Santa
Sinforosa e i suoi sette figli martiri a Tivoli
sotto Adriano verso il 135
Martirologio Romano: A Roma al nono miglio della via Tiburtina,
commemorazione dei santi Sinforosa e sette compagni, Crescente, Giuliano,
Nemesio, Primitivo, Giustino, Stacteo ed Eugenio, martiri, che subirono il
martirio con diversi generi di tortura, divenendo fratelli in Cristo.
Tratto da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/90935
Sulla via Tiburtina, al IX milliario
(oggi km. 17,450) viveva una donna chiamata Sinforosa con i suoi 7 figli che si
chiamavano Crescente, Giuliano, Nemesio, Primitivo, Giustino, Statteo ed
Eugenio.
La donna viveva nei pressi della maestosa villa dell’imperatore Adriano, colui che aveva ordinato la morte del marito Getulio, del cognato Amanzio e dell’amico di questi Primitivo.
L’imperatore Adriano dopo aver ultimato la sua grandiosa villa, si dice che volesse, prima di inaugurarla, consultare gli dei, i quali gli dissero, che la vedova Sinforosa e i suoi sette figli, li “straziavano ogni giorno invocando il suo Dio, perciò, se Sinforosa e i suoi figli sacrificheranno per loro, essi faranno quanto l’imperatore gli chiedeva”. Adriano allora, chiamò il prefetto Licinio, e ordinò che Sinforosa fosse insieme ai suoi figli arrestata e condotta al tempio di Ercole.
Poi con lusinghe, con minacce e con ricatti, cercò di farla desistere e a sacrificare agli idoli, ma la Santa con animo nobile si appella all’esempio di Getulio e degli altri compagni di martirio del marito. Visto che la donna non si piegava ai suoi voleri, l’imperatore rinnovò di sacrificare insieme ai suoi figli agli dei pagani, oppure sarebbero stati sacrificati essi stessi, ma la Santa fu irremovibile, come pure lo fecero i suoi sette figli.
L’imperatore, visto vano ogni tentativo, ordinò che Santa Sinforosa fosse torturata a sangue. Dalla tortura però l’imperatore non ci ricavò nulla, e spazientito da quella resistenza, diede ordine alle guardie di legare un grosso sasso al collo di Sinforosa, e di gettarla nel fiume Aniene, affinché annegasse.
Poi venne la volta dei figli; furono presi da parte, e l’imperatore chiese a loro di sacrificare agli dei. Vista la resistenza dei ragazzi, ordinò che fossero condotti anch’essi al tempio di Ercole, dove con minacce e con lusinghe tentava condurli dalla sua parte; ma visto che non ci riusciva, ne con le buone e ne con le cattive, l’imperatore ordinò che tutti e sette fossero posti alla tortura, ed infine fossero trafitti con la spada, poi li fece gettare in una fossa comune e profonda del territorio tiburtino, che i pontefici chiamarono “ai sette assassinati”.
Dopo circa 2 anni, essendosi calmato il furore delle persecuzioni contro i cristiani, il fratello della martire Sinforosa, Eugenio “principalis curiae Tiburtinae”, ne raccolse i corpi e li seppellì “in suburbana eiusdem civitatis”.
Il giorno 18 luglio il M.R. riporta quanto segue: “A Tivoli santa Sinforosa, moglie di san Getulio Martire, con sette suoi figlioli, cioè Crescente, Giuliano, Nemesio, Primitivo, Giustino, Statteo ed Eugenio. La loro madre, sotto il Principe Adriano, per l’insuperabile costanza, prima fu lungamente percossa con guanciate, quindi sospesa per i capelli, e da ultimo legata ad un sasso, precipitata nel fiume; i figli poi, legati a pali e stirati cogli argani, con diverso genere di morte compirono il martirio. I loro corpi furono trasportati a Roma, e sotto il Papa Pio quarto, furono ritrovati nella Diaconia di sant’Angelo in Pescheria”.
La passio ci dice ancora che il “Natalis vero sanctorum martyrum Christi beatae Symphorosae et septem filiorum ejus Crescentis, Juliani, Nemesii, Primitivi, Justini, Stattei et Bugenii celebratur sub die XV Kalendas Augusti. Eorum corpora requiescunt in Via Tiburtina milliario ab Urbe nono…”.
Oggi noi consociamo una chiesa dedicata alla Santa nei pressi di Bagni di Tivoli. Durante le lotte per le investiture tra papato e impero, l’imperatore Enrico V nel ricondurre Papa Pasquale II a Roma, si accampò nel “Campo qui Septem fratum dicitur”, dove un tempo si vedevano dei ruderi di un’antica chiesa dedicata a Santa Sinforosa e sette figli, e dove i proprietari di questo terreno hanno eretto nel 1939, proprio sulla collinetta dinanzi al nuovo santuario, una magnifica cappella, dedicandola a questa Santa e ai suoi sette figli martiri.
La donna viveva nei pressi della maestosa villa dell’imperatore Adriano, colui che aveva ordinato la morte del marito Getulio, del cognato Amanzio e dell’amico di questi Primitivo.
L’imperatore Adriano dopo aver ultimato la sua grandiosa villa, si dice che volesse, prima di inaugurarla, consultare gli dei, i quali gli dissero, che la vedova Sinforosa e i suoi sette figli, li “straziavano ogni giorno invocando il suo Dio, perciò, se Sinforosa e i suoi figli sacrificheranno per loro, essi faranno quanto l’imperatore gli chiedeva”. Adriano allora, chiamò il prefetto Licinio, e ordinò che Sinforosa fosse insieme ai suoi figli arrestata e condotta al tempio di Ercole.
