Santo Buono martire romano
Tratto da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/90329
Il
Martirologio Romano riporta il martirio di San Buono al primo di Agosto: in
questa data si celebra la festa popolare del S. Martire. Sembra che l' epoca
del martirio sia il 259 sotto il pontificato di papa Stefano.
Il sacro deposito proviene dal cimitero di Priscilla.
Il S. Martire ha dato il nome al comune della provincia di Chieti, di cui è anche patrono.
Il sacro deposito proviene dal cimitero di Priscilla.
Il S. Martire ha dato il nome al comune della provincia di Chieti, di cui è anche patrono.
Santo
Leone vescovo di Montefeltro
Tratto
dal quotidiano Avvenire
Nel
257 due cristiani di nome Leone e Marino, provenienti dall’isola di Arbe in
Dalmazia, giungono a Rimini attratti dall’opportunità di lavorare come
scalpellini. Accanto al lavoro mettono da subito l’attività di evangelizzazione
della popolazione riminese. Per sfuggire alla persecuzione dell’Imperatore
Diocleziano, si rifugiano in cima al Monte Titano. Dopo tre anni Leo (Leone),
con un piccolo gruppo di compagni, si reca presso la rupe del Monte Feliciano
dove costruisce una piccola cella e una cappella dove, nel segreto, raduna i
Cristiani. La sua opera missionaria lo portò a diventare pastore della futura
diocesi di Montefeltro, della quale, per tradizione, è considerato il primo
vescovo, anche se l’istituzione ufficiale della diocesi è avvenuta alcuni
secoli dopo. Dopo la morte di Leone, il suo corpo viene deposto in un sarcofago
di pietra di cui si conserva tutt’oggi il coperchio
Tratto
da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/65150
Correva
l’anno 257 d.C. e due cristiani di nome Leone e Marino, provenienti dall’isola
di Arbe in Dalmazia, giunsero a Rimini attratti dall’opportunità di lavorare
come scalpellini.
San Leone e San Marino, giunti nella zona del Monte Titano in cerca di pietre da lavorare, restarono affascinati dal maestoso Monte e vi si recavano spesso, Oltre a quel lavoro, essi svolgevano la missione di convertire la popolazione riminese al cristianesimo. Per sfuggire alla persecuzione dell’Imperatore Diocleziano, si rifugiarono in cima al Monte Titano. Passati tre anni, San Leo, con un piccolo gruppo di compagno, si diresse verso la rupe del Monte Feliciano che nella lingua del posto è chiamato Feretrio. Qui giunto costruì una piccola cella e a Dio dedicò una cappelletta.e in tutta segretezza, cominciò a radunare i Cristiani e a predicare il Vangelo. La sua missione diede subito frutti copiosi ed il Cristianesimo si propagò rapidamente in tutta la regione circostante, fino alla creazione della Diocesi di Montefeltro con a capo Leone nel frattempo ordinato vescovo. Leone è considerato, per tradizione, i primo vescovo del Montefeltro, anche se l’istituzione ufficiale della Diocesi è avvenuta alcuni secoli dopo. Dopo la morte di Leone, il suo corpo venne deposto in un sarcofago di pietra di cui, nel Duomo, si conserva il coperchio.
San Leone e San Marino, giunti nella zona del Monte Titano in cerca di pietre da lavorare, restarono affascinati dal maestoso Monte e vi si recavano spesso, Oltre a quel lavoro, essi svolgevano la missione di convertire la popolazione riminese al cristianesimo. Per sfuggire alla persecuzione dell’Imperatore Diocleziano, si rifugiarono in cima al Monte Titano. Passati tre anni, San Leo, con un piccolo gruppo di compagno, si diresse verso la rupe del Monte Feliciano che nella lingua del posto è chiamato Feretrio. Qui giunto costruì una piccola cella e a Dio dedicò una cappelletta.e in tutta segretezza, cominciò a radunare i Cristiani e a predicare il Vangelo. La sua missione diede subito frutti copiosi ed il Cristianesimo si propagò rapidamente in tutta la regione circostante, fino alla creazione della Diocesi di Montefeltro con a capo Leone nel frattempo ordinato vescovo. Leone è considerato, per tradizione, i primo vescovo del Montefeltro, anche se l’istituzione ufficiale della Diocesi è avvenuta alcuni secoli dopo. Dopo la morte di Leone, il suo corpo venne deposto in un sarcofago di pietra di cui, nel Duomo, si conserva il coperchio.
