La tradizione Italica su Santa
Cristina martire
Tratto dal Quotidiano Avvenire
Le
varie versioni della «Passio» di Cristina sono discordanti. Quelle greche la
dicono originaria di Tiro, le latine di Bolsena. A suffragare questa seconda
ipotesi sta il fatto che nella cittadina laziale – di cui la santa è patrona –
fin dal IV secolo si è sviluppato un cimitero sotterraneo intorno al sepolcro
di una martire Cristina. Il racconto della «Passio» è considerato favoloso e
narra di una undicenne che il padre fece rinchiudere in una torre con dodici
ancelle per preservarne la bellezza. In realtà questa misura venne adottata dal
genitore, di nome Urbano, ufficiale dell’imperatore, per costringere la figlia
ad abiurare la fede che aveva abbracciato: il cristianesimo. Alla morte del
padre – che già aveva fatto più volte torturare la figlia, pur di farla
ritornare agli antichi culti – le autorità si accanirono ancora di più su di
lei, mettendola a morte.
Tratto da
Cristina
fa parte di quel gruppo di sante martiri, la cui morte o i supplizi subiti si
imputano ai padri, talmente snaturati e privi di amore, da infliggere a queste
loro figlie i più crudeli tormenti e dando loro la morte, essi che l’avevano
generate alla vita.
Da scavi archeologici eseguiti fra il 1880 e il 1881 nella grotta situata sotto la Basilica di Santa Cristina a Bolsena, si è accertato che il culto per la martire era già esistente nel IV secolo; dal fondo della grotta-oratorio si apre l’ingresso alle catacombe, che contengono una sua statua giacente in terracotta dipinta e il sarcofago dove furono ritrovate le reliquie del corpo della santa.
Al tempo dell’imperatore Diocleziano (243-312) la fanciulla di nome Cristina, figlia del ‘magister militum’ di Bolsena, Urbano, era stata rinchiusa dal padre insieme con altre dodici fanciulle, in una torre affinché venerasse i simulacri degli dei come se fosse una vestale.
Ma l’undicenne Cristina in cuor suo aveva già conosciuto ed aderito alla fede cristiana, si rifiutò di venerare le statue e dopo una visione di angeli le spezzò.
Invano supplicata di tornare alla fede tradizionale, fu arrestata e flagellata dal padre magistrato, che poi la deferì al suo tribunale che la condannò ad una serie di supplizi, tra cui quello della ruota sotto la quale ardevano le fiamme.
Dopo di ciò fu ricondotta in carcere piena di lividi e piaghe; qui la giovane Cristina venne consolata e guarita miracolosamente da tre angeli scesi dal cielo.
Risultato vano anche questo tentativo, lo snaturato ed ostinato padre la condannò all’annegamento, facendola gettare nel lago di Bolsena con una mola legata al collo.
Prodigiosamente la grossa pietra si mise a galleggiare invece di andare a fondo e riportò alla riva la fanciulla, la quale calpestando la pietra una volta giunta, lasciò (altro prodigio) impresse le impronte dei suoi piedi; questa pietra fu poi trasformata in mensa d’altare.
Di fronte a questo miracolo, il padre scosso e affranto morì, ma le pene di Cristina non finirono, perché il successore di Urbano, il magistrato Dione, infierì ancora di più.
La fece flagellare ma inutilmente, poi gettare in una caldaia bollente piena di pece, resina e olio, da cui Cristina uscì incolume, la fece tagliare i capelli e trascinare nuda per le strade della cittadina lagunare, infine trascinatala nel tempio di Apollo, gli intimò di adorare il dio, ma la fanciulla con uno sguardo fulminante fece cadere l’idolo riducendolo in polvere.
Anche Dione morì e fu sostituito dal magistrato Giuliano, che seguendo i suoi predecessori continuò l’ostinata opera d’intimidazione di Cristina, gettandola in una fornace da cui uscì ancora una volta illesa; questa fornace chiamata dal bolsenesi ‘Fornacella’, si trova a circa due km a sud della città; in un appezzamento di terreno situato fra la Cassia e il lago, nel Medioevo fu inglobata in un oratorio campestre.
Cristina fu indomabile nella sua fede, allora Giuliano la espose ai morsi dei serpenti, portati da un serparo marsicano, i quali invece di morderla, presero a leccarle il sudore, la tradizione meno realistica della leggenda, vuole che i serpenti si rivoltarono contro il serparo mordendolo, ma Cristina mossa a pietà, lo guarì.
Seguendo le ‘passio’ di martiri celebri come s. Agata, la leggendaria ‘Passio’ dice che Giuliano le fece tagliare le mammelle e mozzare la lingua, che la fanciulla scagliò contro il suo persecutore accecandolo. Infine gli arcieri, come a s. Sebastiano, la trafissero mortalmente con due frecce.
Questo il racconto leggendario della ‘Passio’ redatta non anteriore al IX secolo, il cui valore storico è quasi nullo, precedenti ‘passio’ greche sostenevano che Cristina, il cui nome latino significa “consacrata a Cristo”, fosse nata a Tiro in Fenicia, ma si tratta di un errore dovuto al fatto che la prima ‘passio’ fu redatta in Egitto e che per indicare la terra degli Etruschi chiamati Tirreni dai Greci, si usava l’abbreviazione ‘Tyr’ interpretata erroneamente come Tiro.
Le reliquie ebbero anche loro un destino avventuroso, furono ritrovate nel 1880 nel sarcofago dentro le catacombe poste sotto la basilica dei Santi Giorgio e Cristina, chiesa risalente all’XI secolo e consacrata da papa Gregorio VII nel 1077.
Le reliquie del corpo, anzi di parte di esso sono conservate in una teca, parte furono trafugate nel 1098 da due pellegrini diretti in Terrasanta, ma essi giunti a Sepino, cittadina molisana in provincia di Campobasso, non riuscirono più a lasciare la città con il loro prezioso carico, per cui le donarono agli abitanti.
Questo l’inizio del culto della santa molto vivo a Sepino, le reliquie costituite oggi solo da un braccio, sono conservate nella chiesa a lei dedicata; le altre reliquie furono traslate tra il 1154 e 1166 a Palermo, che proclamò la martire sua patrona celeste, festeggiandola il 24 luglio e il 7 maggio; la devozione durò almeno fino a quando non furono “scoperte” nel secolo XVII le reliquie di santa Rosalia, diventata poi patrona principale. A Sepino, s. Cristina viene ricordata dai fedeli ben quattro giorni durante l’anno
A Bolsena, s. Cristina viene festeggiata con una grande manifestazione religiosa, la vigilia della festa il 23 luglio sera
Da scavi archeologici eseguiti fra il 1880 e il 1881 nella grotta situata sotto la Basilica di Santa Cristina a Bolsena, si è accertato che il culto per la martire era già esistente nel IV secolo; dal fondo della grotta-oratorio si apre l’ingresso alle catacombe, che contengono una sua statua giacente in terracotta dipinta e il sarcofago dove furono ritrovate le reliquie del corpo della santa.
Al tempo dell’imperatore Diocleziano (243-312) la fanciulla di nome Cristina, figlia del ‘magister militum’ di Bolsena, Urbano, era stata rinchiusa dal padre insieme con altre dodici fanciulle, in una torre affinché venerasse i simulacri degli dei come se fosse una vestale.
Ma l’undicenne Cristina in cuor suo aveva già conosciuto ed aderito alla fede cristiana, si rifiutò di venerare le statue e dopo una visione di angeli le spezzò.
Invano supplicata di tornare alla fede tradizionale, fu arrestata e flagellata dal padre magistrato, che poi la deferì al suo tribunale che la condannò ad una serie di supplizi, tra cui quello della ruota sotto la quale ardevano le fiamme.
Dopo di ciò fu ricondotta in carcere piena di lividi e piaghe; qui la giovane Cristina venne consolata e guarita miracolosamente da tre angeli scesi dal cielo.
Risultato vano anche questo tentativo, lo snaturato ed ostinato padre la condannò all’annegamento, facendola gettare nel lago di Bolsena con una mola legata al collo.
Prodigiosamente la grossa pietra si mise a galleggiare invece di andare a fondo e riportò alla riva la fanciulla, la quale calpestando la pietra una volta giunta, lasciò (altro prodigio) impresse le impronte dei suoi piedi; questa pietra fu poi trasformata in mensa d’altare.
Di fronte a questo miracolo, il padre scosso e affranto morì, ma le pene di Cristina non finirono, perché il successore di Urbano, il magistrato Dione, infierì ancora di più.
La fece flagellare ma inutilmente, poi gettare in una caldaia bollente piena di pece, resina e olio, da cui Cristina uscì incolume, la fece tagliare i capelli e trascinare nuda per le strade della cittadina lagunare, infine trascinatala nel tempio di Apollo, gli intimò di adorare il dio, ma la fanciulla con uno sguardo fulminante fece cadere l’idolo riducendolo in polvere.