Poi con lusinghe, con minacce e con ricatti, cercò di farla desistere e a sacrificare agli idoli, ma la Santa con animo nobile si appella all’esempio di Getulio e degli altri compagni di martirio del marito. Visto che la donna non si piegava ai suoi voleri, l’imperatore rinnovò di sacrificare insieme ai suoi figli agli dei pagani, oppure sarebbero stati sacrificati essi stessi, ma la Santa fu irremovibile, come pure lo fecero i suoi sette figli.
L’imperatore, visto vano ogni tentativo, ordinò che Santa Sinforosa fosse torturata a sangue. Dalla tortura però l’imperatore non ci ricavò nulla, e spazientito da quella resistenza, diede ordine alle guardie di legare un grosso sasso al collo di Sinforosa, e di gettarla nel fiume Aniene, affinché annegasse.
Poi venne la volta dei figli; furono presi da parte, e l’imperatore chiese a loro di sacrificare agli dei. Vista la resistenza dei ragazzi, ordinò che fossero condotti anch’essi al tempio di Ercole, dove con minacce e con lusinghe tentava condurli dalla sua parte; ma visto che non ci riusciva, ne con le buone e ne con le cattive, l’imperatore ordinò che tutti e sette fossero posti alla tortura, ed infine fossero trafitti con la spada, poi li fece gettare in una fossa comune e profonda del territorio tiburtino, che i pontefici chiamarono “ai sette assassinati”.
Dopo circa 2 anni, essendosi calmato il furore delle persecuzioni contro i cristiani, il fratello della martire Sinforosa, Eugenio “principalis curiae Tiburtinae”, ne raccolse i corpi e li seppellì “in suburbana eiusdem civitatis”.
Il giorno 18 luglio il M.R. riporta quanto segue: “A Tivoli santa Sinforosa, moglie di san Getulio Martire, con sette suoi figlioli, cioè Crescente, Giuliano, Nemesio, Primitivo, Giustino, Statteo ed Eugenio. La loro madre, sotto il Principe Adriano, per l’insuperabile costanza, prima fu lungamente percossa con guanciate, quindi sospesa per i capelli, e da ultimo legata ad un sasso, precipitata nel fiume; i figli poi, legati a pali e stirati cogli argani, con diverso genere di morte compirono il martirio. I loro corpi furono trasportati a Roma, e sotto il Papa Pio quarto, furono ritrovati nella Diaconia di sant’Angelo in Pescheria”.
La passio ci dice ancora che il “Natalis vero sanctorum martyrum Christi beatae Symphorosae et septem filiorum ejus Crescentis, Juliani, Nemesii, Primitivi, Justini, Stattei et Bugenii celebratur sub die XV Kalendas Augusti. Eorum corpora requiescunt in Via Tiburtina milliario ab Urbe nono…”.
Oggi noi consociamo una chiesa dedicata alla Santa nei pressi di Bagni di Tivoli. Durante le lotte per le investiture tra papato e impero, l’imperatore Enrico V nel ricondurre Papa Pasquale II a Roma, si accampò nel “Campo qui Septem fratum dicitur”, dove un tempo si vedevano dei ruderi di un’antica chiesa dedicata a Santa Sinforosa e sette figli, e dove i proprietari di questo terreno hanno eretto nel 1939, proprio sulla collinetta dinanzi al nuovo santuario, una magnifica cappella, dedicandola a questa Santa e ai suoi sette figli martiri.
TRATTO da
http://www.enrosadira.it/santi/s/sinforosa.htm
Intorno
al 135 a.C., l'imperatore Adriano si era fatto costruire un palazzo (Villa
Adriana a Tivoli) per la consacrazione del quale, secondo l'uso, si dovevano
celebrare dei riti propiziatori. Gli venne consigliato di prendere la vedova
Sinforosa, nota per essere cristiana, e chiederle di sacrificare secondo il
rito dell'imperatore. Al rifiuto della donna (che di fronte alla minaccia di
essere uccisa, rispose: "Donde mi viene una simile grazia, di meritare di
essere offerta come vittima a Dio con i miei figli?), Adriano la fece portare
al tempio di Ercole a Tivoli. Qui venne schiaffeggiata ed appesa per i capelli;
ma siccome in nessun modo riuscivano a farle cambiare idea, le legarono una
pietra al collo e la buttarono nel fiume. Nel racconto del suo martirio, si
narra ancora che i suoi sette figli vennero arrestati il giorno seguente, e che
pure questi rifiutarono di fare riti pagani, venendo uccisi in modo atroce. In
realtà, questi sette giovani martiri non è certo che fossero fratelli né figli
di Sinforosa. Martirizzati nella stessa occasione, vennero ricordati dalla
tradizione popolare come suoi figli.
Santa
Sinforosa era la moglie di San Getulio. Sulla via Tiburtina, al IX milliario
(oggi km. 17,450) viveva una donna chiamata Sinforosa con i suoi 7 figli che si
chiamavano Crescente, Giuliano, Nemesio, Primitivo, Giustino, Statteo ed
Eugenio. La donna viveva nei pressi della maestosa villa dell'imperatore
Adriano, colui che aveva ordinato la morte del marito Getulio, del cognato
Amanzio e dell'amico di questi Primitivo. L'imperatore Adriano dopo aver ultimato
la sua grandiosa villa, si dice che volesse, prima di inaugurarla, consultare
gli dei, i quali gli dissero, che la vedova Sinforosa e i suoi sette figli, li
"straziavano ogni giorno invocando il suo Dio, perciò, se Sinforosa e i
suoi figli sacrificheranno per loro, essi faranno quanto l'imperatore gli
chiedeva". Adriano allora, chiamò il prefetto Licinio, e ordinò che
Sinforosa fosse insieme ai suoi figli arrestata e condotta al tempio di Ercole.