Gli scalpellini, giunti a Rimini, furono inviati per tre anni sul Monte Titano per estrarre e lavorare la roccia. In seguito Marino e Leo si divisero: mentre il primo tornò a Rimini, Leo si rifugiò sul Monte Feliciano (o Monte Feltro) dove edificò un convento e una chiesa. Quest'insediamento sul Monte Feliciano prenderà poi il nome di San Leo.
Il vescovo di Rimini, Gaudenzio, convocò Leo e Marino per esprimergli la sua riconoscenza. Poi consacrò il primo sacerdote e il secondo diacono.
Dopo la morte di Leone il suo corpo viene deposto in un sarcofago di pietra (di esso si conserva tutt'oggi il coperchio nel Duomo). Attualmente le sue reliquie sono conservate nella Chiesa di Santo Stefano a Ferrara, dove vi vennero trasferite dalla sede vescovile di Voghenza nel 1083.[1]
1. ^ SAN LEONE (Sacerdote), su diocesi-sanmarino-montefeltro.it. URL consultato il 6 maggio
2016.
TRATTO da
http://www.diocesi-sanmarino-montefeltro.it/la-diocesi/santi-e-beati/
Patrono
della Diocesi e Titolare della Cattedrale (IV secolo) in San Leo.
Leone viene a Rimini per lavoro e per sfuggire alla persecuzione con Marino, compatriota e amico fraterno, entrambi originari di Arbe (Rab ex Jugoslavia).
Provetto nell’arte d’intagliare la pietra, è sovrintendente ai lavori ed ha modo di aiutare e difendere i lavoratori.
Recatesi con Marino sul Titano per estrarre pietre, si innamora della solitudine e del silenzio di quell’altura.
Dal Vescovo di Rimini viene chiamato presso di lui per la fama di santità e ordinato sacerdote.
Dopo alcuni anni di fraterna consuetudine con Marino, se ne distacca, per amore di solitudine o per diversità di carismi. Sceglie la selvatica rocca feretrana (S. Leo), che diventa teatro della sua santità e dei suoi miracoli. Fissa la sua dimora presso la sorgente che scaturisce in quella piccola valle, che sarà poi chiamata “Santa”.
Con i discepoli che spontaneamente si raccolgono attorno a lui costituisce la prima comunità cristiana che sarà il primo nucleo della Diocesi di Montefeltro, che lì ebbe sede fino al XVI secolo.
Lo spirito di Leone, che anticipa quello benedettino di “Ora et labora” è magnificamente espresso nell’epigrafe sul coperchio del suo sarcofago, che la tradizione vuole scalpellato da lui stesso: Dum vixi, hoc amavi, hoc dixi, hoc scribsi: omnes dicamus dea gratias semper… haec requies mea in saeculum saeculi hic habitabo quoniam preelegi eam orate dominum semper, orate dominum semper.
Il suo corpo fu trafugato per devozione dal santo imperatore tedesco Enrico II, detto il Pio, che avrebbe voluto trasferirlo in Germania. Ma, narra la leggenda, che giunto nel Polesine sia per gli acquitrini, sia per l’eccessivo peso, fu costretto ad abbandonarlo in quel di Ferrara, a Voghenza. Altri sostengono che le reliquie possono essere ancora nascoste a S. Leo.
Sulla sua tomba sorsero i due meravigliosi monumenti che sono la Pieve e il Duomo.
Luogo meno conosciuto, ma di grande fascino e suggestione è la così detta “Fonte di S. Leone”.
La festa liturgica si celebra il 1° agosto
Leone viene a Rimini per lavoro e per sfuggire alla persecuzione con Marino, compatriota e amico fraterno, entrambi originari di Arbe (Rab ex Jugoslavia).
Provetto nell’arte d’intagliare la pietra, è sovrintendente ai lavori ed ha modo di aiutare e difendere i lavoratori.
