Santi
Secondiano, Marcelliano e Veriano Martiri
Tratto da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/93815
Si tratta di, tre
martiri autentici, cittadini romani martirizzati tra il 250 (persecuzione
dell’imperatore Decio) e il 258 (martirio di papa Sisto II), il giorno 8 agosto
per alcuni martirologi, il 9 agosto per altri più antichi.
E’ probabile che il martirio sia avvenuto il 9 agosto e poi anticipato all’otto, nella Chiesa di Tuscania, perché il 9 era la festa della vigilia di S. Lorenzo, martire di prima grandezza.
I tre santi martiri sono attestati in molti martirologi a cominciare da quello Geronimiano, il più antico registro di santi, il cui nucleo centrale, composto tra il 431 e il 450 nell’Italia settentrionale, elenca un gran numero di santi romani. Questa circostanza è di estrema importanza per l’autenticità dei tre martiri, infatti sta ad indicare che l’autore si è servito sicuramente di “fonti romane” per redigere il testo. Inoltre il martirio, dei tre cristiani, è avvenuto appena 200 anni prima della composizione dell’inventario agiografico e quindi, certamente, il racconto della loro passione era ancora vivo nella Città eterna. Poi trattandosi anche di personaggi importanti della società dell’Urbe, è assodato che venivano rammentati a titolo di orgoglio, e proposti a modello, anche per questo, dalla Chiesa di Roma.
E’ probabile che il martirio sia avvenuto il 9 agosto e poi anticipato all’otto, nella Chiesa di Tuscania, perché il 9 era la festa della vigilia di S. Lorenzo, martire di prima grandezza.
I tre santi martiri sono attestati in molti martirologi a cominciare da quello Geronimiano, il più antico registro di santi, il cui nucleo centrale, composto tra il 431 e il 450 nell’Italia settentrionale, elenca un gran numero di santi romani. Questa circostanza è di estrema importanza per l’autenticità dei tre martiri, infatti sta ad indicare che l’autore si è servito sicuramente di “fonti romane” per redigere il testo. Inoltre il martirio, dei tre cristiani, è avvenuto appena 200 anni prima della composizione dell’inventario agiografico e quindi, certamente, il racconto della loro passione era ancora vivo nella Città eterna. Poi trattandosi anche di personaggi importanti della società dell’Urbe, è assodato che venivano rammentati a titolo di orgoglio, e proposti a modello, anche per questo, dalla Chiesa di Roma.
I
nomi di questi martiri si trovano già nel Martirologio Geronimiano al 9 agosto
insieme con altri di santi orientali e romani, e conuna indicazione topografica
piuttosto oscura. Il cod. Epternacense infatti indica semplicemente in Tuscia;
il Wissemburgense, invece li pone in Colonia ed il Bernense infine precisa e
specifica «inColon(n)i (=Colonia) Tusciae via Aurelia miliario XV».
Confrontando queste indicazioni con quelle della passio si può stabilire con una certa probabilità, sulle orme del Lanzoni, che i nostri martiri siano stati uccisi a Castrumnovum, detto anche Colonia Iulia Castrumnovurn, una cittadina oggi scomparsa ma che esisteva realmente nella Tuscia romana, sulla via Aurelia, nei pressi dell'odierna S. Marinella. In tal caso però bisogna correggere le XV miglia del Geronimiano con le LXII indicate dalla passio: ma un tale errore di trascrizione di numeri nel Geronimiano non sarebbe insolito.
Più difficile è stabilire chi fossero i nostri martiri e quando siano periti.
La passio infatti, non più antica del sec. VI-VII, ci è stata conservata in tre redazioni alquanto divergenti in certi particolari importanti e non offre notizie molto attendibili. Secondo questo scritto i nostri martiri erano tre dotti amici romanie pagani persecutori. Osservando la fortezza deicristiani e riflettendo sul famoso testo della IVEgloga di Virgilio in cui si parla della Vergine,del celeste fanciullo e del regno di Saturno, improvvisamente si convertirono, furono battezzatidal presbitero Timoteo (nella seconda redazionequesto presbitero è attribuito al titulus Pastoris)e cresimati dal papa Sisto. Arrestati dal prefettoValeriano, per ordine di Decio, furono inviati aCivitavecchia dal consolare di Toscana, QuartoPromoto, che li condannò alla decapitazione il9 agosto e fece gettare i loro corpi in mare. Nellaseconda redazione si specifica che il luogo del supplizio si trovava a sessantadue miglia da Roma,mentre nella terza redazione si aggiunge che quelluogo «appellatur Coloniacum, qui dicitur Colonia».
I corpi dei martiri furono poi raccolti da uncerto Deodato e sepolti nello stesso luogo doveerano stati decapitati; nella terza redazione invecesi dice che il loro culto era localizzato nella basilica di S. Pietro a Tuscania (forse in seguito ad una traslazione?).
Per completare le notizie sui nostri santi diremo che Usuardo per primo li pose nel suo Martirologio al 9 agosto con un latercolo tratto dalla passio che è passato anche nel Martirologio Romano.
In conclusione possiamo dire che i nostri santi sono tre martiri autentici di Castrumnovum, dei quali però niente si conosce di sicuro; ci sembra quindi improbabile l'ipotesi del Delehaye che vorrebbe identificare Secondiano e Veriano con due dei martiri di Albano venerati l'8 agosto.
Confrontando queste indicazioni con quelle della passio si può stabilire con una certa probabilità, sulle orme del Lanzoni, che i nostri martiri siano stati uccisi a Castrumnovum, detto anche Colonia Iulia Castrumnovurn, una cittadina oggi scomparsa ma che esisteva realmente nella Tuscia romana, sulla via Aurelia, nei pressi dell'odierna S. Marinella. In tal caso però bisogna correggere le XV miglia del Geronimiano con le LXII indicate dalla passio: ma un tale errore di trascrizione di numeri nel Geronimiano non sarebbe insolito.
Più difficile è stabilire chi fossero i nostri martiri e quando siano periti.
La passio infatti, non più antica del sec. VI-VII, ci è stata conservata in tre redazioni alquanto divergenti in certi particolari importanti e non offre notizie molto attendibili. Secondo questo scritto i nostri martiri erano tre dotti amici romanie pagani persecutori. Osservando la fortezza deicristiani e riflettendo sul famoso testo della IVEgloga di Virgilio in cui si parla della Vergine,del celeste fanciullo e del regno di Saturno, improvvisamente si convertirono, furono battezzatidal presbitero Timoteo (nella seconda redazionequesto presbitero è attribuito al titulus Pastoris)e cresimati dal papa Sisto. Arrestati dal prefettoValeriano, per ordine di Decio, furono inviati aCivitavecchia dal consolare di Toscana, QuartoPromoto, che li condannò alla decapitazione il9 agosto e fece gettare i loro corpi in mare. Nellaseconda redazione si specifica che il luogo del supplizio si trovava a sessantadue miglia da Roma,mentre nella terza redazione si aggiunge che quelluogo «appellatur Coloniacum, qui dicitur Colonia».
I corpi dei martiri furono poi raccolti da uncerto Deodato e sepolti nello stesso luogo doveerano stati decapitati; nella terza redazione invecesi dice che il loro culto era localizzato nella basilica di S. Pietro a Tuscania (forse in seguito ad una traslazione?).
Per completare le notizie sui nostri santi diremo che Usuardo per primo li pose nel suo Martirologio al 9 agosto con un latercolo tratto dalla passio che è passato anche nel Martirologio Romano.
In conclusione possiamo dire che i nostri santi sono tre martiri autentici di Castrumnovum, dei quali però niente si conosce di sicuro; ci sembra quindi improbabile l'ipotesi del Delehaye che vorrebbe identificare Secondiano e Veriano con due dei martiri di Albano venerati l'8 agosto.
Tratto
da
http://www.toscanella.it/cultura/personaggi-luoghi-modi/i-patroni-di-tuscania.html
Numerosi e antichi martirologi fissano la
date della decapitazione dei santi martiri Secondiano, Veriano e Marcelliano
agli Idi di agosto del calendario romano, corrispondente al nove di quel mese.
La tradizione fissa al 251 l’nno del martirio, durante la persecuzione
dell’mperatore Decio, il quale aveva emesso l’rdine che in un giorno
determinato tutti gli abitanti dell’mpero celebrassero una cerimonia sacra in
onore degli dei.
