vuota crisalide. Quel grido liberò il suo volo, al di là di ogni sua immaginazione, facendolo discepolo nel presente e nella carne di quei santi martiri. Aveva detto Gesù a Pietro: «Quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi. Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio» (Gv 21, 18-19).
Il culto dei martiri ritrovati soppianta quello di Nabore e Felice e altrettanto fa la nuova Basilica, edificata da sant’Ambrogio per Protasio e Gervasio, rispetto alla piccola e antica Basilica naboriana, di cui poi in epoca moderna si perderanno addirittura le tracce.
Non potevano avere altro destino quei pignora. «Granum certe sinapis res est vilis et simplex: si teri coepit vim suam fundit... Granum sinapis martyres nostri sunt Felix, Nabor et Victor: habebant odorem fidei sed latebant. Venit persecutio, arma posuerunt, colla flexerunt, contriti gladio per totius terminos mundi gratiam sui sparsere martyrii, ut iure dicatur: in omnem terram exiit sonus eorum. / Un granello di senape è veramente cosa umile e semplice: solo se si prende a frantumarlo spande la sua forza... Granello di senape sono i nostri martiri Felice, Nabore e Vittore: possedevano la fragranza della fede, ma di nascosto. Venne la persecuzione, deposero le armi, piegarono il collo; uccisi di spada, diffusero la grazia del loro martirio fino ai confini del mondo, perché a buon diritto si dica: per ogni terra si è diffusa la loro voce».
Ma mentre Vittore prese a Milano dimora stabile e separata dai suoi compagni di milizia e di martirio, il granello dei santi Nabore e Felice non aveva finito di spandere la sua forza fino ai confini del mondo.
Il luogo dove ancora riposavano sempre più declassati era diventato dal 1200 sede di una chiesa e poi di un convento francescano. Nell’autunno del 1797 fu adibito a caserma, prima per la cavalleria cisalpina e poi per le truppe francesi di passaggio. Nabore e Felice, «strappati a empie caserme» – come dice sant’Ambrogio nell’Inno a essi dedicato –, c’erano di nuovo finiti! Ma si involarono ben presto, in mezzo alla confusione indescrivibile di quegli anni, nascosti (latebant, come un tempo) nei loro busti preziosi di cui qualche soldato si sarà invaghito o da cui avrà tratto guadagno. E così arrivarono a Namur, allora francese come quasi tutta l’Europa, quella Namur che ha così strana assonanza col nome latino Nabore (Nabor o secondo un’altra grafia Navor). Per essere riconsegnati a quell’arcivescovo di Milano che da papa avrebbe dovuto coltivare ben altro che «la storia religiosa» o «la spiritualità ambrosiana», così come egli si esprimeva nel 1959.
Ridotto pelle e ossa e con la voce rotta dal pianto, Paolo VI avrebbe dovuto gridare la sua fedeltà a Gesù Cristo, rinnegando il prezioso involucro culturale in cui si era formato e che era divenuto soffocante bozzolo, per far diventare lui vuota crisalide. Quel grido liberò il suo volo, al di là di ogni sua immaginazione, facendolo discepolo nel presente e nella carne di quei santi martiri. Aveva detto Gesù a Pietro: «Quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi. Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio» (Gv 21, 18-19).
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