Recatesi con Marino sul Titano per estrarre pietre, si innamora della solitudine e del silenzio di quell’altura.
Dal Vescovo di Rimini viene chiamato presso di lui per la fama di santità e ordinato sacerdote.
Dopo alcuni anni di fraterna consuetudine con Marino, se ne distacca, per amore di solitudine o per diversità di carismi. Sceglie la selvatica rocca feretrana (S. Leo), che diventa teatro della sua santità e dei suoi miracoli. Fissa la sua dimora presso la sorgente che scaturisce in quella piccola valle, che sarà poi chiamata “Santa”.
Con i discepoli che spontaneamente si raccolgono attorno a lui costituisce la prima comunità cristiana che sarà il primo nucleo della Diocesi di Montefeltro, che lì ebbe sede fino al XVI secolo.
Lo spirito di Leone, che anticipa quello benedettino di “Ora et labora” è magnificamente espresso nell’epigrafe sul coperchio del suo sarcofago, che la tradizione vuole scalpellato da lui stesso: Dum vixi, hoc amavi, hoc dixi, hoc scribsi: omnes dicamus dea gratias semper… haec requies mea in saeculum saeculi hic habitabo quoniam preelegi eam orate dominum semper, orate dominum semper.
Il suo corpo fu trafugato per devozione dal santo imperatore tedesco Enrico II, detto il Pio, che avrebbe voluto trasferirlo in Germania. Ma, narra la leggenda, che giunto nel Polesine sia per gli acquitrini, sia per l’eccessivo peso, fu costretto ad abbandonarlo in quel di Ferrara, a Voghenza. Altri sostengono che le reliquie possono essere ancora nascoste a S. Leo.
Sulla sua tomba sorsero i due meravigliosi monumenti che sono la Pieve e il Duomo.
Luogo meno conosciuto, ma di grande fascino e suggestione è la così detta “Fonte di S. Leone”.
La festa liturgica si celebra il 1° agosto
Tratto
da
http://ricerca.gelocal.it/lanuovaferrara/archivio/lanuovaferrara/2007/02/13/UP4PO_UP407.html
Voghenza ha come patrono un Santo venuto da lontano,
San Leo, che nel calendario liturgico ricopre un'importanza notevole. Era
l'anno 257 d.C., quando due cristiani, Leone e Marino, provenienti dall'Isola
di Arbe in Dalmazia, giunsero a Rimini per l'opportunità di lavorare come
scalpellini nei diversi cantieri aperti. I due santi, dicevano
scalpellini, oltre all'antico lavoro, svolgevano anche la predicazione del cristianesimo
e per sfuggire all'ordine di persecuzione dell'imperatore Diocleziano si
rifugiarono nel Monte Titano. Dopo alcuni anni, Leone (San Leo), con alcuni
compagni, si diresse verso la rupe del Monte Feliciano, chiamato Feretrio. Qui
vi costrui un piccola cella che dedicò a Dio ed un cappella; in cui, in
segreto, riuniva i cristiani e da cui predicò il Vangelo con grandi effetti, ed
il Cristianesimo si propagò in tutta le regione.
Grazie alla sua opera fu creata la Diocesi di Montefeltro, antico nome dell'attuale città di San Leo, con a capo Leone, ordinato vescovo. Leone è considerato, per tradizione, il primo Vescovo del Montefeltro, anche s'è l'istituzione ufficiale della Diocesi è avvenuta nell'anno 826 d.C. San Leo mori nel 360 d.C
Grazie alla sua opera fu creata la Diocesi di Montefeltro, antico nome dell'attuale città di San Leo, con a capo Leone, ordinato vescovo. Leone è considerato, per tradizione, il primo Vescovo del Montefeltro, anche s'è l'istituzione ufficiale della Diocesi è avvenuta nell'anno 826 d.C. San Leo mori nel 360 d.C
Santo
Eusebio vescovo di Vercelli in Piemonte
che confessa la retta fede contro l’eresia ariana (verso il 371)
Il 15
Dicembre si fa memoria liturgica della sua ordinazione a Vescovo di Vercelli
Tratto dal quotidiano Avvenire
Il
primo vescovo del Piemonte nacque in Sardegna tra la fine del III e l'inizio
del IV secolo. Durante gli studi ecclesiastici a Roma si fece apprezzare da
papa Giulio I che verso il 345 lo nominò vescovo di Vercelli. Qui stabilì per
sé e per i suoi preti l'obbligo della vita in comune, collegando
l'evangelizzazione con lo stile monastico. I vercellesi vennero conquistati
dalla sua arte oratoria: non solo parlava bene, ma esprimeva ciò che sentiva
dentro. Si attirò così l'ostilità degli ariani e dello stesso imperatore
Costanzo che lo mandò in esilio in Asia insieme a Dionigi, vescovo di Milano.