Anche Dione morì e fu sostituito dal magistrato Giuliano, che seguendo i suoi predecessori continuò l’ostinata opera d’intimidazione di Cristina, gettandola in una fornace da cui uscì ancora una volta illesa; questa fornace chiamata dal bolsenesi ‘Fornacella’, si trova a circa due km a sud della città; in un appezzamento di terreno situato fra la Cassia e il lago, nel Medioevo fu inglobata in un oratorio campestre.
Cristina fu indomabile nella sua fede, allora Giuliano la espose ai morsi dei serpenti, portati da un serparo marsicano, i quali invece di morderla, presero a leccarle il sudore, la tradizione meno realistica della leggenda, vuole che i serpenti si rivoltarono contro il serparo mordendolo, ma Cristina mossa a pietà, lo guarì.
Seguendo le ‘passio’ di martiri celebri come s. Agata, la leggendaria ‘Passio’ dice che Giuliano le fece tagliare le mammelle e mozzare la lingua, che la fanciulla scagliò contro il suo persecutore accecandolo. Infine gli arcieri, come a s. Sebastiano, la trafissero mortalmente con due frecce.
Questo il racconto leggendario della ‘Passio’ redatta non anteriore al IX secolo, il cui valore storico è quasi nullo, precedenti ‘passio’ greche sostenevano che Cristina, il cui nome latino significa “consacrata a Cristo”, fosse nata a Tiro in Fenicia, ma si tratta di un errore dovuto al fatto che la prima ‘passio’ fu redatta in Egitto e che per indicare la terra degli Etruschi chiamati Tirreni dai Greci, si usava l’abbreviazione ‘Tyr’ interpretata erroneamente come Tiro.
Le reliquie ebbero anche loro un destino avventuroso, furono ritrovate nel 1880 nel sarcofago dentro le catacombe poste sotto la basilica dei Santi Giorgio e Cristina, chiesa risalente all’XI secolo e consacrata da papa Gregorio VII nel 1077.
Le reliquie del corpo, anzi di parte di esso sono conservate in una teca, parte furono trafugate nel 1098 da due pellegrini diretti in Terrasanta, ma essi giunti a Sepino, cittadina molisana in provincia di Campobasso, non riuscirono più a lasciare la città con il loro prezioso carico, per cui le donarono agli abitanti.
Questo l’inizio del culto della santa molto vivo a Sepino, le reliquie costituite oggi solo da un braccio, sono conservate nella chiesa a lei dedicata; le altre reliquie furono traslate tra il 1154 e 1166 a Palermo, che proclamò la martire sua patrona celeste, festeggiandola il 24 luglio e il 7 maggio; la devozione durò almeno fino a quando non furono “scoperte” nel secolo XVII le reliquie di santa Rosalia, diventata poi patrona principale. A Sepino, s. Cristina viene ricordata dai fedeli ben quattro giorni durante l’anno
A Bolsena, s. Cristina viene festeggiata con una grande manifestazione religiosa, la vigilia della festa il 23 luglio sera
La
Passio di Santa Cristina
Tratto
da
https://forum.termometropolitico.it/594481-24-luglio-s-cristina-di-bolsena-martire.html
paragrafo
4
Viveva
in Etruria, sulle rive del lago di Bolsena, una fanciulla di undici anni di
nome Cristina, figlia di Urbano, magister militum, e di una donna di sangue
romano appartenente alla gens Anicia.
Desiderosa di mantenersi vergine, la fanciulla venne rinchiusa dal padre in una torre insieme a dodici ancelle, circondata di ogni ricchezza e protetta da preziose statue di idoli. Cristina, anziché offrire incenso sugli altari degli idoli, lo poneva su di una finestra posta ad oriente, e contemplando le bellezze del creato pregava il vero Dio. Una sera, la beata Cristina afferrò le statue di Giove, Apollo e Venere e, legata alla finestra la fascia che le cingeva i fianchi, si calò dalla torre, distrusse le statue degli idoli e donò i preziosi frammenti ai poveri, così come gli abiti che la ricoprivano.
Desiderosa di mantenersi vergine, la fanciulla venne rinchiusa dal padre in una torre insieme a dodici ancelle, circondata di ogni ricchezza e protetta da preziose statue di idoli. Cristina, anziché offrire incenso sugli altari degli idoli, lo poneva su di una finestra posta ad oriente, e contemplando le bellezze del creato pregava il vero Dio. Una sera, la beata Cristina afferrò le statue di Giove, Apollo e Venere e, legata alla finestra la fascia che le cingeva i fianchi, si calò dalla torre, distrusse le statue degli idoli e donò i preziosi frammenti ai poveri, così come gli abiti che la ricoprivano.
Un
tale comportamento sconcertò le dodici ancelle che non riuscivano a capire il
gesto di carità della fanciulla, la quale, ritornata nella torre, le ammaestrò
nelle verità del vangelo.
Il padre Urbano, entrando nella torre e vedendo che le statue degli idoli non erano più collocate sui loro altari, interrogò la figlia e, scoperta la sua fede, cercò di riappropriarsi della fanciulla manifestandole il suo affetto di padre, il suo dolore e la sua delusione per avere mal riposto tante speranze in lei. Cristina comprese i moti contrastanti che turbavano profondamente il cuore del padre, comprese il suo dolore, ma il suo amore per Cristo andava oltre ogni affetto terreno.
Siamo agli inizi del IV secolo, e nel mondo romano infuriava una delle più cruente persecuzioni contro i cristiani. Urbano, oltre che padre, rappresentava il potere costituito di un impero che stava ormai per veder concludere la parabola del suo splendido millennio. Le leggi dovevano essere rispettate e, cosciente del suo ruolo, il padre divenne, da quel momento, anche il persecutore della figlia. La fece rinchiudere in un carcere per farla recedere dalle proprie convinzioni, ma a nulla valsero le lacrime, le carezze e i baci della madre. Nella notte due angeli entrarono nel carcere per confortare la fanciulla e annunciarle una lunga battaglia prima di poter eternamente abbracciare il suo sposo celeste.
Il mattino seguente, Urbano fece condurre la figlia al cospetto del suo tribunale dove venne lungamente interrogata, istigata ad adorare gli idoli, a giurare fedeltà all'imperatore e a riconoscerlo come divinità.
Vista la fermezza della fanciulla, la fece allora legare a un'alta colonna e colpire con verghe da dodici uomini. Tanta fu la forza che la preghiera donò a Cristina che gli uomini caddero a terra esausti per lo sforzo. Il padre comandò allora che fosse legata a una grande ruota, che al suo girare avrebbe inesorabilmente stroncato le esili membra della santa, e sotto la quale fece accendere un grande fuoco.
Cristina si adagiò dolcemente e senza timore sullo strumento di tortura, pregando il suo Dio. E Dio, che mai abbandona chi pone la speranza nella sua misericordia, inviò il suo angelo, che spezzò la ruota, mentre un gran vento si levò dal vicino lago per allontanare le fiamme dal corpo di Cristina.
Il padre Urbano, entrando nella torre e vedendo che le statue degli idoli non erano più collocate sui loro altari, interrogò la figlia e, scoperta la sua fede, cercò di riappropriarsi della fanciulla manifestandole il suo affetto di padre, il suo dolore e la sua delusione per avere mal riposto tante speranze in lei. Cristina comprese i moti contrastanti che turbavano profondamente il cuore del padre, comprese il suo dolore, ma il suo amore per Cristo andava oltre ogni affetto terreno.
Siamo agli inizi del IV secolo, e nel mondo romano infuriava una delle più cruente persecuzioni contro i cristiani. Urbano, oltre che padre, rappresentava il potere costituito di un impero che stava ormai per veder concludere la parabola del suo splendido millennio. Le leggi dovevano essere rispettate e, cosciente del suo ruolo, il padre divenne, da quel momento, anche il persecutore della figlia. La fece rinchiudere in un carcere per farla recedere dalle proprie convinzioni, ma a nulla valsero le lacrime, le carezze e i baci della madre. Nella notte due angeli entrarono nel carcere per confortare la fanciulla e annunciarle una lunga battaglia prima di poter eternamente abbracciare il suo sposo celeste.
Il mattino seguente, Urbano fece condurre la figlia al cospetto del suo tribunale dove venne lungamente interrogata, istigata ad adorare gli idoli, a giurare fedeltà all'imperatore e a riconoscerlo come divinità.
Vista la fermezza della fanciulla, la fece allora legare a un'alta colonna e colpire con verghe da dodici uomini. Tanta fu la forza che la preghiera donò a Cristina che gli uomini caddero a terra esausti per lo sforzo. Il padre comandò allora che fosse legata a una grande ruota, che al suo girare avrebbe inesorabilmente stroncato le esili membra della santa, e sotto la quale fece accendere un grande fuoco.
