Santo Dimitriano
Vescovo di Verona (terzo secolo )
Tratto da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/97494
San Dimitriano (Dimidriano nella
Bibliotheca Sanctorum) è il secondo vescovo di Verona. Nella cronotassi
ufficiale della diocesi scaligera figura dopo il protovescovo Sant’Eupreprio e
prima di San Simplicio.
Di lui non sappiamo quasi nulla. Il suo nome ci potrebbe indicare la sua origine greca.
La tradizione lo vuole santo di nome per le sue virtù.
Nel “Catalogus Sanctorum Ecclesiae Veronensis”, mons. Franco Segala ne trascrive l’elogium dal Martirologio della chiesa veronese: “Veronae sancti Dimitriani eiusdem civitatis episcopi (qui cum omnium episcopalium virtutum esset exemplar, etiam vivens, vir sanctus est appellatus)
La data della sua morte è incerta all’11 o 15 maggio. Da un’antica pergamena sappiamo che fu sepolto nella cripta della chiesa di Santo Stefano.
Nel martirologio diocesano, era ricordato nel giorno della sua festa il giorno 15 maggio, fino alla riforma del Proprio veronese, del 1961, voluta dal vescovo Carraro, quando venne annoverato nella festa comune di tutti i vescovi veronesi
Di lui non sappiamo quasi nulla. Il suo nome ci potrebbe indicare la sua origine greca.
La tradizione lo vuole santo di nome per le sue virtù.
Nel “Catalogus Sanctorum Ecclesiae Veronensis”, mons. Franco Segala ne trascrive l’elogium dal Martirologio della chiesa veronese: “Veronae sancti Dimitriani eiusdem civitatis episcopi (qui cum omnium episcopalium virtutum esset exemplar, etiam vivens, vir sanctus est appellatus)
La data della sua morte è incerta all’11 o 15 maggio. Da un’antica pergamena sappiamo che fu sepolto nella cripta della chiesa di Santo Stefano.
Nel martirologio diocesano, era ricordato nel giorno della sua festa il giorno 15 maggio, fino alla riforma del Proprio veronese, del 1961, voluta dal vescovo Carraro, quando venne annoverato nella festa comune di tutti i vescovi veronesi
Consultare
Associazione Fossa Bova – corso 2016
I templi della cristianità a Verona
luoghi di culto paleocristiani e
medievali in città e nel territorio
http://www.fossabova.it/files/Materiale-da-stampare-2016-Diego.pdf
San Simplicio Vescovo martire in Sardegna sotto Diocleziano con Santa Rosula (verso il 304)
Tratto da quotidiano Avvenire
A celebrare il nome del santo vescovo a Olbia è la basilica che gli è dedicata, uno dei massimi monumenti romanici della Sardegna, completamente in granito, risalente all'XI secolo. Cippi di età romana e ritrovamenti di varie epoche storiche (cartaginese, romano, paleocristiano, con reperti fino al tardo Medioevo) fanno dedurre che l'area sulla quale si scelse di edificare la basilica fosse un luogo di particolare valore simbolico
Martirologio Romano « A Fausania, in Sardegna, san Simplicio vescovo e martire il quale al tempo di Diocleziano, sotto il preside Barbaro, trafitto da lancia consumò il martirio »
Tratto da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/90964
Purtroppo non vi sono certezze sulla vita di questo santo, le fonti che lo ricordano sempre al 15 maggio, sono tre e danno versioni diverse.
La prima ‘passio’ pervenutagli dalla Sardegna, indusse il grande Cesare Baronio ad inserirlo nel ‘Martirologio Romano’ come vescovo di Fausania (Terranova – Pausania), nome fino al 1939 dell’odierna Olbia (SS), morto martire sotto Diocleziano (243-313).
La seconda fonte è il ‘Martirologio Geronimiano’ che lo ricorda nel giorno della sua festa con queste parole: “In Sardinia Simplicii presbiteri”, in effetti un santo di nome Simplicio è realmente esistito ma era un sacerdote non vescovo.