Poi con lusinghe, con minacce e con ricatti, cercò di farla desistere e a
sacrificare agli idoli, ma la Santa con animo nobile si appella all'esempio di
Getulio e degli altri compagni di martirio del marito. Visto che la donna non
si piegava ai suoi voleri, l'imperatore rinnovò di sacrificare insieme ai suoi
figli agli dei pagani, oppure sarebbero stati sacrificati essi stessi, ma la
Santa fu irremovibile, come pure lo fecero i suoi sette figli. L'imperatore,
visto vano ogni tentativo, ordinò che Santa Sinforosa fosse torturata a sangue.
Dalla tortura però l'imperatore non ci ricavò nulla, e spazientito da quella
resistenza, diede ordine alle guardie di legare un grosso sasso al collo di
Sinforosa, e di gettarla nel fiume Aniene, affinché annegasse. Poi venne la
volta dei figli; furono presi da parte, e l'imperatore chiese a loro di
sacrificare agli dei. Vista la resistenza dei ragazzi, ordinò che fossero
condotti anch'essi al tempio di Ercole, dove con minacce e con lusinghe tentava
condurli dalla sua parte; ma visto che non ci riusciva, ne con le buone e ne con
le cattive, l'imperatore ordinò che tutti e sette fossero posti alla tortura,
ed infine fossero trafitti con la spada, poi li fece gettare in una fossa
comune e profonda del territorio tiburtino, che i pontefici chiamarono "ai
sette assassinati". Dopo circa 2 anni, essendosi calmato il furore delle
persecuzioni contro i cristiani, il fratello della martire Sinforosa, Eugenio
"principalis curiae Tiburtinae", ne raccolse i corpi e li seppellì
"in suburbana eiusdem civitatis". Il giorno 18 luglio il M.R. riporta
quanto segue: "A Tivoli santa Sinforosa, moglie di san Getulio Martire,
con sette suoi figlioli, cioè Crescente, Giuliano, Nemesio, Primitivo,
Giustino, Statteo ed Eugenio. La loro madre, sotto il Principe Adriano, per
l'insuperabile costanza, prima fu lungamente percossa con guanciate, quindi
sospesa per i capelli, e da ultimo legata ad un sasso, precipitata nel fiume; i
figli poi, legati a pali e stirati cogli argani, con diverso genere di morte
compirono il martirio. I loro corpi furono trasportati a Roma, e sotto il Papa
Pio quarto, furono ritrovati nella Diaconia di sant'Angelo in Pescheria".
La passio ci dice ancora che il "Natalis vero sanctorum martyrum Christi
beatae Symphorosae et septem filiorum ejus Crescentis, Juliani, Nemesii,
Primitivi, Justini, Stattei et Bugenii celebratur sub die XV Kalendas Augusti.
Eorum corpora requiescunt in Via Tiburtina milliario ab Urbe nono…". Oggi
noi consociamo una chiesa dedicata alla Santa nei pressi di Bagni di Tivoli.
Durante le lotte per le investiture tra papato e impero, l'imperatore Enrico V
nel ricondurre Papa Pasquale II a Roma, si accampò nel "Campo qui Septem
fratum dicitur", dove un tempo si vedevano dei ruderi di un'antica chiesa
dedicata a Santa Sinforosa e sette figli, e dove i proprietari di questo
terreno hanno eretto nel 1939, proprio sulla collinetta dinanzi al nuovo
santuario, una magnifica cappella, dedicandola a questa Santa e ai suoi sette
figli martiri.
Leggere anche
La vicenda di S.Sinforosa e della sua famiglia
http://www.tibursuperbum.it/ita/storia/personaggi/S.Sinforosa.htm
Santo Materno vescovo di Milano (verso il 307 o verso
il 328)
Tratto da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/91278
Il
18 luglio abbiamo celebrato San Materno. Non conosciamo con certezza né l’anno
d’inizio del pontificato (dovrebbe essere stato il 316) né quello della morte
(forse il 328). Fu il settimo vescovo di Milano e gli dobbiamo con ogni
probabilità la basilica dei Santi Nabore e Felice, che fece costruire, per
accogliere i corpi d’esempio ad Ambrogio, il quale, analogamente, volle essere
deposto tra Gervasio e Protasio. Anche la traslazione di Nabore e Felice pare
si debba ad una donna «pia e religiosa», Sabina, che persuase il vescovo
Materno - e forse glieli donò - ad accogliere nel «grembo materno» della Chiesa
di Milano i due martiri, perché qui «li facesse nascere alla risurrezione della
vita eterna». Il gioco di parole (materno è il grembo della Chiesa come il nome
del suo vescovo) dell’antico racconto (secolo V) ci permette sia di pensare che
la devozione di Materno per i martiri fosse nota, sia che tale fosse il suo
stile di governo, come insegnerà Ambrogio: «La benevolenza è come la madre
comune di tutti, stringe indissolubilmente le amicizie, è fedele nel
consigliare, lieta nella prosperità, triste nella sventura: ognuno si affida al
consiglio d’una persona benevola più che a quello d’un sapiente». Il volto di
San Materno ci è conservato negli splendidi mosaici di San Vittore in Ciel
d’oro nella basilica di Sant’Ambrogio.