Per raggiungere tale scopo erano state istituite in tutti i luoghi, persino nei paesi più remoti, delle commissioni che avevano il compito di assistere al rito del sacrificio in onore delle divinità e di rilasciare il certificato di sottomissione a tutti coloro che sacrificavano. Nei confronti di coloro che non si sottoponevano alle disposizioni imperiali si procedeva per vie legali che si concludevano con l’pplicazione della pena capitale.
In questa inquadratura storica vanno collocate le vicende dei Santi Martiri di Tuscania. Gli antichissimi Atti del martirio, custoditi in una pergamena conservata nel monastero di San Salvatore del Monte Amiata, sono forse una tardiva manipolazione improntata ad altri Atti di martiri e appartengono perciò più alle tradizioni e devozioni popolari che alla documentazione storica.
Gli Atti asseriscono che Secondiano era letterato e filosofo, mentre Marcelliano e Veriano erano ufficiali di prefettura. Dopo la loro conversione al cristianesimo essi avevano ricevuto il battesimo da un prete di nome Timoteo. Scoppiata la persecuzione si rifiutarono di sacrificare agli idoli e inutilmente il prefetto Valerio Massimo e lo stesso imperatore Decio cercarono di indurli a rinunciare alla fede per aver salva la vita.
Trattandosi di personaggi di riguardo furono allontanati da Roma per evitare lo scandalo di un pubblico processo e vennero trasferiti nella località di Cencelli, dove il console Promoto li sottopose a tormenti. Successivamente furono inviati a Colomacio o Colonia, luogo di cui ora si è perduta la memoria. Lì essi furono soggetti alla decapitazione e i loro corpi vennero gettati in mare. Le spoglie dei martiri, rigettate dalle onde sulla spiaggia, furono rinvenute da un cristiano di nome Diodato, che le seppellì vicino al luogo dove era avvenuto il martirio. Nel 322 alcuni anni dopo la proclamazione della libertà religiosa fatta dall’mperatore Costantino, i corpi santi furono esposti alla pubblica venerazione in Cencelli.
Per raggiungere tale scopo erano state istituite in tutti i luoghi, persino nei paesi più remoti, delle commissioni che avevano il compito di assistere al rito del sacrificio in onore delle divinità e di rilasciare il certificato di sottomissione a tutti coloro che sacrificavano. Nei confronti di coloro che non si sottoponevano alle disposizioni imperiali si procedeva per vie legali che si concludevano con l’pplicazione della pena capitale.
In questa inquadratura storica vanno collocate le vicende dei Santi Martiri di Tuscania. Gli antichissimi Atti del martirio, custoditi in una pergamena conservata nel monastero di San Salvatore del Monte Amiata, sono forse una tardiva manipolazione improntata ad altri Atti di martiri e appartengono perciò più alle tradizioni e devozioni popolari che alla documentazione storica.
Gli Atti asseriscono che Secondiano era letterato e filosofo, mentre Marcelliano e Veriano erano ufficiali di prefettura. Dopo la loro conversione al cristianesimo essi avevano ricevuto il battesimo da un prete di nome Timoteo. Scoppiata la persecuzione si rifiutarono di sacrificare agli idoli e inutilmente il prefetto Valerio Massimo e lo stesso imperatore Decio cercarono di indurli a rinunciare alla fede per aver salva la vita.
Trattandosi di personaggi di riguardo furono allontanati da Roma per evitare lo scandalo di un pubblico processo e vennero trasferiti nella località di Cencelli, dove il console Promoto li sottopose a tormenti. Successivamente furono inviati a Colomacio o Colonia, luogo di cui ora si è perduta la memoria. Lì essi furono soggetti alla decapitazione e i loro corpi vennero gettati in mare. Le spoglie dei martiri, rigettate dalle onde sulla spiaggia, furono rinvenute da un cristiano di nome Diodato, che le seppellì vicino al luogo dove era avvenuto il martirio. Nel 322 alcuni anni dopo la proclamazione della libertà religiosa fatta dall’mperatore Costantino, i corpi santi furono esposti alla pubblica venerazione in Cencelli.
Nel 648, in conseguenza dell’abbandono in cui
era caduta la località che custodiva i resti dei martiri, il vescovo di
Tuscania Valeriano decise di trasferire i corpi santi nella sua sede. Il fatto
lascia giustamente supporre che la giurisdizione del vescovo tuscanese fosse
allora molto ampia e che includesse nel suo territorio anche Cencelli.
La tradizione popolare, infiorando il fatto storico con tarde aggiunte suggerite dalla devozione comune, narra che parecchi luoghi si disputavano il possesso delle reliquie. Il vescovo Valeriano, per porre fine a quelle rivalità, dispose che venisse preparato un carro trainato da due giovenche e che le sacre spoglie rimanessero nel posto dove le giovenche si sarebbero fermate. Queste attraversarono il Marta, si diressero verso Canino e per Tessennano e Arlena raggiunsero il territorio di Tuscania. Salirono quindi fino alla cima del colle di San Pietro, dove conclusero il loro lungo percorso. I cittadini corsero in folla a venerare i Santi Martiri che d’llora divennero i Patroni della città.
Le reliquie dei Santi Martiri, deposte nella cripta di San Pietro, furono oggetto di continua e fervida devozione. Il giorno della festività, fissato per antichissima tradizione all’ agosto, veniva celebrato con grande solennità e con il concorso di tutta la popolazione che riconosceva nei Santi Martiri dei modelli di fede da imitare e dei Patroni dai quali veniva implorata la protezione per la salvezza della città, per il lavoro e per la floridezza dei campi.
Anche l’rte concorse efficacemente a conservare e a tramandare la devozione verso i Santi Patroni. Un affresco trecentesco della cripta, attribuito a Gregorio e Donato di Arezzo, raffigura i Santi Martiri nel luogo stesso dove erano riposte e venerate le loro spoglie. Le antifone dei Patroni, che venivano cantate durante la solennità annuale erano trascritte in antiche e grandi pergamene miniate. Il braccio di San Secondiano è custodito in un reliquiario, la cui parte superiore, formata da una mano, risale al secolo XIII, mentre la base cilindrica, lavorata a sbalzo e cesello, è opera del maestro argentiere Flavio De Alessandris, nato a Narni nel 1668 e attivo a Roma e a Napoli. Nella grande tavola esposta sopra l’ltar maggiore della chiesa del Riposo il pittore Pierin del Vaga, discepolo di Raffaello, nei primi anni del secolo XVI ha raffigurato la Vergine tra i Santi Martiri.
Nella tavola di Santa Maria della Rosa verso la fine dello stesso secolo Pierino d’melia ha ripetuto con poche varianti le figure dei Santi dipinti nella tavola del Riposo. In un frammento di affresco della chesa della Rosa la Madonna e il Bambino hanno ai lati San Pietro e San Secondiano. Nella cappella del Santissimo Sacramento nel Duomo, destinata in origine ad accogliere le reliquie, figurano tre quadri con la rappresentazione delle scene del martirio.
Il ricordo del trasporto delle reliquie è testimoniato dalla cappelletta con le immagini dei Santi Patroni che sorge sulla via che porta alla chiesa dell’livo. Ricostruita nel luogo attuale circa cinquant’nni or sono, essa sorgeva prima dal lato opposto della via. Conforme alla testimonianza dello storico Giannotti essa era stata restaurata verso la fine del 1500 e sulle pietre della strada, di fronte ad essa si potevano osservare ancora le tracce che, secondo la tradizione popolare, aveva lasciato il carro durante il trasporto delle reliquie dei Martiri.
Un documento del 1223 informa che il 7 agosto, vigilia dei Santi Patroni, i signori dei castelli di Piandiano, Cegliano, Manziano e Castel Lardo erano obbligati a portare dei ceri che dovevano essere posti nella cripta accanto all’ltare di santi. Questa offerta doveva essere fatta in forma pubblica e gli inadempienti erano soggetti al pagamento di 40 scudi. Ai proprietari dei castelli di Carcarella e Ancarano veniva fatto obbligo di inviare l’lloro che serviva per fare i festoni all’ngresso del tempio nel giorno della festa. Il Consiglio della città stabiliva la pena che doveva essere inflitta ai contravventori.