Una terza fonte cioè una ‘passio’ più recente lo ha raggruppato con i santi martiri Gabino, Proto e Gennaro, Saturnino, di Cagliari, ma non è di nessun valore storico.
Non vi sono purtroppo altre notizie, mentre il suo culto si affermò nella regione dell’antica città di Olbia, di cui è il patrono e nel secolo XI gli venne eretta una chiesa, romanica, che è attualmente il maggiore monumento cittadino, costruita tutta in conci di granito, di rudi forme, con facciata di tipo pisano.
Tratto da
https://it.wikipedia.org/wiki/Simplicio_di_Olbia
Sulla sua esistenza storica non vi sono dubbi, dato che tutti i martirologi ne fanno cenno; i dubbi sorgono sui suoi titoli: alcuni infatti lo ricordano come vescovo, altri come presbitero e alcuni non accennano al martirio. La Passio del XII secolo, redatta dai monaci Vittorini di Marsiglia, lo presenta come vescovo e martire sotto Diocleziano nel 304 Civita (poi Olbia), la Gallura e il giudicato di Gallura scelsero Simplicio come loro santo protettore.
Fausania, nome altomedievale di Olbia, è menzionata in una lettera di papa Gregorio I, il quale, nel VI secolo, esorta ad eleggere un nuovo vescovo per questa città, la quale ne era priva da lunghissimi anni a causa delle difficoltà dei tempi.
L'ultimo vescovo di Fausania-Civita fu Pietro Stornello (1490-1511): la diocesi continuò fino al 1836 col nome di Civita e Terranova, associato ad Ampurias (Castelsardo), e trasferita a Tempio Pausania.
Simplicio è sempre effigiato con mitra, piviale e bacolo pastorale: così appare, con Vittore, nell'affresco della fine del XII secolo che tuttora si vede nella chiesa.
Nel sito dove sorge il tempio - Giovanni Paolo II lo elevò al rango di basilica minore - Simplicio sarebbe stato martirizzato il 15 maggio 304, durante il regno del menzionato imperatore. Secondo una leggenda locale, parte del corpo di san Simplicio fu gettato in mare presso l'isolotto di Tavolara, dove ai superstiziosi pescatori pareva di vedere un continuo ribollimento delle acque.
I resti ritenuti di san Simplicio e san Vittore furono rinvenuti nel 1940 nella chiesa olbiese di San Paolo, lì trasferiti nel 1840/43 dall'antica cattedrale extra muros.
La chiesa, la più significativa della Gallura, ebbe un ruolo fondamentale negli avvenimenti del giudicato: vicino ad essa sorgevano insigni palazzi, tra cui quelli della cancelleria e del vescovo; qui i Giudici prestavano giuramento e si sposavano (da ricordare il matrimonio, qui celebrato, della giudicessa Elena di Gallura col pisano Lamberto Visconti che sostituì sul trono la sua famiglia a quella dei Lacon-Gunale).
Fu cattedrale della diocesi gallurese per secoli, sostituita a metà Ottocento dal duomo di Tempio Pausania
Terranova Pausania (odierna Olbia), infatti, era assai decaduta e spopolata: l'artistica chiesa si trovava ormai isolata fuori le mura, quasi in aperta campagna e chiusa fino ai primi anni cinquanta del Novecento.
Leggere anche
http://www.lanuovasardegna.it/regione/2012/02/14/news/le-reliquie-di-simplicio-nell-ex-cimitero-1.3664626
tratto da
http://www.sansimplicioolbia.it/it/articles/19/Simplicio-la-storia-del-santo.html
Simplicio, la storia del santo
I festeggiamenti in onore del patrono San Simplicio, che viene ricordato il 15 maggio, costituiscono una ricorrenza molto sentita a Olbia.
San Simplicio fu martirizzato nell'anno 304 per volontà del governatore romano della Provincia di Sardegna e Corsica, che viene ricordato con nome di Barbaro. L'imperatore in quel momento era Diocleziano e questi aveva ordinato che fossero perseguitati tutti i cristiani presenti sul territorio dell'impero. Sorte alla quale non sfuggì neanche Simplicio, che era vescovo di Olbia. Simplicio venne trafitto da una lancia e morì dopo tre giorni di agonia. Insieme a lui vennero martirizzati anche Rosola, Diocleziano e Fiorenzio. I quattro furono sepolti nella necropoli romana posta fuori le mura.