Santo
Rufilio (secondo una tradizione era
ateniese ) vescovo di Forlimpopoli in Emilia (verso il 385)
Tratto
da
http://www.forlitoday.it/cronaca/Festa-Forlimpopoli-14-16-maggio-2017.html
Nato ad
Atene nel 292 e ordinato vescovo di Forlimpopoli nel 330, Rufillo fu
contemporaneo del protovescovo di Forlì, San Mercuriale, insieme al quale
combatté l’eresia ariana, molto diffusa a quel tempo.
La
tradizione vuole che sia morto novantenne il 18 luglio dell’anno 382, sempre a
Forlimpopoli. Nel 1362, dopo la distruzione della città artusiana, alleata
degli imperiali, da parte delle truppe pontificie comandate dal cardinale
spagnolo Gil Alvarez Carrillo de Albornoz, le reliquie del santo furono trasportate
a Forlì, nella chiesa di San Giacomo in Strada, l’attuale Santa Lucia. Il 16
maggio 1964, l’urna coi resti mortali è stata riportata a Forlimpopoli, sotto
l’altare maggiore della basilica di San Rufillo
Tratto
dal quotidiano Avvenire
Un
antico sermone del secolo XI ci dà alcune informazioni su Ruffillo, primo
vescovo di Forlimpopoli. Il documento racconta che fra Forlimpopoli e Forlì, si
annidava un mostruoso drago, che col solo fiato ammorbava l'aria, provocando la
morte di diverse persone. Il vescovo Ruffillo esortò i fedeli della diocesi a
fare digiuni e pregare, affinché la zona venisse liberata dal mostro, nel
contempo invitò il vescovo di Forlì Mercuriale (anch'egli poi santo) a
partecipare all'impresa. Si recarono ambedue alla tana del drago, qui gli
strinsero attorno alla gola le loro stole e lo gettarono in un profondo pozzo,
chiudendone l'imboccatura con un «memoriale» (un monumento o un'iscrizione).
Questo episodio è raccontato anche nella «Vita» di san Mercuriale e in quella
dei santi Grato e Marcello. Il dragone rappresentò il simbolo dell'idolatria
ancora abbastanza diffusa, che vide il protovescovo di Forlimpopoli impegnato a
debellarla insieme all'opera di altri santi vescovi della regione, suoi
contemporanei. Si può fissare il periodo del suo episcopato nella prima metà
del secolo V
Tratto da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/92112
Le notizie che si hanno del primo
vescovo di Forlimpopoli (Forlì), san Rufillo, provengono da fonti letterarie
tarde e di poca certezza, invece le testimonianze del suo culto in tutta
l’Emilia Romagna, sono indice della sua esistenza e della venerazione ricevuta
nei secoli.
Le fonti medioevali citano ben tredici chiese a lui dedicate nella regione, una a Bologna, vicino al ponte San Rufillo, una a Casola Valsenio (diocesi di Imola), una a Vitignano di Meldola (Forlì), una a Ravenna, tre in diocesi di Faenza, tre in diocesi di Forlimpopoli, una a Firenze e infine la Basilica sepolcrale del santo (Collegiata di S. Rufillo) esistente nella città di Forlimpopoli, ma che al tempo della costruzione era situata fuori dalle mura cittadine.
Recenti scavi hanno fatto datare l’abside al V secolo, mentre tutto il resto dell’antico edificio di culto, ebbe varie distruzioni, ricostruzioni e rifacimenti, fino all’attuale risalente al 1378; essa è l’unica basilica paleocristiana della città ed eminenti studiosi ritennero che fosse la primitiva cattedrale di Forlimpopoli.
Verso il 971 la basilica fu ceduta ai Benedettini e divenne così un’abbazia, mentre la sede cattedrale fu trasferita ad altra chiesa, all’interno delle mura di difesa, probabilmente nella basilica rintracciata sotto le fondamenta della celebre Rocca del XIV secolo, oggi sede di un Museo Archeologico.
Tutto questo per ribadire, che al di là delle incertezze agiografiche su s. Rufillo, l’esistenza di così vasto culto, fa di lui un santo molto venerato e quindi di santa vita e zelante opera apostolica fra la popolazione.
Un antico sermone del sec.XI, recitato nel giorno della festa del santo, scritto in buon latino, ci dà alcune informazioni su s. Rufillo, dotato delle virtù proprie del vescovo.
Il documento riporta la data della festa al 18 luglio e racconta l’episodio della vittoria sul drago; fra Forlimpopoli e Forlì distante 8 km, si annidava un mostruoso dragone, che col solo fiato ammorbava l’aria, provocando la morte di diverse persone.
Il vescovo Rufillo esortò i fedeli della diocesi a fare digiuni e pregare, affinché la zona venisse liberata dal mostro pestifero, nel contempo invitò il vescovo di Forlì s. Mercuriale (30 aprile) a partecipare all’impresa.
Si recarono ambedue alla tana del drago, qui gli strinsero attorno alla gola le loro stole e lo gettarono in un profondo pozzo, chiudendone l’imboccatura con un ‘memoriale’ (un monumento o un’iscrizione).
Detto episodio è raccontato anche nella ‘Vita’ di s. Mercuriale e in quella dei santi Grato e Marcello; il dragone rappresentò il simbolo dell’idolatria ancora abbastanza diffusa, che vide per questo la lotta del protovescovo di Forlimpopoli impegnato a debellarla insieme all’opera di altri santi vescovi della regione, suoi contemporanei, come Mercuriale di Forlì, Leo di Montefeltro, Gaudenzio di Rimini e Geminiano di Modena.