Un altro omaggio veniva fatto dagli abitanti di Canino per mezzo dei loro pubblici rappresentanti. Essi dovevano offrire 20 scudi e un cero del peso di 10 libbre. Quell’fferta continuò anche quando Canino passò sotto il dominio di Pier Luigi Farnese. Questi a causa della povertà dei Caninesi chiese ed ottenne che il tributo venisse ridotto a 17 scudi annui. L’maggio di Canino veniva documentato ogni anno attraverso la stesura di un atto notarile.
L’ agosto la festa veniva celebrata con la processione del Capitolo e del Clero con la partecipazione del vescovo. Partendo dal Duomo il corteo si dirigeva alla chiesa di San Lorenzo dove forse nel secolo XVI erano state trasferite le reliquie dei Santi e in particolari ricorrenze veniva portata in processione l’rna con tutte le reliquie.
Dopo le vicende del terremoto del 1971 le reliquie trovarono temporaneamente accoglienza nel monastero delle Clarisse e dal 1983 ebbero definitiva sistemazione nella cappella del Sacramento del Duomo.
La tradizione popolare, infiorando il fatto storico con tarde aggiunte suggerite dalla devozione comune, narra che parecchi luoghi si disputavano il possesso delle reliquie. Il vescovo Valeriano, per porre fine a quelle rivalità, dispose che venisse preparato un carro trainato da due giovenche e che le sacre spoglie rimanessero nel posto dove le giovenche si sarebbero fermate. Queste attraversarono il Marta, si diressero verso Canino e per Tessennano e Arlena raggiunsero il territorio di Tuscania. Salirono quindi fino alla cima del colle di San Pietro, dove conclusero il loro lungo percorso. I cittadini corsero in folla a venerare i Santi Martiri che d’llora divennero i Patroni della città.
Le reliquie dei Santi Martiri, deposte nella cripta di San Pietro, furono oggetto di continua e fervida devozione. Il giorno della festività, fissato per antichissima tradizione all’ agosto, veniva celebrato con grande solennità e con il concorso di tutta la popolazione che riconosceva nei Santi Martiri dei modelli di fede da imitare e dei Patroni dai quali veniva implorata la protezione per la salvezza della città, per il lavoro e per la floridezza dei campi.
Anche l’rte concorse efficacemente a conservare e a tramandare la devozione verso i Santi Patroni. Un affresco trecentesco della cripta, attribuito a Gregorio e Donato di Arezzo, raffigura i Santi Martiri nel luogo stesso dove erano riposte e venerate le loro spoglie. Le antifone dei Patroni, che venivano cantate durante la solennità annuale erano trascritte in antiche e grandi pergamene miniate. Il braccio di San Secondiano è custodito in un reliquiario, la cui parte superiore, formata da una mano, risale al secolo XIII, mentre la base cilindrica, lavorata a sbalzo e cesello, è opera del maestro argentiere Flavio De Alessandris, nato a Narni nel 1668 e attivo a Roma e a Napoli. Nella grande tavola esposta sopra l’ltar maggiore della chiesa del Riposo il pittore Pierin del Vaga, discepolo di Raffaello, nei primi anni del secolo XVI ha raffigurato la Vergine tra i Santi Martiri.
Nella tavola di Santa Maria della Rosa verso la fine dello stesso secolo Pierino d’melia ha ripetuto con poche varianti le figure dei Santi dipinti nella tavola del Riposo. In un frammento di affresco della chesa della Rosa la Madonna e il Bambino hanno ai lati San Pietro e San Secondiano. Nella cappella del Santissimo Sacramento nel Duomo, destinata in origine ad accogliere le reliquie, figurano tre quadri con la rappresentazione delle scene del martirio.
Il ricordo del trasporto delle reliquie è testimoniato dalla cappelletta con le immagini dei Santi Patroni che sorge sulla via che porta alla chiesa dell’livo. Ricostruita nel luogo attuale circa cinquant’nni or sono, essa sorgeva prima dal lato opposto della via. Conforme alla testimonianza dello storico Giannotti essa era stata restaurata verso la fine del 1500 e sulle pietre della strada, di fronte ad essa si potevano osservare ancora le tracce che, secondo la tradizione popolare, aveva lasciato il carro durante il trasporto delle reliquie dei Martiri.
Un documento del 1223 informa che il 7 agosto, vigilia dei Santi Patroni, i signori dei castelli di Piandiano, Cegliano, Manziano e Castel Lardo erano obbligati a portare dei ceri che dovevano essere posti nella cripta accanto all’ltare di santi. Questa offerta doveva essere fatta in forma pubblica e gli inadempienti erano soggetti al pagamento di 40 scudi. Ai proprietari dei castelli di Carcarella e Ancarano veniva fatto obbligo di inviare l’lloro che serviva per fare i festoni all’ngresso del tempio nel giorno della festa. Il Consiglio della città stabiliva la pena che doveva essere inflitta ai contravventori.
Un altro omaggio veniva fatto dagli abitanti di Canino per mezzo dei loro pubblici rappresentanti. Essi dovevano offrire 20 scudi e un cero del peso di 10 libbre. Quell’fferta continuò anche quando Canino passò sotto il dominio di Pier Luigi Farnese. Questi a causa della povertà dei Caninesi chiese ed ottenne che il tributo venisse ridotto a 17 scudi annui. L’maggio di Canino veniva documentato ogni anno attraverso la stesura di un atto notarile.
L’ agosto la festa veniva celebrata con la processione del Capitolo e del Clero con la partecipazione del vescovo. Partendo dal Duomo il corteo si dirigeva alla chiesa di San Lorenzo dove forse nel secolo XVI erano state trasferite le reliquie dei Santi e in particolari ricorrenze veniva portata in processione l’rna con tutte le reliquie.
Dopo le vicende del terremoto del 1971 le reliquie trovarono temporaneamente accoglienza nel monastero delle Clarisse e dal 1983 ebbero definitiva sistemazione nella cappella del Sacramento del Duomo.
Tratto da
http://www.telesantamarinella.tv/2015/02/11/archeologia-secondiano-veriano-e-marcelliano-martiri-di-castrum-novum/
Castrum
Novum,colonia romana dedotta nel III
secolo a.C. e situata nel territorio di Santa Marinella, in corrispondenza
all’attuale Casale Alibrandi lungo la Via Aurelia presso Torre Chiaruccia,oltre
ai preziosi dati di scavo desunti dalle campagne archeologiche condotte a partire
dal 2010 dal Museo del Mare e della Navigazione Antica e dalle Università di
Lille e Amiens, ha restituito all’interesse degli studiosi una complessa
questione agiografica riguardante i santi Secondiano, Veriano e Marcelliano,
considerati dalle fonti antiche martiri dell’antica città romana.
Il Martirologio Geronimiano,il più
antico catalogo dei martiri della Chiesa, e una Passio composta tra il V e il VI secolo riportano i nomi dei tre
santi al 9 agosto. I dati topografici riportati dai diversi codici del
Geronimiano risultano alquanto imprecisi. Il luogo del martirio nel Codex Epternacense è indicato
semplicemente in Tuscia; il Wissemburgense indica in Colonia mentre il Bernense specifica In Colo(n)ni Tusciae via Aurelia miliario XV
.
La passio, attribuibile al VI secolo, giunta sino a noi attraverso
tre redazioni manoscritte non anteriori all’XI secolo, non prive di incoerenze
di dati, presenta i tre martiri come romani dottissimi che si convertono al
cristianesimo dopo aver letto e commentato la IV ecloga di Virgilio. Battezzati
da Timoteo vengono arrestati dal prefetto Valeriano su ordine dell’imperatore
Decio. Inviati a Centumcellae,
vengono condannati alla decapitazione da Quarto Promoto il 9 agosto. I loro
corpi, gettati in mare, vengono recuperati dal servus Dei Deodatus e sepolti nello stesso luogo dove erano
stati decapitati.
La seconda redazione della passio
colloca il luogo del martirio al LXII miglio da Roma,mentre la terza redazione
fornisce una ulteriore precisazione topografica indicando Coloniacum qui dicitur Colonia e
localizzando il culto dei tre martiri a Tuscania nella basilica di San Pietro.