Una parte del corpo del santo, secondo una leggenda locale, sarebbe stata gettata in mare vicino l'isolotto di Tavolara, perché ai superstiziosi pescatori sembrava che le acque ribollissero continuamente. Nel 1940 nella chiesa di San Paolo ad Olbia sono stati rinvenuti dei resti, attribuiti a San Simplicio, che sono stati poi trasferiti nell'antica cattedrale fuori le mura dedicata al santo.
A confermare il martirio di San Simplicio le fonte storiche relative ai primi secoli della Chiesa, il culto e la tradizione antichissima della Chiesa in Sardegna. Il primo riferimento a San Simplicio si trova nel Martirologio Geronimiano, redatto alla fine del V secolo. La sua figura viene poi ricordata nei codici che riportano i testi del Martirologio Geronimiano. Da questi testi derivano anche il giorno e il luogo del martirio e i compagni. A rafforzare ulteriormente la figura di San Simplicio i martirologi definiti "storici", da quello di San Beda, redatto all'inizio dell'VIII secolo, al Martirologio Romano del Baronio nel XVII secolo.
Come testimonia un affresco della fine del XII secolo all'interno della basilica di San Simplicio, il santo martire viene raffigurato con mitra, piviale e bacolo pastorale.
San Simplicio oltre ad essere il patrono di Olbia, è anche il santo protettore della Gallura e della diocesi di Tempio-Ampurias. In suo onore sono stati costruiti edifici di culto non solo in Gallura ma anche nel resto della Sardegna, come a Sassari, Narcao, Guspini, Stintino e Viddalba.
Tratto da quotidiano Avvenire
A celebrare il nome del santo vescovo a Olbia è la basilica che gli è dedicata, uno dei massimi monumenti romanici della Sardegna, completamente in granito, risalente all'XI secolo. Cippi di età romana e ritrovamenti di varie epoche storiche (cartaginese, romano, paleocristiano, con reperti fino al tardo Medioevo) fanno dedurre che l'area sulla quale si scelse di edificare la basilica fosse un luogo di particolare valore simbolico
Martirologio Romano « A Fausania, in Sardegna, san Simplicio vescovo e martire il quale al tempo di Diocleziano, sotto il preside Barbaro, trafitto da lancia consumò il martirio »
Tratto da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/90964
Purtroppo non vi sono certezze sulla vita di questo santo, le fonti che lo ricordano sempre al 15 maggio, sono tre e danno versioni diverse.
La prima ‘passio’ pervenutagli dalla Sardegna, indusse il grande Cesare Baronio ad inserirlo nel ‘Martirologio Romano’ come vescovo di Fausania (Terranova – Pausania), nome fino al 1939 dell’odierna Olbia (SS), morto martire sotto Diocleziano (243-313).
La seconda fonte è il ‘Martirologio Geronimiano’ che lo ricorda nel giorno della sua festa con queste parole: “In Sardinia Simplicii presbiteri”, in effetti un santo di nome Simplicio è realmente esistito ma era un sacerdote non vescovo.
Una terza fonte cioè una ‘passio’ più recente lo ha raggruppato con i santi martiri Gabino, Proto e Gennaro, Saturnino, di Cagliari, ma non è di nessun valore storico.
Non vi sono purtroppo altre notizie, mentre il suo culto si affermò nella regione dell’antica città di Olbia, di cui è il patrono e nel secolo XI gli venne eretta una chiesa, romanica, che è attualmente il maggiore monumento cittadino, costruita tutta in conci di granito, di rudi forme, con facciata di tipo pisano.