Venne torturato, soffrì la fame, ma nel 362 ebbe finalmente la fortuna di
ritornare a Vercelli. Riprese l'evangelizzazione delle campagne, istituendo la
diocesi di Tortona. Ma si spinse anche in Gallia, insediando un vescovo a
Embrun. La tradizione lo considera anche fondatore di due noti santuari: quello
di Oropa (Biella) e di Crea (Alessandria). Nel 371 la morte lo colse nella sua
città episcopale, che ne custodisce tuttora le reliquie nel Duomo
Tratto
da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/28500
Arriva
in gioventù dalla nativa Sardegna a Roma, segue gli studi ecclesiastici e si fa
apprezzare da papa Giulio I, che verso il 345 lo nomina vescovo di Vercelli: è
il primo vescovo del Piemonte. Qui stabilisce per sé e per i suoi preti
l’obbligo della vita in comune, collegando l’evangelizzazione con lo stile
monastico. Ora i cristiani, non più perseguitati, cominciano a litigare tra
loro: da una parte, quelli che seguono la dottrina del concilio di Nicea (325)
sul Figlio di Dio, "generato, non creato, della stessa sostanza del
Padre"; dall’altra, i seguaci dell’arianesimo, che nel Figlio vede una
creatura, per quanto eminente. Con l’appoggio della corte imperiale, gli ariani
hanno il sopravvento in molte regioni, e faranno esiliare per cinque volte il
più energico sostenitore della dottrina nicena: Atanasio, vescovo di
Alessandria d’Egitto, ammirato da Eusebio che l’ha conosciuto a Roma.
Annullato il secondo suo esilio, un concilio ad Arles (Francia), con decisione illegale, condanna Atanasio per la terza volta. Allora il papa Liberio manda all’imperatore Costanzo (figlio di Costanzo il Grande) appunto Eusebio, già suo compagno di studi, con Lucifero, vescovo di Cagliari. Ed essi ottengono di rimettere la questione a un nuovo concilio, che si riunisce nel 355 a Milano, dove viene anche il sovrano. E subito si riparla di condannare ed esiliare Atanasio. Replica lucidamente Eusebio: prima di esaminare i casi personali, mettiamoci piuttosto tutti d’accordo sui problemi generali di fede, firmando uno per uno il Credo di Nicea. Una proposta ragionevole, che però scatena il tumulto tra i vescovi e un altro tumulto dei fedeli contro i vescovi. Costanzo fa proseguire i lavori nella residenza imperiale (senza i fedeli) e tutti approvano la ri-condanna di Atanasio. Tutti meno tre: Eusebio, Lucifero, e Dionigi, vescovo di Milano. Questi non cedono, e Costanzo li esilia.
Eusebio viene mandato a Scitopoli di Palestina, e di lì scrive ai suoi vercellesi una lettera giunta fino a noi. Poi è trasferito in Cappadocia (Asia Minore) e poi nella Tebaide egiziana. Nel 361, morto l’imperatore Costanzo, si revocano le condanne: Atanasio torna ad Alessandria e indice un concilio, presente anche Eusebio, che poi però non torna subito a Vercelli: lo chiamano ad Antiochia di Siria, dove l’estremismo del vescovo Lucifero fa litigare i cattolici tra di loro. Ritrova infine Vercelli nel 362. Studia, scrive, riprende l’evangelizzazione delle campagne, istituisce la diocesi di Tortona. Ma si spinge anche in Gallia, insediando un vescovo a Embrun. La tradizione lo considera pure fondatore di due illustri santuari: quello di Oropa (Biella) e di Crea (Alessandria). La morte lo coglie nella sua città episcopale, che ne custodisce tuttora le reliquie nel Duomo, ricordandolo anche a fine XX secolo col nome del giornale della diocesi: L’Eusebiano.