Cristina si adagiò dolcemente e senza timore sullo strumento di tortura, pregando il suo Dio. E Dio, che mai abbandona chi pone la speranza nella sua misericordia, inviò il suo angelo, che spezzò la ruota, mentre un gran vento si levò dal vicino lago per allontanare le fiamme dal corpo di Cristina.
Di
fronte a questo straordinario episodio molti degli astanti riconobbero in
Cristo il vero Dio. Il padre la fece ricondurre in carcere; il dolore
attanagliava il suo cuore, egli desiderava ormai non rivedere più la figlia;
preferendo farla scomparire per sempre ordinò allora a cinque uomini di
condurla nella notte successiva, in gran segreto, sul lago e di gettarla nei
flutti.
La barca navigava tranquilla sulle acque di quel bellissimo lago, la fanciulla contemplava il cielo stellato e la riva che si allontanava permeata da una leggera foschia; quell'incantesimo era rotto soltanto dal piacevole sciabordìo delle acque. Giunti al centro del lago, gli uomini legarono al corpo della santa una pesante macina da mulino e la gettarono nelle acque. Ma ecco che gli angeli del Signore la sollevarono nelle loro braccia, una grande luce squarciò quella notte e Cristo discese fino a lei battezzandola e affidandola poi all'arcangelo Michele per ricondurla sulle acque fino all'arenile.
Era l'alba. Urbano uscì dal suo palazzo e si recò sulla spiaggia, e riandò triste al luogo da dove aveva assistito alla partenza della barca con la figlia … Vide fluttuare in lontananza sull'acqua un non so che, come un'immagine di fanciulla. Spinta dai flutti quella figura si avvicinò ancora, e quanto più la guardava, tanto più la sua mente si smarriva. E ormai la vedeva accostarsi sempre più alla riva, sempre più ormai la poteva riconoscere: era la figlia che, salda alla macina, galleggiava come un fiore di ninfea.
A quella vista Urbano urlò e si straziò insieme viso, chioma e vesti, e tendendo le mani tremanti verso il cielo imprecò gli dèi per la sconfitta. Il suo cuore non resse a tanto dolore e, tormentato dai dèmoni, Urbano morì. Cristina fu ricondotta in prigione, dove gli angeli la fortificarono con il pane dell'immortalità.
Successe ad Urbano un altro persecutore di nome Dione, uomo lussurioso e superstizioso, che cercò di ricondurre la fanciulla all'antica religione con le lusinghe di un matrimonio e con crudeli minacce. Ma, visto inutile ogni tentativo, a disprezzo della tenera età della santa, la immerse in una culla metallica ripiena di olio e pece, e ordinò a quattro uomini di agitarla su un gran fuoco.
Cristina lodava Dio nella caldaia e lo ringraziava perché, da poco nata alla fede, le permetteva di essere dolcemente cullata.
Il giudice, adirato, fece radere il capo della santa dai biondi capelli e ordinò che fosse condotta nuda fino al tempio di Apollo. Le donne, vedendo la fanciulla trascinata per le vie della città senza alcun riparo alla sua nudità, commosse tolsero dalle loro spalle i mantelli e crearono una cortina attorno al corpo di Cristina. Giunti al tempio, la santa fu nuovamente invitata a bruciare incenso sull'altare degli idoli. Ferma nella fede, ella pregò Dio di manifestare la sua grandezza. In quel momento, la statua di Apollo scese dal suo piedistallo frantumandosi al suolo; una scheggia colpì Dione che rimase morto.
Sulle rive del lago di Bolsena giunse un nuovo tiranno. Venuto a conoscenza della fama di Cristina, andò a visitarla nel carcere, sottoponendola a un lungo interrogatorio, che non riuscì a scalfire la fede adamantina della fanciulla. Giuliano, questo era il suo nome, fece accendere una grande fornace da mattoni per gettarvi Cristina.
La notte, l'angelo del Signore visitò la santa nel carcere, confortandola e preannunciandole che presto avrebbe finalmente abbracciato il suo sposo. Il mattino seguente Cristina venne condotta in un luogo poco distante dalla città e gettata nella fornace. Dopo cinque giorni i persecutori riaprirono il forno, pensando di trovare solo cenere; invece, con spavento e stupore, videro Cristina in conversazione con un gruppo di angeli che con il loro battere d'ali avevano tenuto lontano il fuoco dal corpo della santa.
Quando Giuliano seppe ciò, attribuì il prodigio alle arti magiche possedute dalla fanciulla e ordinò che fossero aizzati contro di lei vipere, aspidi e colubri; ma le vipere le si arrotolarono ai piedi, gli aspidi le circondarono il
La barca navigava tranquilla sulle acque di quel bellissimo lago, la fanciulla contemplava il cielo stellato e la riva che si allontanava permeata da una leggera foschia; quell'incantesimo era rotto soltanto dal piacevole sciabordìo delle acque. Giunti al centro del lago, gli uomini legarono al corpo della santa una pesante macina da mulino e la gettarono nelle acque. Ma ecco che gli angeli del Signore la sollevarono nelle loro braccia, una grande luce squarciò quella notte e Cristo discese fino a lei battezzandola e affidandola poi all'arcangelo Michele per ricondurla sulle acque fino all'arenile.
Era l'alba. Urbano uscì dal suo palazzo e si recò sulla spiaggia, e riandò triste al luogo da dove aveva assistito alla partenza della barca con la figlia … Vide fluttuare in lontananza sull'acqua un non so che, come un'immagine di fanciulla. Spinta dai flutti quella figura si avvicinò ancora, e quanto più la guardava, tanto più la sua mente si smarriva. E ormai la vedeva accostarsi sempre più alla riva, sempre più ormai la poteva riconoscere: era la figlia che, salda alla macina, galleggiava come un fiore di ninfea.
A quella vista Urbano urlò e si straziò insieme viso, chioma e vesti, e tendendo le mani tremanti verso il cielo imprecò gli dèi per la sconfitta. Il suo cuore non resse a tanto dolore e, tormentato dai dèmoni, Urbano morì. Cristina fu ricondotta in prigione, dove gli angeli la fortificarono con il pane dell'immortalità.
Successe ad Urbano un altro persecutore di nome Dione, uomo lussurioso e superstizioso, che cercò di ricondurre la fanciulla all'antica religione con le lusinghe di un matrimonio e con crudeli minacce. Ma, visto inutile ogni tentativo, a disprezzo della tenera età della santa, la immerse in una culla metallica ripiena di olio e pece, e ordinò a quattro uomini di agitarla su un gran fuoco.
Cristina lodava Dio nella caldaia e lo ringraziava perché, da poco nata alla fede, le permetteva di essere dolcemente cullata.
Il giudice, adirato, fece radere il capo della santa dai biondi capelli e ordinò che fosse condotta nuda fino al tempio di Apollo. Le donne, vedendo la fanciulla trascinata per le vie della città senza alcun riparo alla sua nudità, commosse tolsero dalle loro spalle i mantelli e crearono una cortina attorno al corpo di Cristina. Giunti al tempio, la santa fu nuovamente invitata a bruciare incenso sull'altare degli idoli. Ferma nella fede, ella pregò Dio di manifestare la sua grandezza. In quel momento, la statua di Apollo scese dal suo piedistallo frantumandosi al suolo; una scheggia colpì Dione che rimase morto.
Sulle rive del lago di Bolsena giunse un nuovo tiranno. Venuto a conoscenza della fama di Cristina, andò a visitarla nel carcere, sottoponendola a un lungo interrogatorio, che non riuscì a scalfire la fede adamantina della fanciulla. Giuliano, questo era il suo nome, fece accendere una grande fornace da mattoni per gettarvi Cristina.
La notte, l'angelo del Signore visitò la santa nel carcere, confortandola e preannunciandole che presto avrebbe finalmente abbracciato il suo sposo. Il mattino seguente Cristina venne condotta in un luogo poco distante dalla città e gettata nella fornace. Dopo cinque giorni i persecutori riaprirono il forno, pensando di trovare solo cenere; invece, con spavento e stupore, videro Cristina in conversazione con un gruppo di angeli che con il loro battere d'ali avevano tenuto lontano il fuoco dal corpo della santa.
Quando Giuliano seppe ciò, attribuì il prodigio alle arti magiche possedute dalla fanciulla e ordinò che fossero aizzati contro di lei vipere, aspidi e colubri; ma le vipere le si arrotolarono ai piedi, gli aspidi le circondarono il
seno
e i colubri le leccarono il sudore intorno al collo. L'incantatore cercava di
eccitare gli ofidi contro la fanciulla, ma questi, alle preghiere della santa,
gli si rivoltarono contro uccidendolo. Nella sua grande carità, Cristina, nel
nome di Cristo, riportò alla vita il poveretto.