Tratto da
https://it.wikipedia.org/wiki/Simplicio_di_Olbia
Sulla sua esistenza storica non vi sono dubbi, dato che tutti i martirologi ne fanno cenno; i dubbi sorgono sui suoi titoli: alcuni infatti lo ricordano come vescovo, altri come presbitero e alcuni non accennano al martirio. La Passio del XII secolo, redatta dai monaci Vittorini di Marsiglia, lo presenta come vescovo e martire sotto Diocleziano nel 304 Civita (poi Olbia), la Gallura e il giudicato di Gallura scelsero Simplicio come loro santo protettore.
Fausania, nome altomedievale di Olbia, è menzionata in una lettera di papa Gregorio I, il quale, nel VI secolo, esorta ad eleggere un nuovo vescovo per questa città, la quale ne era priva da lunghissimi anni a causa delle difficoltà dei tempi.
L'ultimo vescovo di Fausania-Civita fu Pietro Stornello (1490-1511): la diocesi continuò fino al 1836 col nome di Civita e Terranova, associato ad Ampurias (Castelsardo), e trasferita a Tempio Pausania.
Simplicio è sempre effigiato con mitra, piviale e bacolo pastorale: così appare, con Vittore, nell'affresco della fine del XII secolo che tuttora si vede nella chiesa.
Nel sito dove sorge il tempio - Giovanni Paolo II lo elevò al rango di basilica minore - Simplicio sarebbe stato martirizzato il 15 maggio 304, durante il regno del menzionato imperatore. Secondo una leggenda locale, parte del corpo di san Simplicio fu gettato in mare presso l'isolotto di Tavolara, dove ai superstiziosi pescatori pareva di vedere un continuo ribollimento delle acque.
I resti ritenuti di san Simplicio e san Vittore furono rinvenuti nel 1940 nella chiesa olbiese di San Paolo, lì trasferiti nel 1840/43 dall'antica cattedrale extra muros.
La chiesa, la più significativa della Gallura, ebbe un ruolo fondamentale negli avvenimenti del giudicato: vicino ad essa sorgevano insigni palazzi, tra cui quelli della cancelleria e del vescovo; qui i Giudici prestavano giuramento e si sposavano (da ricordare il matrimonio, qui celebrato, della giudicessa Elena di Gallura col pisano Lamberto Visconti che sostituì sul trono la sua famiglia a quella dei Lacon-Gunale).
Fu cattedrale della diocesi gallurese per secoli, sostituita a metà Ottocento dal duomo di Tempio Pausania
Terranova Pausania (odierna Olbia), infatti, era assai decaduta e spopolata: l'artistica chiesa si trovava ormai isolata fuori le mura, quasi in aperta campagna e chiusa fino ai primi anni cinquanta del Novecento.
Leggere anche
http://www.lanuovasardegna.it/regione/2012/02/14/news/le-reliquie-di-simplicio-nell-ex-cimitero-1.3664626
tratto da
http://www.sansimplicioolbia.it/it/articles/19/Simplicio-la-storia-del-santo.html
Simplicio, la storia del santo
I festeggiamenti in onore del patrono San Simplicio, che viene ricordato il 15 maggio, costituiscono una ricorrenza molto sentita a Olbia.
San Simplicio fu martirizzato nell'anno 304 per volontà del governatore romano della Provincia di Sardegna e Corsica, che viene ricordato con nome di Barbaro. L'imperatore in quel momento era Diocleziano e questi aveva ordinato che fossero perseguitati tutti i cristiani presenti sul territorio dell'impero. Sorte alla quale non sfuggì neanche Simplicio, che era vescovo di Olbia. Simplicio venne trafitto da una lancia e morì dopo tre giorni di agonia. Insieme a lui vennero martirizzati anche Rosola, Diocleziano e Fiorenzio. I quattro furono sepolti nella necropoli romana posta fuori le mura.
Una parte del corpo del santo, secondo una leggenda locale, sarebbe stata gettata in mare vicino l'isolotto di Tavolara, perché ai superstiziosi pescatori sembrava che le acque ribollissero continuamente. Nel 1940 nella chiesa di San Paolo ad Olbia sono stati rinvenuti dei resti, attribuiti a San Simplicio, che sono stati poi trasferiti nell'antica cattedrale fuori le mura dedicata al santo.