E con loro fu pure impegnato a contrastare l’eresia ariana, il cui centro propulsore era a Rimini; dai documenti che riguardano i suddetti vescovi e di s. Pietro Crisologo vescovo di Ravenna, anche lui suo contemporaneo, si può fissare il periodo del suo episcopato nella prima metà del secolo V.
Morì secondo alcune fonti, novantenne a Forlimpopoli; nel 1362 dopo la distruzione della città da parte delle truppe favorevoli allo Stato Pontificio, comandate dal cardinale spagnolo Gil Alvarez Carrillo de Albornoz, le sue reliquie furono trasportate a Forlì nella Chiesa di S. Giacomo in Strada; da lì nel maggio 1964 esse ritornarono nella Basilica collegiale di Forlimpopoli.
Le fonti medioevali citano ben tredici chiese a lui dedicate nella regione, una a Bologna, vicino al ponte San Rufillo, una a Casola Valsenio (diocesi di Imola), una a Vitignano di Meldola (Forlì), una a Ravenna, tre in diocesi di Faenza, tre in diocesi di Forlimpopoli, una a Firenze e infine la Basilica sepolcrale del santo (Collegiata di S. Rufillo) esistente nella città di Forlimpopoli, ma che al tempo della costruzione era situata fuori dalle mura cittadine.
Recenti scavi hanno fatto datare l’abside al V secolo, mentre tutto il resto dell’antico edificio di culto, ebbe varie distruzioni, ricostruzioni e rifacimenti, fino all’attuale risalente al 1378; essa è l’unica basilica paleocristiana della città ed eminenti studiosi ritennero che fosse la primitiva cattedrale di Forlimpopoli.
Verso il 971 la basilica fu ceduta ai Benedettini e divenne così un’abbazia, mentre la sede cattedrale fu trasferita ad altra chiesa, all’interno delle mura di difesa, probabilmente nella basilica rintracciata sotto le fondamenta della celebre Rocca del XIV secolo, oggi sede di un Museo Archeologico.
Tutto questo per ribadire, che al di là delle incertezze agiografiche su s. Rufillo, l’esistenza di così vasto culto, fa di lui un santo molto venerato e quindi di santa vita e zelante opera apostolica fra la popolazione.
Un antico sermone del sec.XI, recitato nel giorno della festa del santo, scritto in buon latino, ci dà alcune informazioni su s. Rufillo, dotato delle virtù proprie del vescovo.
Il documento riporta la data della festa al 18 luglio e racconta l’episodio della vittoria sul drago; fra Forlimpopoli e Forlì distante 8 km, si annidava un mostruoso dragone, che col solo fiato ammorbava l’aria, provocando la morte di diverse persone.
Il vescovo Rufillo esortò i fedeli della diocesi a fare digiuni e pregare, affinché la zona venisse liberata dal mostro pestifero, nel contempo invitò il vescovo di Forlì s. Mercuriale (30 aprile) a partecipare all’impresa.
Si recarono ambedue alla tana del drago, qui gli strinsero attorno alla gola le loro stole e lo gettarono in un profondo pozzo, chiudendone l’imboccatura con un ‘memoriale’ (un monumento o un’iscrizione).
Detto episodio è raccontato anche nella ‘Vita’ di s. Mercuriale e in quella dei santi Grato e Marcello; il dragone rappresentò il simbolo dell’idolatria ancora abbastanza diffusa, che vide per questo la lotta del protovescovo di Forlimpopoli impegnato a debellarla insieme all’opera di altri santi vescovi della regione, suoi contemporanei, come Mercuriale di Forlì, Leo di Montefeltro, Gaudenzio di Rimini e Geminiano di Modena.
E con loro fu pure impegnato a contrastare l’eresia ariana, il cui centro propulsore era a Rimini; dai documenti che riguardano i suddetti vescovi e di s. Pietro Crisologo vescovo di Ravenna, anche lui suo contemporaneo, si può fissare il periodo del suo episcopato nella prima metà del secolo V.
Morì secondo alcune fonti, novantenne a Forlimpopoli; nel 1362 dopo la distruzione della città da parte delle truppe favorevoli allo Stato Pontificio, comandate dal cardinale spagnolo Gil Alvarez Carrillo de Albornoz, le sue reliquie furono trasportate a Forlì nella Chiesa di S. Giacomo in Strada; da lì nel maggio 1964 esse ritornarono nella Basilica collegiale di Forlimpopoli.
Tratto da
http://mitideimonti.blogspot.com/2012/07/anche-in-romagna-si-combatteva-contro-i.html
Nel V
secolo, l’abitato di Forlimpopoli era minacciato da un essere mostruoso: un
vero e proprio drago che seminava il panico tra le persone. Ma per fortuna, in
quel periodo, un eroico religioso si fece carico della questione. Almeno così
narra la leggenda.
La tradizione cristiana è ricca di draghi ed esseri affini. Pensiamo a San Giorgio - forse l’esempio più famoso - che, giovane soldato sfidò, vincendolo, il potente drago che abitava in un grande stagno vicino alla città di Selem, in Libia: un animale che con il proprio fiato era capace di uccidere chiunque. Ma perché questa presenza tanto costante? Perché il drago ha sempre rappresentato il male, la materializzazione del diavolo, la crudeltà che riesce a nuocere ai buoni cristiani. Isidoro di Siviglia, protoenciclopedista vissuto tra VI e VII d.C. scrisse: “è il piú grande di tutti gli animali; è una bestia sotterranea ed aerea che ama lasciare le caverne in cui si nasconde per volare nell’aria; la sua forza risiede non nella bocca o nei denti ma nella coda con cui può stritolare il suo avversario”.