Il confronto dei dati forniti dal
martirologio con quelli desunti dalla passio portò ad identificare il luogo del
martirio con Castrum Novum
o Colonia Iulia Castrumnovum
lungo la Via Aurelia, a quattro miglia da Centumcellae. Questa ipotesi però non valutò un elemento di
fondamentale importanza, ossia la distanza in miglia espressa dalla Passio (LXII ossia 62 miglia da Roma)
e non coincidente con la collocazione topografica della colonia castronovana
(XLII cioè 42 miglia da Roma).
In seguito si tentò di risolvere
tale incongruenza, avanzando l’ipotesi di un errore di trascrizione da parte
del redattore della Passio. In
tal caso il numerale LXII potrebbe rappresentare una svista da parte della
tradizione manoscritta che avrebbe invertito le prime due cifre indicanti le
miglia alterando così il computo esatto che per riferirsi alla Colonia Iulia Castrumnovum doveva
necessariamente essere indicato dalla cifra XLII.
Di contro a questa interpretazione
che considera Secondiano e soci martiri autentici di Castrum Novum, nuovi studi hanno proposto una nuova ipotesi che
porta a localizzare l’epicentro del culto presso Graviscae, l’antico porto romano dell’odierna città di
Tarquinia. L’indicazione topografica del luogo del martirio contenuta nella
terza redazione del testo così come è espressa dall’autore non darebbe adito a
dubbi. Infatti il luogo qui appellatur
Coloniacum qui dicitur Colonia sexagesimo secundo miliario Urbis Romae
corrisponderebbe al territorio di Graviscae
o meglio Colonia Graviscos
secondo la denominazione imperiale, la cui distanza in miglia da Roma
corrisponde perfettamente all’antico porto di Tarquinia.
Nell’ambito dello studio agiografico
le indicazioni topografiche necessarie per localizzare i luoghi della
tradizione necessitano anche di un sostrato monumentale in cui riconoscere
l’attendibilità storica di un culto. Mentre per Castrum Novum si era sottolineata l’assoluta mancanza di dati
monumentali cristiani che potessero suffragare l’ipotesi scaturita
dall’interpretazione della passio, per Graviscae
ci troviamo di fronte ad una situazione non priva di interessanti “puntelli”
storico-archeologici. La figura di Deodatus,
servus Dei, potrebbe essere identificato con un vescovo o un alto
prelato legato alla diocesi di Tarquinia,
appartenenza sottolineata dall’interesse di seppellire i corpi ritrovati nello
stesso luogo del martirio. L’esistenza di una chiesa intitolata a S. Secondiano
sulla strada per il Lido di Tarquinia, in rovina dal XIV secolo potrebbe essere
la prova archeologica a supporto della passio e l’unica struttura visibile attualmente nell’area
suddetta e cioè la cosiddetta Torre degli Appestati, potrebbe costituire
l’unico elemento superstite dell’ antico edificio di culto.
Questa interpretazione chiarirebbe
l’origine del culto di S. Secondiano e la grande devozione popolare a lui
tributata nella città di Tarquinia dal XIII al XV secolo. Secondiano divenne
così il catalizzatore di un culto oscurando i suoi compagni di fede Veriano e
Marcelliano.
Ma la complessità della vicenda
agiografica è destinata ad acuirsi: oltre Corneto, un’altra città della Tuscia
rivendica i martiri: Tuscania dove i resti dei tre martiri sarebbero stati
traslati da Centumcellae a Tuscania nel 648, e collocati all’interno della
chiesa di S. Pietro.
Quindi l’ipotesi che vede
Secondiano, Veriano e Marcelliano martiri castronovani è destinata a
scomparire. Pur ammettendo un errore di trascrizione delle miglia e fissando il
luogo del martirio nel sito dell’odierna S. Marinella al quarantaduesimo miglio
da Roma, ci troveremmo davanti ad un grosso punto interrogativo: come mai non è
rimasta nessuna memoria dei tre martiri nella storia del luogo? Il silenzio
delle fonti, l’assenza di una tradizione locale afferente al culto si
aggiungono alla mancanza di dati monumentali cristiani, gli unici forse che
potrebbero restituire a Castrum Novum
i suoi santi perduti.
(Bibliografia: A. Squaglia, I martiri perduti di Castrum Novum,
in F. Enei (a cura di), Castrum
Novum.Storia e archeologia di una colonia romana nel territorio di Sant Marinella.
Quaderno 2, Acquapendente (VT), 2013, pp. 68-71).
Leggere anche
Secondiano, Veriano e Marcelliano: la rifondazione cristiana di Tuscania - Atti del II Convegno di Studi sulla Storia di Tuscania, 2011.
https://www.academia.edu/16198736/Secondiano_Veriano_e_Marcelliano_la_rifondazione_cristiana_di_Tuscania_-_Atti_del_II_Convegno_di_Studi_sulla_Storia_di_Tuscania_2011
Santo Romano soldato martire a Roma sotto Valeriano
Tratto da quotidiano Avvenire
Svariate
e valide testimonianze affermano il culto antico di san Romano martire,
collegato in maniera inscindibile al martirio di san Lorenzo diacono. L'antica
«Passio Polychronii» racconta che il legionario Romano, assistendo al martirio
di san Lorenzo sulla catasta accesa, si converte al cristianesimo e lo invita a
pregare per lui dicendogli che vede un angelo che allevia i suoi tormenti. Nel
contempo Decio, il procuratore, infuriato per la resistenza di Lorenzo ne
sospende il tormento e Romano cercando di operare di nascosto gli si avvicina
per porgergli una brocca d'acqua, supplicandolo di volerlo battezzare.
Sorpreso, viene fustigato ma lui grida «sono cristiano!» e viene condannato
alla decapitazione, eseguita fuori Porta Salaria il 9 agosto 258. Durante la
notte il sacerdote Giustino raccoglie il suo corpo e lo seppellisce in una
cripta nella zona del Verano. Le sue reliquie riposano nella basilica di san
Lorenzo al Verano ma alcune furono traslate nel periodo longobardo a Lucca e
altre furono inviate a Ferrara e donate alla città e al suo vescovo, cardinale
Grifone, da papa Innocenzo II. San Romano viene invocato contro il pericolo di
possessione demoniaca.
Martirologio
tradizionale (9 agosto): A Roma san Romano, soldato e Martire, il quale,
convertitosi per la confessione del beato Lorenzo, lo pregò di battezzarlo, e,
subito presentato al Giudice e percosso con bastoni, alla fine fu decapitato.
TRATTO
DA
https://forum.termometropolitico.it/597179-9-agosto-s-romano-martire.html
San Romano martire, secondo l'antica Passio polichronii et aliorum sanctorum,
era un legionario romano che si covertì al cristianesimo mentre assisteva al
martirio di San Lorenzo. Durante il martirio di Lorenzo, Romano vide un angelo
che alleviava le sofferenze del martire e decise di chiedere il battesimo.
Dichiaratosi cristiano venne decapitato il 9 Agosto del 258 al tempo della
persecuzione di Valeriano. Secondo il Liber
pontificalis Romano compare come ostiario. Le sue reliquie si trovano a
Roma, Lucca, Ferrara e Avella.
Santi
Fermo e Rustico martiri le cui reliquie si trovano a Verona
Tratto
da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/65650
Li ricorda già insieme, alla data
del 9 agosto, l’antico elenco di martiri di varie regioni, noto come
Martirologio geronimiano (attribuito erroneamente a san Gerolamo). E così fa
pure il Martirologio romano, redatto per tutta la Chiesa nel XVI secolo. Con
questi nomi ci sono stati in Africa del Nord due martiri: Fermo, che morì a
Cartagine (di fame) al tempo dell’imperatore Decio, promotore di una delle più
dure persecuzioni contro i cristiani (249-251). E Rustico, che invece fu ucciso
con altri a Lambesa (Algeria) nel 259, sotto l’imperatore Valeriano.
I loro resti si trovano a Verona, in San Fermo Maggiore, singolare complesso sacro formato da due chiese costruite in tempi diversi l’una sopra l’altra, nel XIII secolo e poi nel XIII-XIV. La splendida chiesa superiore custodisce le reliquie di Fermo e Rustico. E la loro vicenda affatica gli studiosi per l’intreccio tra un esiguo dato storico e alcune narrazioni avventurose e pittoresche, prive di riscontri storici, ma che qualcosa di interessante suggeriscono.