A confermare il martirio di San Simplicio le fonte storiche relative ai primi secoli della Chiesa, il culto e la tradizione antichissima della Chiesa in Sardegna. Il primo riferimento a San Simplicio si trova nel Martirologio Geronimiano, redatto alla fine del V secolo. La sua figura viene poi ricordata nei codici che riportano i testi del Martirologio Geronimiano. Da questi testi derivano anche il giorno e il luogo del martirio e i compagni. A rafforzare ulteriormente la figura di San Simplicio i martirologi definiti "storici", da quello di San Beda, redatto all'inizio dell'VIII secolo, al Martirologio Romano del Baronio nel XVII secolo.
Come testimonia un affresco della fine del XII secolo all'interno della basilica di San Simplicio, il santo martire viene raffigurato con mitra, piviale e bacolo pastorale.
San Simplicio oltre ad essere il patrono di Olbia, è anche il santo protettore della Gallura e della diocesi di Tempio-Ampurias. In suo onore sono stati costruiti edifici di culto non solo in Gallura ma anche nel resto della Sardegna, come a Sassari, Narcao, Guspini, Stintino e Viddalba.
Santo Eutizio di
Ferento prete e martire verso il 310
Tratto da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/90578
La più antica e unica sicura notizia su
Eutizio è data da s. Gregorio Magno, il quale racconta che il vescovo di
Ferento, Redento, trovandosi un giorno in visita pastorale nella diocesi,
"pervenit ad ecclesiam beati martyris Eutychii", e volle passare la
notte "iuxta sepulcrum martvris".
Secondo una passio , notevolmente inquinata dalla leggenda, Eutizio era presbitero a Ferento; ritornato da Faleri, dove aveva celebrato la Messa in onore dei martiri Gratiliano e Felicissima, fu arrestato dai soldati del tribuno Massimo, al tempo dell'imperatore C:laudio. Nonostante un tentativo del vescovo del luogo, Dionisio, per liberarlo, fu sottoposto a tormenti e quindi decapitato il 15 maggio. Lo stesso Dionisio ne curò la sepoltura in una cripta a quindici miglia circa da Ferento. Dopo la pace costantiniana, il corpo del martire fu posto in una cassa marmorea e sul sepolcro fu costruita una chiesa.
E' impossibile precisare quando egli sia morto: con molta probabilità dovette perire nella persecuzione di Diocleziano, ma di lui niente si conosce. Nei pressi della sua chiesetta si trova un cimitero cristiano, in cui fu trovata un'iscrizione del 359.
Il culto di Eutizio si diffuse ben presto nell'alto Lazio; i comuni di Soriano e Carbognano, oltre ad erigere in suo onore chiese e cappelle, lo hanno scelto come patrono principale e ne hanno riprodotto l'immagine sullo stemma municipale. Nel 1244 la custodia della chiesa di Eutizio fu affidata dal papa Innocenzo IV ai Benedettini, che vi rimasero fino al 1400. Nel 1496, mentre si ricostruiva la chiesa a lui dedicata, caduta in rovina, fu trovato un sarcofago marmoreo con ossa corrose e, dalle notizie contenute nella passio, si dedusse che si trattava del corpo di Eutizio Nel sec. XVII fu eretta la Confraternita di s. Eutizio e nel 1744 la chiesa fu affidata a s. Paolo della Croce, che vi costruì un ritiro per i suoi Passionisti. Questi la conservano tuttora e l'hanno resa imponente con nuove costruzioni e opere sociali, rendendola un'insigne santuario, meta di numerosi pellegrinaggi.
Nel folklore locale è nota la così detta "manna" di s. Eutizio, della quale si parla già nell'appendice alla passio del santo e di cui si dice che sgorgasse dalla "pietra di s. Eutizio" un liquido biancastro e talvolta anche vermiglio, il cui uso avrebbe operato delle guarigioni miracolose.
Nell'iconografia Eutizio è rappresentato generalmente con le vesti sacerdotali, ma talvolta, come nelI'antico sigillo e nello stemma di Carbognano, con un mazzo di spighe nelle mani.