L'alba del 24 luglio sorse radiosa, indorando le morbide colline e le acque del lago; una lama di luce illuminò il tetro carcere dove Cristina, nella preghiera, attendeva il momento supremo. Quando il sole fu più alto e cocente, un gruppo di arcieri prelevò la fanciulla e la condusse nell'anfiteatro. Giuliano ordinò allora che le fossero strappate le mammelle e la lingua; dai suoi seni recisi uscì latte anziché sangue e la sua bocca continuò a cantare le lodi del Signore. Cristina raccolse un pezzo della sua lingua e la gettò in faccia a Giuliano che fu percosso in un occhio e subito perse la vista. Gli arcieri presero la santa e la legarono a un palo trafiggendola con le loro frecce nel petto e nei fianchi. Così solamente cessò di battere quel cuore che tanto aveva amato il Signore, per unirsi eternamente, nella pienezza della grazia, allo sposo tanto atteso.
Venne poi un tale della sua famiglia, che grazie a lei aveva creduto in Cristo, prelevò il corpo esangue di Cristina, lo cosparse di aromi e lo depose in un luogo apposito nei pressi del tempio di Apollo.
L'alba del 24 luglio sorse radiosa, indorando le morbide colline e le acque del lago; una lama di luce illuminò il tetro carcere dove Cristina, nella preghiera, attendeva il momento supremo. Quando il sole fu più alto e cocente, un gruppo di arcieri prelevò la fanciulla e la condusse nell'anfiteatro. Giuliano ordinò allora che le fossero strappate le mammelle e la lingua; dai suoi seni recisi uscì latte anziché sangue e la sua bocca continuò a cantare le lodi del Signore. Cristina raccolse un pezzo della sua lingua e la gettò in faccia a Giuliano che fu percosso in un occhio e subito perse la vista. Gli arcieri presero la santa e la legarono a un palo trafiggendola con le loro frecce nel petto e nei fianchi. Così solamente cessò di battere quel cuore che tanto aveva amato il Signore, per unirsi eternamente, nella pienezza della grazia, allo sposo tanto atteso.
Venne poi un tale della sua famiglia, che grazie a lei aveva creduto in Cristo, prelevò il corpo esangue di Cristina, lo cosparse di aromi e lo depose in un luogo apposito nei pressi del tempio di Apollo.
Leggere
anche
Origini e diffusione del culto | Santa Cristina di Bolsena
Santi
Cleonico e Stratonico martiri a Lentini in Sicilia tra il 253 e il 259
Tratto
da
http://sottolapietra.blogspot.com/2014/05/a-san-fratello-la-partecipazione-alle.html
ed
anche da
http://www.centamore.it/TreSanti/I_Santi_Martiri_Testo.asp
Il 1O
Maggio 253 d. C.
Il glorioso Martirio dei Tre Fratelli Alfio - Filadelfo e Cirino alla Fontana
Era un bel dì di Maggio, giorno 10 di Mercoledì. La sterminata piazza di Leontini era gremita di folla in attesa di un grande evento storico.
I Tre Fratelli venivano messi alla prova suprema dopo essere stati costretti a girare nudi e a piedi scalzi i colli e le vie della città di Leontini.
Nel Foro Tertullo, ammantato di Porpora, il Preside Tertullo attorniato dai Consiglieri e da numerosi soldati romani, fece tradurre i Tre Fratelli.
A fianco al trono del Preside si erigeva una statua di una divinità pagana.
Tertullo invitò i Tre Fratelli ad incensare alla dea.
"0 vi piegate agli dei di Roma o presto sarete uccisi: Decidete!"
Sant'Alfio rispose per tutti!
"Noi siamo Cristiani!!! - Fa su di noi quello che tu vuoi, inventa strumenti di tortura; Noi saremo sempre fedeli a Gesù Cristo, Figlio di Dio vivente".
Filadelfo e Cirino confermarono quanto detto da Alfio.
"Nostra madre - essi dissero - ci ha dato l'esempio; essa è beata in Cielo; il maestro Onesimo, il nostro nipote Erasmo e altri 13 Compagni sono stati sacrificati a Pozzuoli; Mercurio e i suoi soldati decapitati da te o Tertullo; altri nelle contrade di Leontini; e noi dovremmo piegarci a te?"
Tertullo furente, si alza agitato, si consiglia coi suoi Consiglieri ed esclama:, "Nel nome dell'Imperatore di Roma, ordino di strappare la lingua ad Alfio e buttarla in quel pozzo aperto (ecco il nome di Chiesa della Fontana dove ancora sgorga un'acqua limpida e sempre viva bevuta dai fedeli); Filadelfo sia steso su quella graticola ardente, - Cirino sia tuffato nella caldaia bollente".
Mentre spiravano tutti videro Angeli del cielo portanti corone che posarono sulle teste dei Tre Santi Fratelli.
I corpi dei Tre furono nella notte depositati da Tecla e Giustina allo Strobilio ( pino ) dove veneriamo i Sepolcri.
Il glorioso Martirio dei Tre Fratelli Alfio - Filadelfo e Cirino alla Fontana
Era un bel dì di Maggio, giorno 10 di Mercoledì. La sterminata piazza di Leontini era gremita di folla in attesa di un grande evento storico.
I Tre Fratelli venivano messi alla prova suprema dopo essere stati costretti a girare nudi e a piedi scalzi i colli e le vie della città di Leontini.
Nel Foro Tertullo, ammantato di Porpora, il Preside Tertullo attorniato dai Consiglieri e da numerosi soldati romani, fece tradurre i Tre Fratelli.
A fianco al trono del Preside si erigeva una statua di una divinità pagana.
Tertullo invitò i Tre Fratelli ad incensare alla dea.
"0 vi piegate agli dei di Roma o presto sarete uccisi: Decidete!"
Sant'Alfio rispose per tutti!
"Noi siamo Cristiani!!! - Fa su di noi quello che tu vuoi, inventa strumenti di tortura; Noi saremo sempre fedeli a Gesù Cristo, Figlio di Dio vivente".
Filadelfo e Cirino confermarono quanto detto da Alfio.
"Nostra madre - essi dissero - ci ha dato l'esempio; essa è beata in Cielo; il maestro Onesimo, il nostro nipote Erasmo e altri 13 Compagni sono stati sacrificati a Pozzuoli; Mercurio e i suoi soldati decapitati da te o Tertullo; altri nelle contrade di Leontini; e noi dovremmo piegarci a te?"
Tertullo furente, si alza agitato, si consiglia coi suoi Consiglieri ed esclama:, "Nel nome dell'Imperatore di Roma, ordino di strappare la lingua ad Alfio e buttarla in quel pozzo aperto (ecco il nome di Chiesa della Fontana dove ancora sgorga un'acqua limpida e sempre viva bevuta dai fedeli); Filadelfo sia steso su quella graticola ardente, - Cirino sia tuffato nella caldaia bollente".
Mentre spiravano tutti videro Angeli del cielo portanti corone che posarono sulle teste dei Tre Santi Fratelli.
I corpi dei Tre furono nella notte depositati da Tecla e Giustina allo Strobilio ( pino ) dove veneriamo i Sepolcri.
Due giovani Leontinesi, Cleonico e Stratonico,
presenti al sacrifizio gridarono contro il tiranno accusandolo di crudeltà.
Tertullo subito li fece arrestare e fece strappare la 1ingua anche a loro buttata in altri pozzi e poi uccisi
Tertullo subito li fece arrestare e fece strappare la 1ingua anche a loro buttata in altri pozzi e poi uccisi
santo Fantino il Vecchio, conosciuto anche come il Cavallaro (in greco Ἱππονομεύς) o il Taumaturgo.
Tratto
da
Dalla
Sicilia continentale – all’incirca, l’attuale provincia di Reggio Calabria – il
culto di san Fantino si diffuse in tutta la Grande Grecia, per raggiungere poi
i popoli slavi (passando per Tessalonica) e il Nord-Est della penisola italica:
al santo cavallaio, creduto cavaliere, è dedicata una delle più antiche parrocchie
di Venezia – in Campo San Fantin – e, curiosamente, la locale confraternita
degli skaleteri, i
pasticcieri.
Di lui,
tuttavia, non si sa molto di più di quanto si può leggere nel cànone per la
festa, composto dall’innografo san Giuseppe di Siracusa, il quale – a sua volta
– s’ispirò a una Narrazione anteriore, opera del vescovo Pietro di
Tauriana (RC)[1]. Anche questi non disponeva che
di pochissimi dati biografici, e poteva testimoniare solo della continuità del
culto. Il suo Racconto – da cui è fedelmente tratto il nostro testo[2] – è, comunque, fondamentale per
la conoscenza d’uno dei più noti tra i santi nati in quella porzione dell’Impero
romano che oggi chiamiamo “Italia Meridionale”.