Se si leggeva una cosa del genere, come riuscire a non avere paura di qualcosa di sconosciuto?
San Ruffillo. Un santo di cui si sa ben poco.
Le fonti storiche e agiografiche che parlano di questo santo sono molto scarne, povere e molto più tarde rispetto al periodo in cui egli fu in vita. Per tradizione lo si considera il primo vescovo di Forlimpopoli e l’unica notizia sicura è che ebbe un discreto culto, tanto che le fonti medievali documentano in regione ben tredici chiese a lui dedicate. La sua vita viene collocata nel V secolo e a lui è consacrata ovviamente la basilica della cittadina romagnola, nota con il nome di Collegiata di San Ruffillo. Costui si distinse nella lotta all’eresia ariana che aveva il proprio centro propulsore a Rimini e in quella all’idolatria pagana, di cui il drago può essere visto come un simbolo. In questa sua battaglia venne aiutato da altri santi molto noti in regione, come Leo del Montefeltro, Gaudenzio di Rimini e Geminiano di Modena. Secondo alcune fonti morì novantenne nella stessa Forlimpopoli; le sue spoglie vennero trasportate nel 1362 nella chiesa di San Giacomo in Strada di Forlì e solamente nel 1964 riportate nella Collegiata.
Tra le poche cose note, dunque, di questo personaggio, c’è la leggenda del drago. Un sermone datato all’XI secolo ci racconta quindi come in quel tempo la bestiaccia insidiosa vivesse nelle campagne tra la cittadina e Forlì. Aveva un fiato talmente mostruoso (ricordate che il classico drago sputa fuoco?) che riusciva ad ammorbare così tanto l’aria da uccidere chi si trovasse nelle sue vicinanze. Occorreva dunque fare qualcosa e quel qualcosa lo fece Ruffillo. Esortò i fedeli a digiunare e a pregare e poi chiamò il suo ‘collega’ forlivese, San Mercuriale. Entrambi si recarono alla tana del drago e coraggiosamente strinsero le loro stole intorno alla gola del malefico essere. E chissà quanta forza ci volle per trascinarlo fino al profondo pozzo dove lo rinchiusero, sigillando l’apertura con un “memoriale”, probabilmente una lastra di pietra incisa. Liberando finalmente la zona e facendo dormire sonni tranquilli a tutti i forlimpopolesi.
La tradizione cristiana è ricca di draghi ed esseri affini. Pensiamo a San Giorgio - forse l’esempio più famoso - che, giovane soldato sfidò, vincendolo, il potente drago che abitava in un grande stagno vicino alla città di Selem, in Libia: un animale che con il proprio fiato era capace di uccidere chiunque. Ma perché questa presenza tanto costante? Perché il drago ha sempre rappresentato il male, la materializzazione del diavolo, la crudeltà che riesce a nuocere ai buoni cristiani. Isidoro di Siviglia, protoenciclopedista vissuto tra VI e VII d.C. scrisse: “è il piú grande di tutti gli animali; è una bestia sotterranea ed aerea che ama lasciare le caverne in cui si nasconde per volare nell’aria; la sua forza risiede non nella bocca o nei denti ma nella coda con cui può stritolare il suo avversario”.
Se si leggeva una cosa del genere, come riuscire a non avere paura di qualcosa di sconosciuto?
San Ruffillo. Un santo di cui si sa ben poco.
Le fonti storiche e agiografiche che parlano di questo santo sono molto scarne, povere e molto più tarde rispetto al periodo in cui egli fu in vita. Per tradizione lo si considera il primo vescovo di Forlimpopoli e l’unica notizia sicura è che ebbe un discreto culto, tanto che le fonti medievali documentano in regione ben tredici chiese a lui dedicate. La sua vita viene collocata nel V secolo e a lui è consacrata ovviamente la basilica della cittadina romagnola, nota con il nome di Collegiata di San Ruffillo. Costui si distinse nella lotta all’eresia ariana che aveva il proprio centro propulsore a Rimini e in quella all’idolatria pagana, di cui il drago può essere visto come un simbolo. In questa sua battaglia venne aiutato da altri santi molto noti in regione, come Leo del Montefeltro, Gaudenzio di Rimini e Geminiano di Modena. Secondo alcune fonti morì novantenne nella stessa Forlimpopoli; le sue spoglie vennero trasportate nel 1362 nella chiesa di San Giacomo in Strada di Forlì e solamente nel 1964 riportate nella Collegiata.
Tra le poche cose note, dunque, di questo personaggio, c’è la leggenda del drago. Un sermone datato all’XI secolo ci racconta quindi come in quel tempo la bestiaccia insidiosa vivesse nelle campagne tra la cittadina e Forlì. Aveva un fiato talmente mostruoso (ricordate che il classico drago sputa fuoco?) che riusciva ad ammorbare così tanto l’aria da uccidere chi si trovasse nelle sue vicinanze. Occorreva dunque fare qualcosa e quel qualcosa lo fece Ruffillo. Esortò i fedeli a digiunare e a pregare e poi chiamò il suo ‘collega’ forlivese, San Mercuriale. Entrambi si recarono alla tana del drago e coraggiosamente strinsero le loro stole intorno alla gola del malefico essere. E chissà quanta forza ci volle per trascinarlo fino al profondo pozzo dove lo rinchiusero, sigillando l’apertura con un “memoriale”, probabilmente una lastra di pietra incisa. Liberando finalmente la zona e facendo dormire sonni tranquilli a tutti i forlimpopolesi.