Secondo un’antica “Passione”, Fermo e Rustico non erano africani, ma bergamaschi, e morirono decapitati per la fede fuori dalle mura di Verona, super ripam Athesis, sulla sponda dell’Adige, al tempo dell’imperatore Massimiano (286-310). Dopodiché i due corpi sarebbero stati portati da Verona fino all’Africa del Nord, per essere seppelliti a Cartagine. Ma più tardi, eccoli di nuovo imbarcati e in rotta verso l’Italia, con una sosta a Capodistria, e con Trieste come destinazione finale. E qui, durante il regno longobardo di Desiderio e Adelchi (757-774) ecco arrivare il vescovo Annone di Verona; il quale riscatta a pagamento i resti dei due martiri. E poco dopo i veronesi li accolgono con grande solennità, collocandoli in una chiesa che da molto tempo era stata innalzata in loro onore. Tutto ciò si legge in due documenti: la Translatio ss. Firmi et Rustici della seconda metà dell’VIII secolo, e il Ritmo pipiniano (a cavallo tra VIII e IX secolo).
Leggendario, quel racconto di un viaggio andata-ritorno dei due corpi. Ma nella leggenda il suggerimento c’è. Il richiamo all’Africa fa pensare non a un ritorno, ma a una venuta. Ossia all’estendersi anche in Italia del culto per le figure e le reliquie di questi martiri d’Africa. Come è avvenuto per altri, la cui fama è stata portata e divulgata in Europa dall’emigrazione forzata di tanti romani d’Africa di fronte all’invasione (429) dei Vandali di Genserico. E Verona era aperta a questa accoglienza, avendo avuto come vescovo – e volendolo, poi per sempre come patrono – il nordafricano Zeno. "Tutti questi elementi, posti nel vasto quadro della venerazione in Italia di santi africani, confermano l’ipotesi dell’origine africana dei santi Fermo e Rustico" (Silvio Tonolli, Bibliotheca Sanctorum).
I loro resti si trovano a Verona, in San Fermo Maggiore, singolare complesso sacro formato da due chiese costruite in tempi diversi l’una sopra l’altra, nel XIII secolo e poi nel XIII-XIV. La splendida chiesa superiore custodisce le reliquie di Fermo e Rustico. E la loro vicenda affatica gli studiosi per l’intreccio tra un esiguo dato storico e alcune narrazioni avventurose e pittoresche, prive di riscontri storici, ma che qualcosa di interessante suggeriscono.
Secondo un’antica “Passione”, Fermo e Rustico non erano africani, ma bergamaschi, e morirono decapitati per la fede fuori dalle mura di Verona, super ripam Athesis, sulla sponda dell’Adige, al tempo dell’imperatore Massimiano (286-310). Dopodiché i due corpi sarebbero stati portati da Verona fino all’Africa del Nord, per essere seppelliti a Cartagine. Ma più tardi, eccoli di nuovo imbarcati e in rotta verso l’Italia, con una sosta a Capodistria, e con Trieste come destinazione finale. E qui, durante il regno longobardo di Desiderio e Adelchi (757-774) ecco arrivare il vescovo Annone di Verona; il quale riscatta a pagamento i resti dei due martiri. E poco dopo i veronesi li accolgono con grande solennità, collocandoli in una chiesa che da molto tempo era stata innalzata in loro onore. Tutto ciò si legge in due documenti: la Translatio ss. Firmi et Rustici della seconda metà dell’VIII secolo, e il Ritmo pipiniano (a cavallo tra VIII e IX secolo).
Leggendario, quel racconto di un viaggio andata-ritorno dei due corpi. Ma nella leggenda il suggerimento c’è. Il richiamo all’Africa fa pensare non a un ritorno, ma a una venuta. Ossia all’estendersi anche in Italia del culto per le figure e le reliquie di questi martiri d’Africa. Come è avvenuto per altri, la cui fama è stata portata e divulgata in Europa dall’emigrazione forzata di tanti romani d’Africa di fronte all’invasione (429) dei Vandali di Genserico. E Verona era aperta a questa accoglienza, avendo avuto come vescovo – e volendolo, poi per sempre come patrono – il nordafricano Zeno. "Tutti questi elementi, posti nel vasto quadro della venerazione in Italia di santi africani, confermano l’ipotesi dell’origine africana dei santi Fermo e Rustico" (Silvio Tonolli, Bibliotheca Sanctorum).
Tratto da
http://www.veja.it/2013/12/16/i-ss-martiri-fermo-rustico/
Il martirio dei santi bergamaschi Fermo e Rustico e la parte gloriosa,
che in quel fatto ebbe il nostro vescovo S. Procolo, ci son narrati da un antico manoscritto, che viene
sotto il nome Acta
o Passio SS. Firmi et Rustici, e più tardi fu più volte pubblicato in opere a stampa (1).
Parecchi sono i codici di quel
manoscritto. Il più antico, oggi pur troppo perduto, era quello del monastero di Lobbes, trasportato colà
dal nostro vescovo Raterio dopo
la metà del secolo X. Oltre quello di Raterio, e probabilmente
provenienti da esso, sono vari codici, alcuni conservati a Verona, altri a
Bergamo, uno nel monastero Bodacense, qualche altro altrove.
Sul valore di questi Acta disputarono e disputano gli eruditi.
Primo a muover dubbi su di essi fu
il Tillemont (2). Questi dubbi però non ritrassero
il nostro Maffei dal ritenere
questi Acta legittimi ed
antichissimi quanto alla sostanza, ammettendo insieme che qualche aggiunta o
viziatura vi sia stata introdotta dai copisti posteriori: anzi egli ritiene che
chi in origine ha disteso questi Acta ebbe
alla mano il processo criminale indicato comunemente col nome Acta proconsularia
(3).
Recentemente accennò a dubitar della
loro autorità Adolfo Harnack: ma
osserva il nostro prof. Cipolla
che Harnack «non se ne occupò di proposito, nè si preoccupò delle gravi ragioni
mosse in loro favore da Scipione Maffei» (4). Del resto, quale è quella pagina gloriosa nella storia della
Chiesa, sulla quale non abbia ingerito dei dubbi il critico protestante?
Del valore della prima parte degli Acta,
ossia della Passio, non
dubitarono punto, nè il sac. Ignazio
Zenti, nè il ch.mo prof. Cipolla;
i quali ritennero che essi abbiano per fondamento le scritture stesse
redatte dai cristiani al momento del martirio, ammettendo insieme che essi
risentano l’influsso di qualche aggiunta o di qual che variazione posteriore (5).
Crediamo che nessuno ci possa
tacciare di imprudenza, se dietro si gravi autorità ammettiamo come vera nella
sostanza la narrazione degli Acta.
Siccome questi Acta, narrando il
martirio dei SS. Fermo e Rustico, raccontano alcune particolarità del vescovo
di Verona S. Procolo, così è
della massima importanza per la cronologia e per la storia della nostra chiesa
determinare in quale epoca abbiano sofferto il martirio i nostri santi. Su
questo punto sono varie le opinioni degli eruditi, massime veronesi. Alcuni
vollero che i nostri santi siano stati martirizzati sotto l’imperatore Massimino, che imperò dall’anno 235 all’anno 238. Così pensavano tra i
nostri Dionisi, Cenci, Liruti, Sommacampagna, Gilardoni
ed altri: in generale tutti coloro, che collocavano l’episcopato di S. Zeno
all’epoca di GalIieno, e si sforzavano di far risalire l’episcopato di
sant’Euprepio ai tempi di S. Pietro (6).
Oltre la ragione carissima ai
veronesi che in tal guisa si accerta ancor meglio l’alta antichità e forse
l’apostolicità della nostra chiesa, questa opinione ha in suo favore un
gravissimo argomento negli Acta, dei quali per confessione del Maffei i codici
veronesi ed alcuni altri danno l’epoca del martirio dei SS. Fermo e Rustico in
questi termini: «Regnante impiissimo Maximino imperatore in civitate
Mediolanensi».
Altri autori, e più comunemente i
recenti, opinano che il martirio dei due santi sia da ascrivere alla
persecuzione di Diocleziano, e
che negli Acta sia da leggere:
«Regnante impiissimo Maximiano imperatore in
civitate Mediolanensi». Così col Maffei
pensano i Ballerini, Zenti, Giuliari, Cipolla (7).