Narrazione
del vescovo Pietro, sulla vita e i miracoli di Fantino, glorioso servo di
Cristo
Tenere nascosto il segreto del re
è cosa bella, ma aver manifestato il segreto di Dio è cosa gloriosa, com’è
stato scritto; passare sotto silenzio le meravigliose opere di Dio apporta
pericolo all’anima. Noi, dunque, per non passare sotto silenzio le cose divine,
non abbiamo giudicato giusto tralasciare una narrazione sacra, utile all’anima
e tramandata fino a noi. Abbiamo giudicato d’esporla chiaramente, come
l’abbiamo udita dai nostri padri, affinché, col passare del tempo, le cose
belle non diventassero evanescenti o finissero dimenticate nelle profondità
dell’oblio. Ossequienti alla verità, anche se con pedestre discorso, narriamo
le cose come stanno.
Questo famoso servo di Dio fu chiamato
“Fantino” poiché conveniva che egli fosse chiamato con un nome splendido,
affinché fosse chiaro a tutti che quell’uomo piissimo era partecipe della
divina luce[3]. Questo servo di Dio fu servo
d’un tale a nome Balsamio; tuttavia, in virtù della luce divina a lui tributata
dalla potenza di Dio, giunse alla somma venerazione e all’amicizia di Dio. Egli
era in occulto vero cristiano[4], osservando incorrotti i
precetti di Dio, astenendosi da ogni cattiva azione, assiduo ai digiuni e alle
preghiere. Conversando, notte e giorno, con Dio per mezzo della preghiera,
conduceva quasi vita ascetica. Lo stesso abbiamo appreso dalla Scrittura
riguardo a Mosè: “mentre pascolava le greggi di Jothor, suo suocero, sacerdote
di Madiam”, nella solitudine, fu reso degno della divina visione di Dio, per
mezzo dell’apparizione della Luce nel roveto, ed egli – divenuto conversatore
di Dio – compì meravigliosi miracoli. Cosi accadde anche a questi: essendogli
stato affidato dal suo padrone un gregge di cavalli, per condurli al pascolo,
viveva sui monti e in luoghi solitari, scegliendo la solitudine e la quiete[5] per supplicare diligentemente
Dio e a lui tendere la mente. Pertanto, guidava i cavalli spingendoli da
pascolo in pascolo e da acque ad acque, in pianure ricche d’erbe, per
presentarli al padrone belli all’aspetto ed eccellenti. Adempiva a questo suo
dovere con molta fede e timore, compiendo il detto del divino Apostolo: “Servi,
obbedite ai vostri signori secondo la carne con timore e tremore, nella
semplicità del vostro cuore, come a Cristo; non servendo per farvi vedere come
chi vuole piacere agli uomini, ma come servi di Cristo”. Il beato, perseverando
nella preghiera con molti digiuni, fu reso degno della Grazia Divina, anche
perché era molto amico del prossimo e misericordioso. Il beato era piissimo
verso i poveri: provandone pietà e non avendo niente da dare loro, perché
servo, nel tempo della mietitura trebbiava le messi dei bisognosi e dei poveri
e ciò nelle notti, per non turbare il proprio padrone, e arrecargli danno.
Mentre il beato era così disposto verso i
poveri, il diavolo – nemico del bello – volle privare i poveri di quell’aiuto:
istigò uomini amanti del male ad accusarlo falsamente. Dicono al padrone:
“Perché il tuo servo Fantino affatica i cavalli, trebbiando il grano a
conoscenti e amici?” Egli, avendo udito queste cose ed essendosi adirato,
s’alza e va a vedere se era vero. Ma il beato Fantino, avendo saputo in spirito
che il suo padrone si avvicinava, batté i covoni con il frustino che teneva in
mano, e questi apparvero come erba nel campo. I cavalli riposavano sull’erba ed
egli, sdraiato al suolo, fingeva di dormire. Essendo sopraggiunto il suo
padrone e avendo visto – era luna piena – che lui e i cavalli erano sdraiati
sull’erba nel campo, rivolse la parola al beato: “Che cosa fanno i tuoi
cavalli, Fantino?” Ed egli, come svegliandosi, s’alzò e rispose: “Ecco, mio
signore, come vedi, riposano sull’erba”. Quegli, avendo udito queste cose e
avendo visto con i propri occhi, se ne andò. Quei nemici del Bello, vanno di
nuovo da Balsamio: “Perché permetti che il tuo servo stanchi i cavalli per le
fatiche altrui? Li ha resi brutti all’aspetto e magri di carne! Se vuoi avere
soddisfazione, va’ e vedi”. Subito si alza e va a vedere, ma il santo, finito
il lavoro, montò a cavallo e si allontanò, spingendo avanti la mandria per
attraversare il fiume che scorreva vicino.
Questo fiume, chiamato “Metauro”, è di corso
pericoloso; a volte, infatti, specie nel tempo invernale, la sua corrente si
spinge in modo inarrestabile[6]. Fu chiamato Metauro, io penso,
dal verbo “scorrere”[7]. Vi è anche un’altra opinione:
un tale, chiamato Tauro, fu il fondatore della città chiamata “Tauriana” dal
suo nome[8]. Non fu una città oscura, ma
molto famosa, e i suoi ruderi e le testimonianze rimangono fino a oggi e si
trovano qua e là, su entrambi i lati del fiume e rivelano l’antica grandiosità
e il suo splendore, anche se il centro è disabitato a causa delle devastazioni
avvenute in tempi recenti[9]. Per il fatto che il fiume passa
in mezzo alla città di Tauro, fu chiamato ed è detto Metauro.
Il santo, dunque, volendo passare questo
fiume con i cavalli, come s’è detto, per riportarli alla loro stalla, e vedendo
che ovunque tracimava dalle rive, sapeva che non sarebbe stato facile
attraversarlo con i cavalli. Ma vedeva che il suo padrone lo inseguiva. Come il
grande Mosè, alzò il frustino e percuotendo l’acqua del fiume, disse: “Fermati,
Metauro! Passa Fantino, servo di Dio”. L’acqua si fermò di qua e di là; e il
santo passò con i cavalli come su terra asciutta. Il suo padrone, che lo
inseguiva alle spalle come Faraone, si mise a gridare: “Abbi pietà di me, servo
di Dio altissimo, e fa’ che io venga a te”. Il suo cuore, anche se lo
inseguiva, non rimase duro come quello di Faraone, ma giunse subito alla
conoscenza di Dio. Il santo poi, avendo pregato anche per lui, fece sì che
anche quello passasse al di là come per terra solida e subito l’acqua si fermò
nel proprio alveo. Allora Balsamio, avendo visto questo miracolo, cade ai piedi
del santo, chiedendogli perdono e dicendo tra le lacrime: “Ora so che veramente
tu sei servo di Dio; d’ora in poi tu sei mio signore e padrone”.
Alla verga che il santo reggeva, era legata
una striscia di pelle: i cavallai portano di questi frustini, chiamati “taure”.
Il prodigio compiuto da questo santo fu pari al miracolo del bastone di Mosè, e
pari a quello della frusta di pelle d’Elia. Mosè percosse col bastone il Mar
Rosso; Elia col mantello, e passò a piedi asciutti il fiume Giordano. Il
meraviglioso beato imitò le loro virtù e fu reso degno degli stessi carismi.
Infatti, la veste servile non fu d’impaccio a lui, che serviva con la mente Dio
e che aveva il desiderio rivolto a lui e imitava Cristo che, per causa nostra,
ha preso la forma di un servo e ha svuotato se stesso fino alla morte. Niente,
infatti, impedisce colui che vuole vivere rettamente, anche se gli sia toccato
in sorte di essere sotto il giogo della servitù: come Giuseppe, poi creato
principe di tutto l’Egitto, o il famoso apostolo Onesimo. Non v’è, infatti,
nessuna preferenza presso Dio. Il divino Apostolo dice: “In Cristo Gesù non vi
è né Greco né Giudeo, circoncisione o prepuzio, barbaro, Scita, schiavo,
libero, né maschio né femmina, ma Cristo, tutto e in tutti”.
Questa la vita, queste le opere, questi gli
splendidi miracoli e i fatti celesti del tre volte famoso e tre volte beato
Fantino. Il grande atleta della fede nacque da questa patria, ed anche se fu
partorito da un ventre servile, è certamente nostro; perciò noi lo amiamo e
mentalmente lo abbracciamo, perché è un ornamento della nostra casa. Originario
della nostra terra, ha dato come godimento alla propria genitrice e nutrice il
premio di carità, invitando i volenterosi all’emulazione e all’imitazione della
sua vita. Quale poi sia stata la morte del beato e illustre, e quale la fine
della sua vita, non sappiamo esattamente. Neppure l’abbiamo appreso per sentito
dire, eccetto che le sue sacre reliquie – conservate presso di noi come rimedio
d’ogni morbo – continuamente producono guarigioni, restando sorgente di
miracoli e medicamento d’innumerevoli mali. La morte di Mosè fu famosa e la sua
sepoltura, invece, sconosciuta; di questo santissimo uomo accadde il contrario.
La sua morte fu preziosa agli occhi di Dio, ma è rimasta ignota a noi fino ad
oggi; la tomba, invece, è rimasta, manifesta e nota, sgorgando – qui, nel suo
tempio – come una fonte perenne di grazie per chi accorre con fede.