Leggere anche
VICENDE STORICHE DELLA CHIESA FORLIMPOPOLESE DI San Rufilio
http://www.forlimpopolidocumentiestudi.it/pdf/1403.pdf
Santo Filastrio vescovo di Brescia (verso il 387)
Tratto dal quotidiano Avvenire
Sesto
vescovo di Brescia, Filastrio nacque intorno al 330 e poi divenne prete a 30
anni e vescovo a 50. Anche la sua origine non è certa: c'è chi ipotizza che
fosse italiano, spagnolo o egiziano. Predicò contro gli ariani in Lombardia e a
Roma, entrando in rapporti con sant'Ambrogio e sant'Agostino, che lo cita nelle
sue opere contro gli eretici. Partecipò al Sinodo di Aquileia del 381. Si
conosce il giorno della morte, il 18 luglio, ma non la data, ritenuta anteriore
a quella della morte di Ambrogio, avvenuta nel 397. Le reliquie sono venerate
con quelle di sant'Apollonio nella cripta dell'antico duomo romanico di Brescia
Tratto da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/91714
Nel
quattordicesimo anno dalla sua morte, il vescovo di Brescia s. Gaudenzio tenne
un’approfondita omelia dedicata a s. Filastrio, suo predecessore all’episcopio
della città.
E questa è la maggiore se non l’unica fonte che parla della sua vita, ad ogni modo le notizie sono scarse.
Non si sa dove s. Filastrio nacque, ma ben presto lasciò la sua terra e la famiglia dopo essere stato consacrato sacerdote e prese a predicare un po’ dovunque la parola di Dio, contrastando i pagani, i giudei e gli eretici ariani.
Si sa che visse per un certo tempo a Milano prima che s. Ambrogio (340-397) diventasse vescovo e si oppose con decisione al vescovo ariano Aussenzio I (355-374), poi si spostò a Roma dove con le sue argomentazioni convertì molti alla fede cattolica.
Quando diventò vescovo non si sa di preciso, ma nel 381 era già vescovo di Brescia, perché partecipò al Concilio di Aquileia. Lo stesso s. Agostino nei suoi scritti, afferma di averlo visto fra il 384 e 387 varie volte ospite di s. Ambrogio a Milano.
Anche la data della sua morte non è certa, alcuni calcoli incrociati con i dati di s. Ambrogio e s. Gaudenzio, fanno supporre che sia morto attorno all’anno 387; la sua celebrazione come santo al 18 luglio, era considerata come data della sua morte, sia da s. Gaudenzio, sia dalla Chiesa di Brescia.
Fu sepolto nell’antica cattedrale di S. Andrea, forse da lui stesso edificata, le sue reliquie ebbero una prima traslazione il 9 aprile 838 nella chiesa di S. Maria, detta anche la ‘Rotonda’; ancora subirono spostamenti nel 1456, 1572 e 3 giugno 1674, quando furono collocate nell’arca preziosa ancora esistente nel nuovo duomo di Brescia.
Risulta che san Filastrio abbia composto tra gli anni 385 e 391 un catalogo di 136 eresie. La sua festa viene celebrata ancora oggi il 18 luglio.
Nell’omelia di s. Gaudenzio citata sopra, è detto che s. Filastrio aveva uno spirito ardente, dolcezza ed estrema moderazione, molta scienza, costumi santi, una sublime umiltà, rivolto alle cose celesti non dava valore alle cariche terrene.
Il servizio del Signore lo occupava continuamente, non si adirava ma sempre pronto a comprendere e giustificare. Amava i più piccoli e gli umili, con tutti era amabile e riconoscente.
E questa è la maggiore se non l’unica fonte che parla della sua vita, ad ogni modo le notizie sono scarse.
Non si sa dove s. Filastrio nacque, ma ben presto lasciò la sua terra e la famiglia dopo essere stato consacrato sacerdote e prese a predicare un po’ dovunque la parola di Dio, contrastando i pagani, i giudei e gli eretici ariani.
Si sa che visse per un certo tempo a Milano prima che s. Ambrogio (340-397) diventasse vescovo e si oppose con decisione al vescovo ariano Aussenzio I (355-374), poi si spostò a Roma dove con le sue argomentazioni convertì molti alla fede cattolica.
Quando diventò vescovo non si sa di preciso, ma nel 381 era già vescovo di Brescia, perché partecipò al Concilio di Aquileia. Lo stesso s. Agostino nei suoi scritti, afferma di averlo visto fra il 384 e 387 varie volte ospite di s. Ambrogio a Milano.
Anche la data della sua morte non è certa, alcuni calcoli incrociati con i dati di s. Ambrogio e s. Gaudenzio, fanno supporre che sia morto attorno all’anno 387; la sua celebrazione come santo al 18 luglio, era considerata come data della sua morte, sia da s. Gaudenzio, sia dalla Chiesa di Brescia.
Fu sepolto nell’antica cattedrale di S. Andrea, forse da lui stesso edificata, le sue reliquie ebbero una prima traslazione il 9 aprile 838 nella chiesa di S. Maria, detta anche la ‘Rotonda’; ancora subirono spostamenti nel 1456, 1572 e 3 giugno 1674, quando furono collocate nell’arca preziosa ancora esistente nel nuovo duomo di Brescia.