Noi non porremo noi stessi ed i
lettori nell’intricatissimo labirinto dell’esame dei codici e delle loro
vicissitudini. Per noi basta l’autorità di due insigni investigatori
delle cose nostre, Maffei e Zenti;
i quali dopo uno studio accurato sui codici degli Acta, sui Martirologi
e su altri documenti della chiesa veronese, hanno conchiuso doversi il martirio
dei due santi ascrivere, non già alla persecuzione di Massimino (235-238), ma a quella di Diocleziano e Massimiano (Erculeo), e precisamente al luglio ed
agosto dell’anno 304. Riferiremo
soltanto la ragione storica data da essi.
L’imperatore, il quale secondo gli
Acta fu presente al processo iniziato a Milano contro i due santi, non potè
essere Massimino: questi non fu mai a Milano; ma al primo suo ingresso in
Italia morì ad Aquileja ucciso
dai suoi soldati nel febbraio o marzo
dell’anno 238. All’incontro ben potè trovarsi a Milano l’imperatore Massimiano, quando la persecuzione
iniziata a Nicomedia nell’anno 303 fu estesa all’Italia dopo i vicennali
celebrati dai due imperatori a Roma sul principio dell’anno 304. Quest’epoca era così certa ad Ughelli e Bonacchi, che, volendo essi ad ogni costo porre S. Zeno ai tempi di Gallieno (a. 260), fecero S. Procolo, non già antecessore di S.
Zeno, ma successore (8).
Veniamo alla narrazione degli Acta: Al tempo dell’empio imperatore Massimiano infierì una gravissima
persecuzione in Milano. Essendo stato riferito all’imperatore che un certo Fermo nativo di Bergamo e
conosciutissimo all’imperatore era cristiano, questi mandò un questore con
soldati: mentre Fermo era condotto verso la città, a lui si aggiunse un suo
parente di nome Rustico; e
così ambedue furono legati e condotti in Milano. L’imperatore li diede a
custodire ad un suo consigliere Anolino;
li interrogò egli stesso; e, trovatili costanti nel professare la fede
cristiana, li fece battere con flagelli e poi ricondurre in prigione. Dopo
alcuni giorni, dovendo Anolino venire nelle parti della Venezia, l’imperatore
gli affidò
i due carcerati, che furono da lui
condotti a Verona e consegnati a C.
Ancario (9), vicario di questa città. Anolino si allontanò da Verona:
tornatovi dopo sei giorni, li fece tradurre al suo tribunale, e tentata indarno
la loro costanza, ordinò che fossero tratti fuori delle mura e decapitati. « Decollati sunt martyres Domini Firmus et
Rusticus extra muros civitatis Veronensis super ripam fluminis Athesis sub
Maximiano imperatore et Anolino consiliario ejus sub die V. idus augusti
». Secondo antiche tradizioni veronesi, furono decapitati presso il luogo
(allora fuori delle mura) dove fino a pochi anni or sono era una chiesetta,
detta prima di S. Fermo in Braida, poi
del Crocifisso, vicino all’attuale ponte Aleardi.
Abbiamo pure memorie del culto dato
da antichissimi tempi ai nostri martiri (10). Non lungi dal luogo del martirio fu ben presto
edificata in loro onore una chiesa, e forse vi furono per breve tempo sepolti i
loro corpi.
Questa chiesa nella seconda parte
degli Acta si diceva «a priscis temporibus in eorum honorem
constructa» (11): essa
dovea essere, non l’attuale chiesa inferiore di S. Fermo maggiore iniziata
nell’anno 1065, ma altra cripta
probabilmente esistente nel medesimo luogo e della quale pochi anni or sono
(1908) si sperava d’aver trovati alcuni ruderi.
Nel Martyrologium Hieronymianum, che gli editori De Rossi e Duchesne assegnarono alla metà del secolo V., ma sembra derivare
da documenti più antichi, sotto il giorno id. aug. si trovano notati i nostri santi. Il Codex Bernensis ha: « In oriente. Firmi. Rustici »; Il Codex Epternensis ha: « In firmi nat. rustici »; il Codex vissemburgensis ha: « In Oriente nat. sanctorum firmi rustici » (12)
Le vicende dei corpi dei due santi
ci sono narrate dalla seconda parte degli Acta, detta propriamente Translatio (13), e da
alcune leggende formatesi posteriormente sul tenore di tante altre relative
alle reliquie di altri santi. La sostanza sarebbe che poco dopo il martirio i
corpi dei martiri furono trasportati nell’Africa; di là nel castello di Capri
(Capo d’Istria); indi a Trieste. Forse a questo vagare delle preziose reliquie nelle
regioni, che stanno ad oriente di Verona, non è estraneo il fatto che due
codici del Martyrologium
Hieronymianum (e forse
tre: «In… firmi») pongono il
culto dei due santi martiri in oriente.
Finalmente verso la metà del secolo
VIII tornarono a Verona e furono sepolti nell’oratorio già «a priscis temporibus» costruito non
lungi dal luogo del martirio: questa traslazione sarebbe avvenuta verso l’anno 751.
Checchè sia dei particolari di
queste leggende, certamente il vescovo
Annone insieme con la sua sorella
Maria (Consolatrice) rimise in grande onore i corpi dei due santi, come
ci attesta il Ritmo Pipiniano di
poco posteriore ad Annone. Egli fu, che sopra l’altare, che li conteneva,
fece stendere quel prezioso conopeo, lavorato forse dalla sua sorella, che in
seguito fu detto Velo o Pianeta di Classe, od Iconografia Annoniana: ne parleremo a suo luogo (a).
Da allora fino ai primi decenni del
secolo XVIII nessuno tra i nostri dubitò della presenza delle preziose reliquie
nel sotterraneo della loro chiesa, e dal 1759 sotto l’altare della chiesa
superiore: verso la metà del secolo XVIII
alcuni scrittori bergamaschi pretesero di averli sempre avuti nella loro
cattedrale. La controversia tra veronesi e bergamaschi fu agitata con
calore; finchè prudentemente la S. Sede impose silenzio alle parti contendenti
(14).
Intanto sopra un magnifico altare
nella cattedrale di Bergamo sta
un’urna di marmo con la scritta: «Hic
jacent corpora SS. Martyrum Firmi et Rustici et S. Proculi Episcopi »; e
noi veonesi riteniamo che i corpi dei SS. Martiri riposino sotto l’altare della
loro basilica in Verona, e quello di S.
Procolo nella basilica di S. Zeno trasportatovi l’anno 1806 dalla vicina chiesa dedicata un
tempo ad onore di lui. – Buon per i veronesi e per i bergamaschi che il culto
delle reliquie dei santi è relativo! (b).
NOTE
– 1 Travasi presso MAFFEI,
Istoria diplomatica, pag. 303-311 (Mantova 1727).
–2 TILLEMONT, Memoires
pour servir a l’hist. eccles., Tom. II, pag. 138.
–3 MAFFEI, Op. e loc. cit.
–4 CIPOLLA, Compendio
della storia politica di Verona, pag. 40.
–5 ZENTI, L’epoca
dei SS. MM. Fermo e Rustico, (Verona
1881);
CIPOLLA nella recensione
dell’opuscolo in Archivio Veneto, XXXII,
P. II. (1882).
–6 Vedi specialmente CENCI, Dissert. intorno all’epoca dei SS. Euprepio, Procolo e Zenone (Verona 1788).
–7 Tratta diffusamente la questione ZENTI, Op. cit.
– 8 UGHELLI, Italia sacra, Tom
V, 683-691; BONACCHI, S. Zellollis
epocha (Pistoriae) 1751
–9 Così il Maffei scioglie il nome Cancario dei codici.
–10 Vedi alcuni ritmi presso ZENTI, Opusc. cit., pag 22, seg.
–11 Secondo il WADDING, Annales
Minorum, questi tempi primitivi sarebbero i costantiniani.
–12 DE ROSSI et DUCHENSE, Martyrologium
Hieronymianum, pag. 103 (Bruxellis 1894). Sta avanti il Tomo
II, P. I, degli Acta Santorum
Nov. (Bolland.).
–13 Certamente la Translatio
non ha l’autorità della Passio:
presso MAFFEI, Op. cit., pago
311-314; spetta alla seconda metà del secolo VIII.