Annullato il secondo suo esilio, un concilio ad Arles (Francia), con decisione illegale, condanna Atanasio per la terza volta. Allora il papa Liberio manda all’imperatore Costanzo (figlio di Costanzo il Grande) appunto Eusebio, già suo compagno di studi, con Lucifero, vescovo di Cagliari. Ed essi ottengono di rimettere la questione a un nuovo concilio, che si riunisce nel 355 a Milano, dove viene anche il sovrano. E subito si riparla di condannare ed esiliare Atanasio. Replica lucidamente Eusebio: prima di esaminare i casi personali, mettiamoci piuttosto tutti d’accordo sui problemi generali di fede, firmando uno per uno il Credo di Nicea. Una proposta ragionevole, che però scatena il tumulto tra i vescovi e un altro tumulto dei fedeli contro i vescovi. Costanzo fa proseguire i lavori nella residenza imperiale (senza i fedeli) e tutti approvano la ri-condanna di Atanasio. Tutti meno tre: Eusebio, Lucifero, e Dionigi, vescovo di Milano. Questi non cedono, e Costanzo li esilia.
Eusebio viene mandato a Scitopoli di Palestina, e di lì scrive ai suoi vercellesi una lettera giunta fino a noi. Poi è trasferito in Cappadocia (Asia Minore) e poi nella Tebaide egiziana. Nel 361, morto l’imperatore Costanzo, si revocano le condanne: Atanasio torna ad Alessandria e indice un concilio, presente anche Eusebio, che poi però non torna subito a Vercelli: lo chiamano ad Antiochia di Siria, dove l’estremismo del vescovo Lucifero fa litigare i cattolici tra di loro. Ritrova infine Vercelli nel 362. Studia, scrive, riprende l’evangelizzazione delle campagne, istituisce la diocesi di Tortona. Ma si spinge anche in Gallia, insediando un vescovo a Embrun. La tradizione lo considera pure fondatore di due illustri santuari: quello di Oropa (Biella) e di Crea (Alessandria). La morte lo coglie nella sua città episcopale, che ne custodisce tuttora le reliquie nel Duomo, ricordandolo anche a fine XX secolo col nome del giornale della diocesi: L’Eusebiano.
Tratto
da
http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2007/documents/hf_ben-xvi_aud_20071017.html
Cari
fratelli e sorelle,
questa mattina vi invito
a riflettere su sant’Eusebio di Vercelli, il primo Vescovo dell’Italia
settentrionale di cui abbiamo notizie sicure. Nato in Sardegna all’inizio del
IV secolo, ancora in tenera età si trasferì a Roma con la sua famiglia. Più
tardi venne istituito lettore: entrò così a far parte del clero dell’Urbe, in
un tempo in cui la Chiesa era gravemente provata dall’eresia ariana. La grande
stima che crebbe attorno a Eusebio spiega la sua elezione nel 345 alla cattedra
episcopale di Vercelli. Il nuovo Vescovo iniziò subito un’intensa opera di
evangelizzazione in un territorio ancora in gran parte pagano, specialmente
nelle zone rurali. Ispirato da sant’Atanasio – che aveva scritto la Vita di sant’Antonio, iniziatore del
monachesimo in Oriente –, fondò a Vercelli una comunità sacerdotale, simile a
una comunità monastica. Questo cenobio diede al clero dell’Italia
settentrionale una significativa impronta di santità apostolica e suscitò
figure di Vescovi importanti, come Limenio e Onorato, successori di Eusebio a
Vercelli, Gaudenzio a Novara, Esuperanzio a Tortona, Eustasio ad Aosta, Eulogio
a Ivrea, Massimo a Torino, tutti venerati dalla Chiesa come Santi.