Alcuni – a causa dei grandi miracoli compiuti
anche dopo la morte – pensarono che Fantino sia stato martirizzato. Se il santo
non fosse finito martire, dicevano, come sarebbe stato degnato da Dio di tante
e tali grazie? Non rettamente, io penso, essi giudicano. Quale opera di virtù
ha compiuto Mosè, prima dell’apparizione di Dio nel roveto? Il famoso Eliseo,
quale lotta affrontò, perché un morto risuscitasse al solo tocco delle sue
ossa? Quali lotte ha sostenuto lo stesso beato Elia, che fu assunto in cielo
senza essere morto? A Mosè vediamo unita la mitezza, a David ed Eliseo la
semplicità, a Giacobbe ed Elia lo zelo, insieme con la povertà, pietà e
familiarità con Dio. Tutte queste cose, primizie di virtù, sono indizi di
sangue, che è segno di fede fervente, per mezzo della quale operavano prodigi.
Anche il patriarca Abramo fu giudicato dalla sola fede. Geremia, poi, il più
misericordioso dei profeti, anche prima della nascita era noto a Dio e fu
santificato prima di uscire dal seno materno. Tralascerò quel famoso Amos, che,
pur essendo capraio, fu reso degno del dono della profezia, mentre raccoglieva
more? Tralascerò David, profeta e re? Il Signore Dio lo trasse dai pastori di
greggi per pascere Giacobbe, suo servo, ed Israele, sua eredità. Dio non
gradisce la moltitudine dei doni o dei travagli, ma gli affetti di un animo
sincero in una fede autentica. Le cinque vergini stolte, dopo molti sudori e
fatiche ascetiche, dopo essersi mantenute vergini, furono lasciate fuori del
regno dei cieli a causa del difetto di carità e d’umiltà. Questi difetti,
infatti, sono testimonianza d’animo feroce ed empio: anche Giovanni il
Precursore paragonò gli empi e ingrati Giudei ai serpenti, per il loro difetto
di carità. Che cosa, poi, nello spazio di un momento, fece erede del paradiso
il sanguinario ladrone, se non la vera conoscenza di Dio e la salda fiducia, in
un animo prudente e sincero? Noi non escludiamo, tuttavia, che il santo abbia
ricevuto la corona di martire: se Dio l’avesse chiamato, come non si sarebbe
dato volentieri al martirio? Se le cose sono avvenute come è stato detto anche
a noi, deriva duplice vanto per la doppia corona del nostro atleta, giacché è
nostro perché è nato da noi.
Ma poiché abbiamo fatto menzione degli altri
miracoli, compiuti dal santo dopo il deposito del corpo e la salita al cielo,
li aggiungeremo alla presente narrazione: non scriviamo queste cose seguendo
favole di vecchiette, ma essendo stati testimoni di alcuni.
Di
un tale richiesto della restituzione di un debito
Vi fu un uomo di nome Teodoro, insigne per
pubbliche dignità. Questi, una volta, era trattenuto in Sicilia dal giudice, a
Siracusa, e aveva mandato a Tauriana uno dei suoi servi per portargli le carte
che aveva, tra le quali credeva esserci la ricevuta d’un prestito d’oro di cui
doveva rispondere. Pur avendo molto cercato, non poté trovarla; cominciò allora
a piangere e lamentarsi: “Fantino, santo di Dio, aiuta me infelice!” Venuta la
notte e avendo preso sonno, vede in sogno il santo, che veniva in aspetto di
cavaliere, col cavallo grondante sudore come se venisse da lungo viaggio. Il
cavaliere gli dice: “Che hai, e perché ti rattristi?” E quegli: “Mi viene
richiesto oro che non ho sottratto, signor mio, e temo che non debba essere
venduto con tutta la mia casa!” Il santo a lui: “Dio sa che per te io sono
venuto da tanto lontano: il mio cavallo è tutto bagnato di sudore”. Gli chiese
quello: “E chi sei, signor mio?” Il santo rispose: “Sono un tuo vicino, della
Calabria, di Tauriana, vicino alla casa del tale prete. La ricevuta che cerchi
si trova in quel tal libro, all’ultima pagina”. E si allontanò: il santo celò
il proprio nome, indicando soltanto il proprio tempio, dove sono deposte le sue
preziose reliquie, perché i santi conservano anche dopo morti la modestia che
hanno avuto in vita. Teodoro, essendosi alzato e avendo scrutato il libro
indicatogli in sogno dal santo, ritrovò in quello la ricevuta che cercava.
Avendola mostrata al giudice, fu liberato senza pena. Da quel giorno celebrava
ogni anno la ricorrenza del santo, fornendo olio sufficiente per
l’illuminazione del tempio.
Di
un tale affetto da scabbia
Niceta (figlio di chi mi raccontò queste
cose), arcidiacono della nostra santa Chiesa, mi raccontò un altro miracolo. Mi
diceva: “Da ragazzo, ebbi il corpo tutto ulcerato dalla scabbia. Quelli di casa
mi trasportarono al santo. In quella stessa notte vedo in sogno il santo, che
mi stava vicino. Insieme con lui stavano due altri uomini in abito vescovile e
che il santo chiamava per nome, l’uno Giorgio, l’altro Giovanni. Questi avevano
ricevuto il titolo di vescovi della nostra santa Chiesa Cattolica del luogo, e
i loro corpi giacciono nel tempio del santo, ciascuno nel proprio tumulo. Io
vidi, ripeto, che essendo usciti dai propri sepolcri, si accostavano al santo,
il quale, avendoli ricevuti ed essendo venuto nel luogo dove io giacevo, mi
disse: – Alzati! Io subito mi alzai. Mi dice: – Spogliati! Mi tolgo una delle
vesti. Di nuovo dice: – Spogliati!. Mi vergognavo, ed egli mi dice con voce
grave: – Spogliati!. Mi tolgo la camicia e rimango nudo. Di nuovo mi dice: –
Spogliati!. Rispondo: – Non ho più nulla da togliere, signor mio!. Mi dice
severamente: – Ti ho detto di spogliarti!. Allora afferro con le mani la pelle
del mio corpo, e mi sforzo di staccarla. Tiro con le due mani, e levo tutta la
pelle come se fosse stato un mantello, e la getto a terra. Allora il santo mi
dice: – Ecco, sei diventato sano; vestiti e vattene a casa tua. Mi sveglio, e
vedo che ero guarito dalla malattia”.
Intorno
ad uno spergiuro
Un tale aveva preso in prestito tre nomismi
ma, richiedendo il creditore la restituzione del debito, negava dicendo di non
avere preso nulla da lui. Quegli, dunque, vedendo che questi non voleva pagare,
gli dice: “Giurami per san Fantino che non mi devi nulla”. Essendo, dunque,
andati entrambi nel tempio del santo, il miserabile giurò per la tomba del
santo che nulla egli doveva. Subito lo sciagurato mandò fuori l’anima, giacendo
misero e infelice spettacolo agli occhi dei cristiani.
Intorno
ad un podagroso
Un altro dei grandi della città, avendo male
ai piedi, va al santo. E in quella stessa notte, mentre dormiva, uno dei suoi
servi vede in sogno i piedi di lui legati e stretti con cinghie fino alla
gamba, come i pastori, e si chiedeva che cosa ciò significasse. Mentre ancora
pensava, vede un uomo d’aspetto venerando, che si avvicinava al luogo, dove
giaceva il. suo padrone; a quell’uomo poi veniva dietro un ragazzo, verso il
quale l’apparizione disse: “Chi è costui?” Rispose: “Il tale, signore”. Allora
quell’uomo dice al ragazzo: “Slegagli i piedi”. Lo slegò, e il santo disse:
“Lascialo andare”, e scomparve. Al mattino l’uomo, essendosi svegliato sano,
ritornò felice a casa e, avendo apprese queste cose dal suo servo, le raccontò
a noi, glorificando Dio.
Di
una bambina guarita dalla cecità
Una bambina di circa due anni, colpita
dall’invidia e dall’incantesimo del demonio, nemico del bello, si trovò cieca.
Subito suo padre la condusse al santo. E in quella medesima notte, mentre con
la sua bambina dormiva nel venerabile tempio del santo, le porte si misero a
sbattere. Il nonno della bambina, avendo sentito lo strepito, va ad aprire ma,
non avendo visto nessuno, chiuse e si sdraiò nel suo giaciglio. Le porte di
nuovo cominciarono a sbattere, e così fino al mattino. Quello capì che era
venuto il demonio, e che il santo non gli aveva permesso di entrare nel tempio:
alcune serve, che entravano nel tempio a tarda sera, l’avevano visto sotto
l’aspetto di un grosso cane, fermo fuori della porta. Nella terza notte, dopo
il Mattutino, mentre faceva giorno, improvvisamente la bambina aprì gli occhi e
riconobbe il papà, che la condusse a casa, glorificando Dio. Questa bambina,
poi, essendo cresciuta, e risplendendo nella purezza e verginità, a trenta anni
fu resa degna d’essere igumena del monastero del santo. Si chiamava Gregoria.