Risulta che san Filastrio abbia composto tra gli anni 385 e 391 un catalogo di 136 eresie. La sua festa viene celebrata ancora oggi il 18 luglio.
Nell’omelia di s. Gaudenzio citata sopra, è detto che s. Filastrio aveva uno spirito ardente, dolcezza ed estrema moderazione, molta scienza, costumi santi, una sublime umiltà, rivolto alle cose celesti non dava valore alle cariche terrene.
Il servizio del Signore lo occupava continuamente, non si adirava ma sempre pronto a comprendere e giustificare. Amava i più piccoli e gli umili, con tutti era amabile e riconoscente.
Tratto da
http://www.treccani.it/enciclopedia/filastrio-di-brescia-santo_%28Enciclopedia-Italiana%29/
FILASTRIO di Brescia, santo (Filastrius, Filaster,
Phelaster). - Vescovo ed
eresiologo del sec. IV. Ben poco si sa della sua vita; forse non era di nascita
né greco né italiano; percorse molte regioni e fu anche a Milano ai tempi di
Aussenzio (v.), e, dopo breve soggiorno a Roma, si stabilì a Brescia ove fu
eletto vescovo. Nel 381 sottoscrisse gli atti del concilio di Aquileia. Morì
prima del 397.
Nel suo Liber de haeresibus, di valore assai inferiore allo stesso Panarion di Epifanio (v.), F. enumera
156 eresie, 128 cristiane e 28 anteriori al cristianesimo. Dal cap. 106 si
argomenta che l'opera fu scritta dopo il 365; d'altra parte dovette esser
finita alquanto prima del 397, nel quale anno morì Ambrogio che pure era
intervenuto all'elezione di Gaudenzio successore di Filastrio. Tuttavia dai
capp. 106 e 112 sembra che l'opera abbia ricevuto aggiornamenti da mano
estranea, essendovi nominati anni posteriori al 397; altri ha supposto vi siano
incorsi errori cronologici dell'autore. Edizioni del Liber in Patr. lat., XII, coll. 1111-1302 (Galeardi)
e in Corpus Script. Eccl. Lat., XXXVIII (Marx), Vienna 1898.
Bibl.: O. Bardenhewer, Geschichte der altkirchl. Literatur,
III, 2ª ed., Friburgo in B. 1923, p. 481 segg.; U. Moricca, Storia della letteratura lat. crist.,
II, i, Torino 1928, p. 579 segg.
Tratto da
http://brixiasacra.it/chiesa_bresciana.html
Filastrio conosceva bene l’Italia
padana per aver assistito i cristiani milanesi negli anni difficili di
Aussenzio, condannato nel 369, ed averne contrastato la fede ariana. È questo
del resto l’ambito in cui entrò in contatto con Ambrogio e, divenuto vescovo di
Brescia verso il 380, fu al suo fianco nel sinodo aquileiese (381) e suo ospite
a Milano tra il 385 e il 387 quando l’arcivescovo era avversato
dall’imperatrice e dal figlio Valentiniano II. Giunto a Brescia, Filastrio aveva
trovato una comunità cristianamente tanto incolta quanto desiderosa di
formazione religiosa; per questo, come un esperto agricoltore, aveva dissodato
il campo del paganesimo per fecondarlo con la parola del vangelo, combattendo
«non solo i pagani giudei, ma altresì tutti gli eretici e soprattutto la
perfida eresia ariana». Alla sua scuola si erano formati Dominatore, Stefano e
Gaudenzio: i primi due chiamati sulla cattedra episcopale bergamasca, il terzo
destinato a succedergli su quella bresciana. Di severa formazione teologica,
del suo impegno anti-ereticale ci rimane un trattato sulla purezza della fede.
Alla sua morte clero e popolo scelsero Gaudenzio, allora pellegrino in Oriente,
il cui governo ebbe probabilmente iniziò verso il 393. In occasione della
consacrazione, avvenuta forse l’anno seguente, il presule pronunciò un celebre
sermone che, insieme ad altre 20 omelie (o trattati), è l’unica testimonianza
sulla sua comunità.
Egli ci presenta l’immagine di una Chiesa povera di martiri, forse a motivo della giovane età, formata da un gruppo ristretto di personaggi eminenti di elevata estrazione sociale e da gente comune, spesso tormentata da molti bisogni. Un particolare disagio dovevano suscitare i numerosi poveri se, nelle parole del vescovo, trova spazio un durissimo richiamo verso quei cristiani ricchi che li ignoravano, come pure verso i loro desideri moralmente inaccettabili e la tolleranza verso il paganesimo che ancora serpeggiava tra i loro contadini, seguito dall’invito a rifuggire «tutti gli abomini dei gentili e ogni forma di idolatria».
Egli ci presenta l’immagine di una Chiesa povera di martiri, forse a motivo della giovane età, formata da un gruppo ristretto di personaggi eminenti di elevata estrazione sociale e da gente comune, spesso tormentata da molti bisogni. Un particolare disagio dovevano suscitare i numerosi poveri se, nelle parole del vescovo, trova spazio un durissimo richiamo verso quei cristiani ricchi che li ignoravano, come pure verso i loro desideri moralmente inaccettabili e la tolleranza verso il paganesimo che ancora serpeggiava tra i loro contadini, seguito dall’invito a rifuggire «tutti gli abomini dei gentili e ogni forma di idolatria».
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