Solidamente formato
nella fede nicena, Eusebio difese con tutte le forze la piena divinità di Gesù
Cristo, definito dal Credo di
Nicea «della stessa sostanza» del Padre. A tale scopo si alleò con i grandi
Padri del IV secolo – soprattutto con sant’Atanasio, l’alfiere dell’ortodossia
nicena – contro la politica filoariana dell’imperatore. Per l’imperatore la più
semplice fede ariana appariva politicamente più utile come ideologia
dell’Impero. Per lui non contava la verità, ma l’opportunità politica: voleva
strumentalizzare la religione come legame dell’unità dell’Impero. Ma questi
grandi Padri resistettero difendendo la verità contro la dominazione della
politica. Per questo motivo Eusebio fu condannato all’esilio come tanti altri
Vescovi di Oriente e di Occidente: come lo stesso Atanasio, come Ilario di
Poiters – di cui abbiamo parlato la volta scorsa –, come Osio di Cordova. A
Scitopoli in Palestina, dove fu confinato fra il 355 e il 360, Eusebio scrisse
una pagina stupenda della sua vita. Anche qui fondò un cenobio con un piccolo
gruppo di discepoli, e da qui curò la corrispondenza con i suoi fedeli del
Piemonte, come dimostra soprattutto la seconda delle tre Lettere eusebiane riconosciute
autentiche. Successivamente, dopo il 360, fu esiliato in Cappadocia e nella
Tebaide, dove subì gravi maltrattamenti fisici. Nel 361, morto Costanzo II, gli
succedette l’imperatore Giuliano, detto l’Apostata, che non si interessava al
cristianesimo come religione dell’Impero, ma voleva semplicemente restaurare il
paganesimo. Egli mise fine all’esilio di questi Vescovi e consentì così anche
ad Eusebio di riprendere possesso della sua sede. Nel 362 fu invitato da
Atanasio a partecipare al Concilio di Alessandria, che decise di perdonare i
Vescovi ariani purché ritornassero allo stato laicale. Eusebio poté esercitare
ancora per una decina d’anni, fino alla morte, il ministero episcopale,
realizzando con la sua città un rapporto esemplare, che non mancò di ispirare
il servizio pastorale di altri Vescovi dell’Italia settentrionale, dei quali ci
occuperemo nelle prossime catechesi, come sant’Ambrogio di Milano e san Massimo
di Torino.
Il rapporto tra il
Vescovo di Vercelli e la sua città è illuminato soprattutto da due
testimonianze epistolari. La prima si trova nella Lettera già citata, che Eusebio scrisse dall’esilio di Scitopoli
«ai dilettissimi fratelli e ai presbiteri tanto desiderati, nonché ai santi
popoli saldi nella fede di Vercelli, Novara, Ivrea e Tortona» (Ep. seconda). Queste espressioni
iniziali, che segnalano la commozione del buon Pastore di fronte al suo gregge,
trovano ampio riscontro alla fine della Lettera, nei saluti calorosissimi del padre a
tutti e a ciascuno dei suoi figli di Vercelli, con espressioni traboccanti di
affetto e di amore. E’ da notare anzitutto il rapporto esplicito che lega il
Vescovo alle sanctae plebes non
solo di Vercellae/Vercelli – la
prima e, per qualche anno ancora, l’unica Diocesi del Piemonte –, ma anche di Novaria/Novara, Eporedia/Ivrea e Dertona/Tortona, cioè di quelle
comunità cristiane che, all’interno della stessa Diocesi, avevano raggiunto una
certa consistenza e autonomia. Un altro elemento interessante è fornito dal
commiato con cui si conclude la Lettera:
Eusebio chiede ai suoi figli e alle sue figlie di salutare «anche quelli che
sono fuori della Chiesa e che si degnano di nutrire per noi sentimenti d’amore:
etiam hos, qui foris sunt et nos
dignantur diligere». Segno evidente che il rapporto del Vescovo con la
sua città non era limitato alla popolazione cristiana, ma si estendeva anche a
coloro che – al di fuori della Chiesa – ne riconoscevano in qualche modo
l’autorità spirituale e amavano quest’uomo esemplare.