Intorno
al medico David
Vi fu un tale di nome David, di professione
medico, Siro di nascita, di religione cristiana. Soffrendo molto agli occhi,
non poteva vedere neppure un muro: non poteva curare se stesso e stava per
accecare totalmente. Va al santo, ed essendo sceso nel sepolcro inferiore, nel
luogo in cui si diceva giacessero prima le venerabili reliquie del Santo, vede
un poco d’acqua, che usciva da un buco: il posto è umido[10]. Avendola presa ed essendosi
lavato, subito riacquistò la vista e se n’andò glorificando Dio.
Un
sacerdote malato
Un eunuco, sacerdote, ci raccontò: “Da
giovane, mi venne una gravissima infermità ai piedi. Trasportato al tempio di
san Fantino, vi rimasi non pochi giorni e pregavo il santo, dicendo: – Santo di
Dio, che hai avuta pietà di molti e li hai soccorsi, abbi pietà anche di me,
tuo servo, e liberami da questa malattia. Una notte, vedo in sogno salire dal
sepolcro inferiore un giovane bello d’aspetto, avvolto da una clamide, le gambe
avvolte da rossi legacci, i sandali ai piedi. Lo precedeva un ragazzo che
teneva anche nella mano una lampada. Salito dal sepolcro, entrò nel Santuario e, dopo aver pregato, venne
dove io giacevo e disse al ragazzo: – Chi è costui? Rispose: – Un malato,
signore. Dice il santo: – Non ha nessun male. E mi dette un incenso odoroso,
dicendo: – Alzati, sei guarito. Poi si allontanò attraverso la porta
occidentale, uscendo nel portico del tempio. Subito svegliatomi, odorai dalla
mia mano come un grande profumo, e liberato dalla malattia, me ne andai a casa
glorificando Dio”.
Di
un languido
Un uomo era portato da quattro persone in un
lenzuolo per il fatto che le sue membra erano illanguidite, al punto che non
poteva neppure girarsi nel letto, se non con l’aiuto di altri. Trasportato dai
suoi, fu posto nel portico del Santo. Noi lo abbiamo visto guarito in pochi
giorni: con le proprie mani coltivava la terra poiché era agricoltore.
Di
un tale sofferente al femore per la sua incredulità verso il santo
Un certo Andrea, eminente nel Consiglio
cittadino degli Ipati, superbo
e arrogante, per stoltezza e leggerezza, oltraggiava il Santo: “Chi è mai
questo santo Fantino? Un servo, un Cavallaro!” Accadde poi che egli, uscito a
caccia, cadde da cavallo e si ruppe un femore. Essendosi pentito, supplicava il
Santo di venirgli in aiuto. Guarito per la misericordia del santo, glorificò
Dio: “Davvero questi è un taumaturgo!” Da quel giorno, ogni anno celebrava la
memoria del santo, apparecchiando una splendida mensa con molta abbondanza.
Di
una fanciulla vessata dal demonio
Una giovane vessata dal demonio immondo,
venne portata al santo e consegnata alla igumena del monastero, la quale,
avendo sinceramente compassione della bambina, pregava per essa e supplicava il
santo con tutte le consorelle. Noi abbiamo fatto la Preghiera e, attingendo
dalla lampada del santo, l’abbiamo unta in tutto il corpo con l’olio santo: da
quel giorno l’abbiamo vista sana. Essa, poi, rimase nel monastero seguendo vita
ascetica.
Attorno
ad un indemoniato
Un indemoniato, venuto nel tempio del Santo e
avendo ricevuto la guarigione, diceva: “Da sei anni vivevo agitato dall’immondo
demonio; per la benevolenza del santo, Dio mi ha salvato”.
Del
monaco Teoctiste
Un monaco chiamato Teoctiste, eunuco, abitò
da forestiero in questo luogo. Egli mi narrò: “Un giorno, essendomi
addormentato, mi sembrò di essere nel tempio del santo e di cantare con le
sorelle i consueti inni mattutini. Mentre noi cantavamo, ecco un giovane di
buona statura, dai capelli neri e con le chiome non lunghe o sciolte, ma non
ricce, molto bello, che aveva in mano un bastone. Si fermò vicino all’igumena,
cantando con noi. Egli si appoggiava al bastone, nel quale erano scritte le seguenti
parole: Sorgi, o Signore, aiutaci, e liberaci in grazia del tuo nome. A un
certo punto, essendosi seduto, così cantava; allora l’igumena gli disse: –
Signore, dai nostri padri non abbiamo ricevuto la tradizione di stare seduti
durante la salmodia! E il giovane: – Lo so che non c’è questa tradizione, ma
dai miei così facciamo. Gli dice allora l’igumena: – Di dove sei, mio signore?
Egli rispose: – Sono di qui! E, indicando il tempio, aggiunse: – Questa è casa
mia, ma finora non ero qui. E alzatosi, se ne andò verso il lato destro del
tempio, in direzione di oriente. Di nuovo, però, l’igumena gli dice: – Vai via,
mio signore? Egli rispose: – Sì, me ne vado perché sono stato inviato a un
servizio e ho fretta di condurlo a termine; ma tornerò di nuovo ed allora
rimarrò con voi. Allora l’igumena gli dice: – Prega per noi. Ed egli, voltatosi
ed avendo fatto il segno della venerabile e vivificante croce, si allontanò,
procedendo verso la parte orientale del tempio. lo, poi, essendomi svegliato,
glorificavo Dio”. Avendo udito dal monaco queste cose, segnai il mese, la
settimana e il giorno e trovai che il terribile e singolare miracolo era
avvenuto nei medesimi giorni.
Intorno
a un’offerta d’olio
Approssimandosi la festa della Santa Pasqua
ed essendo l’igumena in preoccupazione a causa dell’olio, poiché nel monastero
non ne aveva affatto, intorno all’ora sesta del giorno, ecco un uomo il quale,
portando sulle spalle un vaso pieno di olio della capacità di circa dodici
sestari, dopo averglielo consegnato, dice: “Il santissimo vescovo di questa
città ha mandato quest’olio per san. Fantino. Accadde, infatti, che quello,
navigando verso la patria, corse pericolo in mare, ed essendo giunto nel mare
davanti al tempio del santo, rivolse preghiera al santo e si salvò per l’aiuto
di questi dalle onde del mare. Per questo ha mandato quest’olio”. L’igumena,
avendo preso l’olio, appagò le necessità e il decoro della chiesa nella santa e
solenne giornata della risurrezione del nostro Signore.
Di
una bimba morta
Una bambina di circa quattro anni venne
portata dai suoi genitori nel tempio del santo e suo padre la presentò al
sepolcro del santo. L’igumena la allevò nel monastero, le insegnò la Sacra
Scrittura e la istruì nella vita ascetica. Avendo vissuto per un certo tempo
nel monastero, accadde che questa si ammalasse. I genitori (non abitavano
lontano dal monastero) la servivano. Essendo per morire, disse alla madre:
“Mamma, ecco san Fantino!” E quella le domanda: “E dov’è, figlia mia, san
Fantino?” La fanciulla diceva: “Ecco dove sta; non lo vedi?”. E subito mandò
fuori lo spirito.
Di
una donna in estrema malattia
Una donna era vicina alla morte. Portata dai
suoi familiari nel sacro tempio del santo, giaceva senza voce ed esanime. Il
Dio delle meraviglie la resuscitò e la pose di nuovo tra i viventi. E quella,
ottenuta la guarigione, essendo andata nel venerabile tempio del santo, dava
voci di ringraziamento, avendo offerto sacro incenso al sepolcro del santo.
Della
luce apparsa nel sepolcro del santo
Una mattina, l’igumena entrò con tutte le
sorelle nel tempio del santo per elevare a Dio il consueto inno mattutino. Era
già sorta l’aurora e risplendeva ormai il giorno, quando la salmodia era alla
fine ed era stato intonato da tutte le suore a alta voce il continuo Kirie
eleison dell’apolisi mattutina
e tutte tenevano le mani levate verso Dio, dal Santuario improvvisamente
come una fiammella che – ingrossando a poco a poco – riempì di luce tutto l’altare,
nel quale giacciono le veneratissime reliquie del santo. Le coriste rimasero
mute e immobili né più furono capaci di cantare per il grande sbigottimento, né
potevano fuggire. La luce rimase visibile sull’altare per un’ora intera, poi
sparì e tutta la chiesa si riempì di una grande fragranza. Subito le sorelle
uscirono di corsa dalla chiesa, con timore e con grande letizia.