–14 La causa dei veronesi è sostenuta mordicus da BIANCOLINI, Chiese
di Verona, I, 321, 332; II, 757.835. In fine, ecc., e Dissert. seconda ecc., (Trento1744).
Così pure Vallarsi ed altri.
ANNOTAZIONI
AGGIUNTE AL CAPO III (a cura di A. Orlando)
(a) pag. 28. – Vedi più avanti, PIGHI, epoca I, cap. XX.
(b) pag. 28. – Secondo la critica più recente Fermo e Rustico sono
due martiri africani, venerati in Verona fin da tempi antichissimi, e più
tardi, perduto il ricordo della loro origine, celebrati come se avessero subito
il martirio in Verona, Per più ampie notizie cfr. S. TONOLLI, Fermo e Rustico martiri di Verona, in «Bibliotheca Sanctorum» vol. V.
Anche per i primi vescovi veronesi
sono da tener presenti gli articoli dello stesso autore in «Biblioteca
Sanctorum ».
Fonte: srs di Giovanni Battista
Pighi, da CENNI STORICI SULLA CHIESA VERONESE, volume I
Santo Nicola di Stilo in Calabria
Tratto da
https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=1920876538009180&id=100002605583903
+ Il 9 di Agosto, memoria del nostro
santo padre Nicola di Stilo in Calabria.
+ Tη 9η Αυγούστου, μνήμη του οσίου
πατρός ημών Νικολάου του εν Στύλο της Καλαβρίας.
Di San Nicola si hanno poche
notizie. Il Santo calabrese visse come monaco - eremita sul monte Consolino
sopra Stilo ed insieme a Sant'Ambrogio iniziarono alla vita monastica San
Giovanni Theristis. Si addormentò il 9 agosto 1050. La grotta dei beati
Ambrogio e Nicola, recentemente riconsacrata dai padri greco-ortodossi del
monastero di San Giovanni Theristis di Bivongi, è la laura sul monte Consolino
utilizzata dai due monaci anacoreti italogreci per condurre vita di penitenza,
preghiera e contemplazione, suscitando una così forte attrazione sul giovane
Giovanni Theristis, da indurlo a seguirne l’esempio ed il modello.
Per le preghiere dei Santi padri,
Nicola, Ambrogio e Giovanni, Signore Gesù Cristo, Dio nostro, abbi misericordia
di noi. Amin!
Santo San Falco di Palena.
Tratto
da
https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=1921217021308465&id=100002605583903
+ Il 9 di Agosto memoria di San
Falco di Palena.
+ Tη 9η Αυγούστου, μνήμη του οσίου
πατρός ημών Φάλκου του Καλαβρού, του εν Palena.
San Falco, nato a Taverna in
Calabria verso la metà del decimo secolo, dall'antica e nobile famiglia dei
Poerio, apparteneva alla comunità di monaci italo-greci che nel 977, per
mettersi al riparo dalle incursioni dei pirati saraceni, lasciò il monastero di
Santa Maria di Pesaca, presso Taverna, e si trasferì nel Sannio seguendo
l'archimandrita Ilarione.
La comunità, trovò sede nella rocca di Prata, presso Casoli. Morti San Ilarione e il suo successore San Nicola che anche lui si festegia oggi, i membri superstiti della fraternità abbandonarono la vita comune e si ritirarono a vita eremitica in vari centri dell'Abruzzo: Falco si stabilì nei pressi di Palena, dove morì in odore di santità.
Falco fu oggetto di culto sin dalla morte e venne particolarmente invocato contro le ossessioni diaboliche; attorno alla sua figura fiorirono numerose leggende agiografiche, comuni a quelle di altri santi della regione, come quella che lo vedeva protagonista assieme ad altri fratelli eremiti.
La comunità, trovò sede nella rocca di Prata, presso Casoli. Morti San Ilarione e il suo successore San Nicola che anche lui si festegia oggi, i membri superstiti della fraternità abbandonarono la vita comune e si ritirarono a vita eremitica in vari centri dell'Abruzzo: Falco si stabilì nei pressi di Palena, dove morì in odore di santità.
Falco fu oggetto di culto sin dalla morte e venne particolarmente invocato contro le ossessioni diaboliche; attorno alla sua figura fiorirono numerose leggende agiografiche, comuni a quelle di altri santi della regione, come quella che lo vedeva protagonista assieme ad altri fratelli eremiti.
Tratto da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/65770
La
storia di questo santo è legata a quella di altri sei confratelli. Conosciuti
nella tradizione popolare abruzzese come “i sette fratelli”, furono così
chiamati per l’appellativo di “fratelli” che usavano tra di loro. Approvato
dalla Sacra Congregazione dei Riti nel 2 luglio 1893 il culto di questi Santi è
vivo da secoli in tutto l’Abruzzo ed i loro nomi sono legati a luoghi dove
hanno lasciato maggiori testimonianze. S. Nicolò il Greco da Prata venerato a
Guardiagrele, S. Rinaldo patrono di Fallascoso, S. Franco di Francavilla al
Mare, S. Stefano “il lupo” sepolto presso l’eremo di S. Spirito a Majella, S.
Giovanni che ha dato il nome alla cittadina di Rocca San Giovanni, e S. Orante
di Ortucchio nella Marsica.
Falco, nato a Taverna in Calabria verso la metà del decimo secolo, dall'antica e nobile famiglia dei Poerio, fu da giovanissimo attirato dalla solitudine e dall’eremitaggio. Decise presto di ritirarsi nel monastero di Pesica vicino al suo paese, nella zona di Cosenza, fra i Basiliani, sotto la disciplina di un santo abate, di nome Ilarione. La comunità era già conosciuta in tutte le Calabrie per le virtù e la santità di tutti i confratelli che la formavano come afferma il B. Pietro da Pesica ricordato nel Monologio greco.
Nel 980 le Calabrie divennero teatro di rovina e sterminio, preda dei Saraceni al soldo di Basilio e Costantino. Dal monastero di Taverna i “sette fratelli” decisero perciò di partire alla volta degli Abruzzi, e raggiunsero nella provincia di Abruzzo Citra nelle terre dei Peligni, il feudo di Prata, al confine tra Casoli, e Civitella Messer Raimondo, presso le rive del fiume Aventino, attuale provincia di Chieti.
Qui costruirono alcune stanze ed una chiesetta, i cui ruderi erano visibili fino a verso la fine dell’800, e qui si stabilirono vivendo in povertà, e santità imponendosi rigide regole quali veri imitatori degli antichi monaci d’Egitto.
Sotto la guida del loro santo abate Ilarione condussero vita austera e di digiuno, cibandosi per lo più di erbe, ad eccezione delle sole domeniche.
La loro conversazione consisteva nella pratica delle orazione, e nella recita delle lodi.
Alla morte del santo abate elessero superiore il più giovane, Nicolò Greco, minore per età, ma non per meriti.
Il nuovo Abate, per rendere grazie a Dio, chiese ai confratelli di compiere un pellegrinaggio a Roma. Durante il viaggio, con le loro orazioni “i sette fratelli” riuscirono a liberare dagli spiriti maligni sette indemoniati incontrati nei pressi del Lago di Fucino. Rimessisi in cammino, uno di essi, aggravato dagli acciacchi di salute, lasciò i compagni e nei pressi di Ortucchio, trovò ricovero nella chiesa della Santissima Vergine, a S. Maria in Capo d'acqua.
Gli altri compagni compiuto il pellegrinaggio, tornarono a Prata alla loro vita monastica. Nicolò fu per diversi anni abate, ma alla sua morte gli altri confratelli, non riuscendo ad eleggere un suo successore, si ritennero liberi di seguire ognuno la propria strada. Falco decise di tornare a Roma, e s’incamminò, ma la stessa sera, giunto a Palena, tentando di salire la montagna di Coccia, sentì mancare le forze e fu costretto a riposarsi nella vicina villa di S. Egidio. All’arrivo inaspettato di questo santo frate, la contrada infestata da spiriti maligni, fu subito purificata, e la sua presenza fu motivo di speranza per gli abitanti del luogo che lo acclamarono da subito e gli portarono rispetto. Decise così di rimanere tra quei monti continuando la sua vita di rigori e di preghiere. Per estrema umiltà non volle mai abbracciare il sacerdozio, ma rimanere un umilissimo frate esempio di virtù.