La seconda testimonianza
del singolare rapporto del Vescovo con la sua città proviene dalla Lettera che sant’Ambrogio di Milano
scrisse ai Vercellesi intorno al 394, più di vent’anni dopo la morte di Eusebio
(Ep. fuori collezione 14). La
Chiesa di Vercelli stava attraversando un momento difficile: era divisa e senza
Pastore. Con franchezza Ambrogio dichiara di esitare a riconoscere in quei
Vercellesi «la discendenza dei santi padri, che approvarono Eusebio non appena
l’ebbero visto, senza averlo mai conosciuto prima di allora, dimenticando
persino i propri concittadini». Nella stessa Lettera il Vescovo di Milano attesta nel modo più chiaro la sua
stima nei confronti di Eusebio: «Un così grande uomo», scrive in modo
perentorio, «ben meritò di essere eletto da tutta la Chiesa». L’ammirazione di
Ambrogio per Eusebio si fondava soprattutto sul fatto che il Vescovo di
Vercelli governava la diocesi con la testimonianza della sua vita: «Con
l’austerità del digiuno governava la sua Chiesa». Di fatto anche Ambrogio era
affascinato – come egli stesso riconosce – dall’ideale monastico della
contemplazione di Dio, che Eusebio aveva perseguito sulle orme del profeta
Elia. Per primo – annota Ambrogio – il Vescovo di Vercelli raccolse il proprio
clero in vita communis e lo
educò all’«osservanza delle regole monastiche, pur vivendo in mezzo alla
città». Il Vescovo e il suo clero dovevano condividere i problemi dei
concittadini, e lo hanno fatto in modo credibile proprio coltivando al tempo
stesso una cittadinanza diversa, quella del cielo (cfr Eb 13,14). E così hanno realmente costruito una vera
cittadinanza, una vera solidarietà comune tra i cittadini di Vercelli.
Così Eusebio, mentre
faceva sua la causa della sancta plebs
di Vercelli, viveva in mezzo alla città come un monaco, aprendo la città verso
Dio. Questo tratto, quindi, nulla tolse al suo esemplare dinamismo pastorale.
Sembra fra l’altro che egli abbia istituito a Vercelli le pievi per un servizio
ecclesiale ordinato e stabile, e che abbia promosso i Santuari mariani per la
conversione delle popolazioni rurali pagane. Piuttosto, questo «tratto
monastico" conferiva una dimensione peculiare al rapporto del Vescovo con
la sua città. Come già gli Apostoli, per i quali Gesù pregava nella sua Ultima
Cena, i Pastori e i fedeli della Chiesa «sono nel mondo» (Gv 17,11), ma non sono «del mondo».
Perciò i Pastori – ricordava Eusebio – devono esortare i fedeli a non considerare
le città del mondo come la loro dimora stabile, ma a cercare la Città futura,
la definitiva Gerusalemme del cielo. Questa «riserva escatologica» consente ai
Pastori e ai fedeli di salvare la scala giusta dei valori, senza mai piegarsi
alle mode del momento e alle pretese ingiuste del potere politico in carica. La
scala autentica dei valori – sembra dire la vita intera di Eusebio – non viene
dagli imperatori di ieri e di oggi, ma viene da Gesù Cristo, l’Uomo perfetto,
uguale al Padre nella divinità, eppure uomo come noi. Riferendosi a questa
scala di valori, Eusebio non si stanca di «raccomandare caldamente» ai suoi
fedeli di «custodire con ogni cura la fede, di mantenere la concordia, di
essere assidui nell’orazione» (Ep.
seconda).
Leggere anche
La figura e l'opera di Eusebio di Vercelli
15 Dicembre
memoria dell’ordinazione episcopale di Santo
Eusebio come vescovo di Vercelli nel 345
http://www.ortodossia.it/w/index.php?option=com_content&view=article&id=4168:15-12-memoria-dell-ordinazione-episcopale-di-santo-eusebio-come-vescovo-di-vercelli-nel-345&catid=194:dicembre&lang=it
Leggere anche
Sant'Eusebio, vescovo di Vercelli (283-371 d.C.)
http://santiortodossi.blogspot.com/2011/10/santeusebio-vescovo-di-vercelli-283-371.html
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.