Essendosi divulgato questo miracolo, un uomo
dei dintorni, a nome Salomone, mi raccontò un fatto simile. “Un giorno,
scendendo dalla montagna con un amico, ed essendo già venuta la sera, siamo
giunti al tempio di san Fantino che si trova nella discesa del monte, per
riposare là. Quelli che abitano nei dintorni avevano costruito questo tempio
per gloria di Dio e in onore del santo laddove si dice che il santo visse a
lungo, pascolando i cavalli. Vicino, vi è l’ara di san Fantino, dove fu
costruito un oratorio del santo. Mentre riposavamo, sdraiati fuori di quel
santo tempio, verso mezzanotte, vedo chiaramente in sogno molti uomini vestiti
di bianco, montati su cavalli, i quali, essendosi avvicinati ed essendo scesi
da cavallo, entrarono nel tempio. Vedevo la chiesa riempita di luce, mentre
quelli cantavano ad alta voce. I cavalli rimasti fuori, nitrivano. Fuori di me
per la paura, rimasi immobile. Essendo già trascorsa un’intera ora ed essendo
terminato il canto di quelle apparizioni di uomini biancovestiti, svegliatomi,
mi vidi solo giacente in quel luogo col mio compagno, mentre il tempio era da
ogni parte chiuso”. Queste cose ci narrò quell’uomo piangendo. Noi, poi,
avendole ascoltate, indagammo il tempo e il giorno, e scoprimmo che questo
visibile miracolo era avvenuto nel medesimo giorno in cui era avvenuto nel
venerabile tempio, dove giace la preziosa e venerabile reliquia del santo[11].
Intorno
agli Agareni catturati
Ciò che poco mancò non mi sfuggisse, questo
porrò come conclusione alla narrazione, perché tutti quelli che abitano questa
città l’hanno in bocca, avendola ricevuta dai loro padri. Una volta gli empi
Agareni vennero dall’Africa, con navi e con molte forze, per distruggere e
saccheggiare le città e le regioni dei cristiani, mentre tutto il popolo era
convenuto da ogni parte – secondo la tradizione – per festeggiare la memoria
del santo, il 24 luglio. Le navi di quegli atei mossero contro questa regione,
ed essendo apparsa una di esse nel mare davanti al tempio del Santo,
improvvisamente una tempesta di vento sconvolse il mare. La nave, sospinta
dalla forza e sbattuta dalle onde contro gli scogli, si fracassò. Alcuni nemici
perirono nel gorgo, altri furono catturati vivi. Questi dissero: “Essendoci
avvicinati a questo luogo, abbiamo visto su uno scoglio un giovane che aveva
nella mano una fiaccola accesa. Vicino a lui stava una donna, vestita di
porpora, e al suo cenno il giovane scagliò ciò che teneva in mano contro la
nave, e subito la nave fu sommersa”. Quelli che erano riuniti per la festività
del santo, glorificarono Dio. Gli Agareni catturati, chiesero il battesimo e
diventarono cristiani, non desiderando più ritornare nella loro patria.
Di
un tale nel baratro della tempesta
Racconterò brevemente le cose accadute alla
mia piccolezza e nullità e che, per grazia di Dio, ricevettero dal santo felice
risultato. Nel primo anno di regno di Leone l’Eretico [circa 717\8], io e altri
siciliani fummo mandati dal comandante militare della Sicilia come ambasciatori
all’Imperatore, per la correzione di capitoli riguardanti il paese ed insieme
il suo regno. Avendo trovato una nave che si recava a Bisanzio, ci imbarcammo
su di questa e, partiti dalla Sicilia, mentre navigavamo al largo del mare con
molta serenità e vento favorevole, si abbatte su di noi un vento tempestoso.
Esso è detto Euroclido, e suscitò una grande e insopportabile tempesta. Mentre
il mare si gonfiava per la violenza del vento, i nocchieri avvolsero le vele
della nave e, portati dentro i timoni e allentate le corde sulla prora della
nave, la lasciarono andare. La nave veniva spinta nella tempesta. Noi, dunque,
così travagliati, trascorremmo tre giorni e tre notti in molta tribolazione e
dolore d’animo, invocando la Vergine Madre di Dio, sant’Emiliano e tutti gli
altri Santi, tra i quali anche san Fantino, affinché – essendo uno dei nostri –
ci venisse in aiuto. Mentre mandavamo a Dio preghiere con lacrime e lamenti,
perché avesse pietà e ci salvasse da quella grande necessità, dopo il terzo
giorno, il diacono che era con me vede in sogno san Fantino, nel medesimo
aspetto e nella medesima forma con cui suole apparire, che veniva rapidamente
sulle onde come se fosse un corridore montato su un forte cavallo, e che,
essendosi fermato sulla prora della nave, percosse per tre volte il mare con un
frustino, che teneva nella destra. Il diacono, svegliatosi, raccontò a tutti
noi le cose a lui apparse: diventammo lieti e mandammo voci di ringraziamento a
Dio. Immediatamente il mare si calmò.
Intorno
a un miracolo avvenuto a Costantinopoli
Accadde che
io fossi mandato ambasciatore all’Imperatore. Giunto a Costantinopoli ed
essendo stato accolto dall’Imperatore e con lui pranzando, alcuni uomini
invidiosi turbarono la sua mente contro di noi. Stava per disporre cose
terribili verso di noi, particolarmente verso di me per il fatto che io ero il
capo dell’ambasceria. Mi aspettavo esilio e severa pena, e cominciai, dunque, a
dolermi gravemente e invocavo Dio, affinché mi salvasse. Quella notte il
diacono che era con me, ebbe in sogno questa visione: credeva di essere nel
Palazzo e di vedere l’imperatore, seduto nella Magnaura, che mi minacciava e
diceva: “Prendi quel che mi hai dato, perché non ho bisogno di te”. Dicendo
queste cose, tirava fuori alcune monete d’argento. Intanto vide un vecchio –
che somigliava a un illustre abitante della nostra città – avanzare e dire:
“Va’ e digli di non temere; parlerò io all’imperatore”. Il diacono,
svegliatosi, essendosi fatto ormai giorno, venne da me e mi raccontò il sogno.
Allora andai a Palazzo con buon animo. Subito chiamato dall’imperatore ed
avendo pranzato con lui, dopo aver ricevuto da lui grandi doni, fummo
licenziati con grande gioia, glorificando Dio, perché a lui si conviene la
gloria.
Pubblicato originariamente in: http://digilander.libero.it/ortodossia/Fantino.htm
[1]
Anziché di Pietro vescovo, narrazione si
lesse erroneamente di Pietro, vescovo
occidentale (leggendo dhitiku anziché
dhiighisis), e alcuni eruditi
trassero la bizzarra conclusione che l’episcopato calabro-siculo, all’epoca,
era “occidentale” e – persino – latino
e cattolico.
[2]
Il testo greco – con traduzione in latino e italiano – è stato (malamente)
edito da V. Saletta, Vita sancti Phantini confessoris,
Roma 1963.
[3]
Il vescovo Pietro, nella Calabria dell’VIII secolo, non sente più il nome come
latino, e pensa sia derivato dal greco faos,
luce, splendore. Gesuiti siciliani lo ritennero un diminutivo (piccolo fante) e
favoleggiarono d’un Fantino siracusano, figlio di Fantios e Dominata, ritenuti
sposi e martiri sol perché le loro sepolture furono trovata nelle catacombe di
Siracusa.
[4]
Dal contesto sembra che Pietro voglia dire: Fantino, in segreto era ortodosso, anche se al servizio d’un
padrone eretico (un Goto,
ariano?).
[5]
Isichìa: sapore esicasta ha
anche l’episodio citato, relativo all’apparizione del Logos nel roveto ardente.
[6]
Come tutte le fiumare calabresi. Oggi è conosciuto come Petraci (Petrace), dal greco Petrakis.
[7]
In greco, da rein.
[8]
Pare che i primi coloni di Tauriana (e di Taormina) avessero come totem il
toro.
[9]
Provocate, pare, dai Longobardi sul finire del VI secolo: di certo, è questo il
momento in cui scomparvero notizie più precise su san Fantino. Tauriana – oggi
insignificante frazione di Palmi, RC – è una delle più antiche Chiese della
penisola italiana.
[10]
Recenti campagne di scavi hanno appurato che il ‘sepolcro inferiore’ era stato
realizzato utilizzando un antro sacro alle Ninfe delle acque.
[11]
La chiesa e il monastero furono saccheggiati dai Turchi che, però, rispettarono
le reliquie di Fantino: lo attestò nel 1551 il Visitatore Apostolico Marcello
Bazio (detto il Terracina).
Come in decine d’altri casi registrati in Italia Meridionale, non si ha più
alcuna notizia delle reliquie del santo dopo il passaggio dell’Ispettore
inviato dal Vaticano.
Leggere
da pagina 61 a pagina 67 il capitolo dedicato a San Fantino nel testo Ombre
della Storia di Antonio Monaco (in pdf
le prime 100 pagine al link
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.