Era il mattino del 13 gennaio presumibilmente di un anno verso la metà dell'undecimo secolo, improvvisamente si sentì suonare la piccola campana dell'eremo dove viveva in ritiro. Accorsero in molti pensando che il frate avesse bisogno di soccorso e lo trovarono esanime steso su di una tavola con due candele accese. Il suo corpo fu trasportato nella chiesa di S. Egidio Abate dove, dopo le esequie, fu sepolto.
Passava da quelle parti un ossesso che trascinato e legato alla statua di S. Panfilo di Sulmona, e tutti con stupore lo videro spezzare le funi e correre verso il sepolcro del Santo, dove appena giunto, fu liberato dal maligno.
Da quel momento la fama di San Falco divenne ancora più grande e confermata da diversi altri prodigi, tanto che a richiesta del popolo le spoglie furono esposte alla pubblica venerazione.
Se gli archivi di Sulmona, e Palena non fossero andati distrutti in un incendio, avremmo ad oggi innumerevoli descrizioni di grazie e miracoli riportati negli atti della sua canonizzazione.
Nel 1383, a causa di continue scorrerie e latrocini, temendo per la loro sorte, il vescovo di Sulmona decise la traslazione delle reliquie e della statua di S. Falco nella chiesa di S. Antonino Martire al centro di Palena.
Nel medesimo anno, il Vicario Generale di Valva e Sulmona D. Giovanni canonico di Sora, decise di unire con bolla speciale le ville e loro chiese, alla chiesa madre di S. Antonino Martire. Tale unione fu poi confermata nel 1385 con altra bolla del vescovo di Sulmona D. Bartolomeo de Scalis sotto il Papa Urbano VI.
Da allora la chiesa e le reliquie di San Falco divennero meta di pellegrini, fedeli, devoti, malati ed ossessi, provenienti anche da molto lontano.
Nel terremoto del 1706 la chiesa non fu esente dal disastro, ma fu presto riedificata con l’aiuto e la devozione dei fedeli.
Per la crescente devozione e gli innumerevoli pellegrinaggi nel 1841 si decise di demolire la vecchia chiesa per erigerne una molto più grande e capiente, e nel 1842, ad opera del celebre Domenico Capozzi, per la grande devozione, fu eretta al santo una statua di argento a mezzo busto.
La teca con le sue reliquie, la tunica Dalmatica alla Greca, e la statua di argento contenente il suo teschio, vengono esposti due volte l'anno alla devozione dei fedeli, il 13 gennaio in commemorazione della morte, e nella domenica successiva al 15 agosto in memoria della traslazione delle sue reliquie dalla chiesa di S. Egidio.
Falco, nato a Taverna in Calabria verso la metà del decimo secolo, dall'antica e nobile famiglia dei Poerio, fu da giovanissimo attirato dalla solitudine e dall’eremitaggio. Decise presto di ritirarsi nel monastero di Pesica vicino al suo paese, nella zona di Cosenza, fra i Basiliani, sotto la disciplina di un santo abate, di nome Ilarione. La comunità era già conosciuta in tutte le Calabrie per le virtù e la santità di tutti i confratelli che la formavano come afferma il B. Pietro da Pesica ricordato nel Monologio greco.
Nel 980 le Calabrie divennero teatro di rovina e sterminio, preda dei Saraceni al soldo di Basilio e Costantino. Dal monastero di Taverna i “sette fratelli” decisero perciò di partire alla volta degli Abruzzi, e raggiunsero nella provincia di Abruzzo Citra nelle terre dei Peligni, il feudo di Prata, al confine tra Casoli, e Civitella Messer Raimondo, presso le rive del fiume Aventino, attuale provincia di Chieti.
Qui costruirono alcune stanze ed una chiesetta, i cui ruderi erano visibili fino a verso la fine dell’800, e qui si stabilirono vivendo in povertà, e santità imponendosi rigide regole quali veri imitatori degli antichi monaci d’Egitto.
Sotto la guida del loro santo abate Ilarione condussero vita austera e di digiuno, cibandosi per lo più di erbe, ad eccezione delle sole domeniche.
La loro conversazione consisteva nella pratica delle orazione, e nella recita delle lodi.
Alla morte del santo abate elessero superiore il più giovane, Nicolò Greco, minore per età, ma non per meriti.
Il nuovo Abate, per rendere grazie a Dio, chiese ai confratelli di compiere un pellegrinaggio a Roma. Durante il viaggio, con le loro orazioni “i sette fratelli” riuscirono a liberare dagli spiriti maligni sette indemoniati incontrati nei pressi del Lago di Fucino. Rimessisi in cammino, uno di essi, aggravato dagli acciacchi di salute, lasciò i compagni e nei pressi di Ortucchio, trovò ricovero nella chiesa della Santissima Vergine, a S. Maria in Capo d'acqua.
Gli altri compagni compiuto il pellegrinaggio, tornarono a Prata alla loro vita monastica. Nicolò fu per diversi anni abate, ma alla sua morte gli altri confratelli, non riuscendo ad eleggere un suo successore, si ritennero liberi di seguire ognuno la propria strada. Falco decise di tornare a Roma, e s’incamminò, ma la stessa sera, giunto a Palena, tentando di salire la montagna di Coccia, sentì mancare le forze e fu costretto a riposarsi nella vicina villa di S. Egidio. All’arrivo inaspettato di questo santo frate, la contrada infestata da spiriti maligni, fu subito purificata, e la sua presenza fu motivo di speranza per gli abitanti del luogo che lo acclamarono da subito e gli portarono rispetto. Decise così di rimanere tra quei monti continuando la sua vita di rigori e di preghiere. Per estrema umiltà non volle mai abbracciare il sacerdozio, ma rimanere un umilissimo frate esempio di virtù.
Era il mattino del 13 gennaio presumibilmente di un anno verso la metà dell'undecimo secolo, improvvisamente si sentì suonare la piccola campana dell'eremo dove viveva in ritiro. Accorsero in molti pensando che il frate avesse bisogno di soccorso e lo trovarono esanime steso su di una tavola con due candele accese. Il suo corpo fu trasportato nella chiesa di S. Egidio Abate dove, dopo le esequie, fu sepolto.
Passava da quelle parti un ossesso che trascinato e legato alla statua di S. Panfilo di Sulmona, e tutti con stupore lo videro spezzare le funi e correre verso il sepolcro del Santo, dove appena giunto, fu liberato dal maligno.
Da quel momento la fama di San Falco divenne ancora più grande e confermata da diversi altri prodigi, tanto che a richiesta del popolo le spoglie furono esposte alla pubblica venerazione.
Se gli archivi di Sulmona, e Palena non fossero andati distrutti in un incendio, avremmo ad oggi innumerevoli descrizioni di grazie e miracoli riportati negli atti della sua canonizzazione.
Nel 1383, a causa di continue scorrerie e latrocini, temendo per la loro sorte, il vescovo di Sulmona decise la traslazione delle reliquie e della statua di S. Falco nella chiesa di S. Antonino Martire al centro di Palena.
Nel medesimo anno, il Vicario Generale di Valva e Sulmona D. Giovanni canonico di Sora, decise di unire con bolla speciale le ville e loro chiese, alla chiesa madre di S. Antonino Martire. Tale unione fu poi confermata nel 1385 con altra bolla del vescovo di Sulmona D. Bartolomeo de Scalis sotto il Papa Urbano VI.
Da allora la chiesa e le reliquie di San Falco divennero meta di pellegrini, fedeli, devoti, malati ed ossessi, provenienti anche da molto lontano.
Nel terremoto del 1706 la chiesa non fu esente dal disastro, ma fu presto riedificata con l’aiuto e la devozione dei fedeli.
Per la crescente devozione e gli innumerevoli pellegrinaggi nel 1841 si decise di demolire la vecchia chiesa per erigerne una molto più grande e capiente, e nel 1842, ad opera del celebre Domenico Capozzi, per la grande devozione, fu eretta al santo una statua di argento a mezzo busto.
La teca con le sue reliquie, la tunica Dalmatica alla Greca, e la statua di argento contenente il suo teschio, vengono esposti due volte l'anno alla devozione dei fedeli, il 13 gennaio in commemorazione della morte, e nella domenica successiva al 15 agosto in memoria della traslazione delle sue reliquie dalla chiesa di S. Egidio.
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