Secondo una passio , notevolmente inquinata dalla leggenda, Eutizio era presbitero a Ferento; ritornato da Faleri, dove aveva celebrato la Messa in onore dei martiri Gratiliano e Felicissima, fu arrestato dai soldati del tribuno Massimo, al tempo dell'imperatore C:laudio. Nonostante un tentativo del vescovo del luogo, Dionisio, per liberarlo, fu sottoposto a tormenti e quindi decapitato il 15 maggio. Lo stesso Dionisio ne curò la sepoltura in una cripta a quindici miglia circa da Ferento. Dopo la pace costantiniana, il corpo del martire fu posto in una cassa marmorea e sul sepolcro fu costruita una chiesa.
E' impossibile precisare quando egli sia morto: con molta probabilità dovette perire nella persecuzione di Diocleziano, ma di lui niente si conosce. Nei pressi della sua chiesetta si trova un cimitero cristiano, in cui fu trovata un'iscrizione del 359.
Il culto di Eutizio si diffuse ben presto nell'alto Lazio; i comuni di Soriano e Carbognano, oltre ad erigere in suo onore chiese e cappelle, lo hanno scelto come patrono principale e ne hanno riprodotto l'immagine sullo stemma municipale. Nel 1244 la custodia della chiesa di Eutizio fu affidata dal papa Innocenzo IV ai Benedettini, che vi rimasero fino al 1400. Nel 1496, mentre si ricostruiva la chiesa a lui dedicata, caduta in rovina, fu trovato un sarcofago marmoreo con ossa corrose e, dalle notizie contenute nella passio, si dedusse che si trattava del corpo di Eutizio Nel sec. XVII fu eretta la Confraternita di s. Eutizio e nel 1744 la chiesa fu affidata a s. Paolo della Croce, che vi costruì un ritiro per i suoi Passionisti. Questi la conservano tuttora e l'hanno resa imponente con nuove costruzioni e opere sociali, rendendola un'insigne santuario, meta di numerosi pellegrinaggi.
Nel folklore locale è nota la così detta "manna" di s. Eutizio, della quale si parla già nell'appendice alla passio del santo e di cui si dice che sgorgasse dalla "pietra di s. Eutizio" un liquido biancastro e talvolta anche vermiglio, il cui uso avrebbe operato delle guarigioni miracolose.
Nell'iconografia Eutizio è rappresentato generalmente con le vesti sacerdotali, ma talvolta, come nelI'antico sigillo e nello stemma di Carbognano, con un mazzo di spighe nelle mani.
Consultare anche
LA
«PASSIO XII FRATRUM QUI E SYRIA VENERUNT»
STUDIO,
ESAME DELLA TRADIZIONE MANOSCRITTA,
EDIZIONE
CRITICA
In
particolare per Santo Eutizio da pag LII a pagina LIII
Santo Liberatore
Vescovo di Benevento e martire
Tratto
da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/91109
Santo
vescovo venerato a Benevento, pur non essendo stato vescovo di questa città;
venerato anche in località vicine ed in Campania il 15 maggio.
Di lui non si sa praticamente niente, ma i migliori studiosi agiografi, sono concordi ad identificarlo con il celebre s. Eleuterio o Liberatore vescovo dell’Illiria.
Gli ‘Acta’ che lo riguardano sia greci che latini, sono molto leggendari, esaminiamo per brevità solo la versione latina che parte comunque da elementi di quella greca.
Eleuterio (Liberatore) era figlio del defunto console Eugenio e viveva con la madre Anzia a Roma; fu ordinato diacono, sacerdote e vescovo da Aniceto, evidentemente un vescovo metropolita e poi da questo inviato nell’Apulia nella antica città di Aeca come vescovo.
Ritornato a Roma insieme alla madre Anzia, fu messo al giudizio dell’imperatore Adriano, conclusasi con la condanna a morte per tutti e due; la versione greca dice il 15 dicembre 130 ca., quella latina dice il 18 aprile.
La qualifica di vescovo dell’Illiria che lo distingue nell’elenco dei santi è opera di Cesare Baronio che l’ha inserita nel Martirologio Romano, prendendola da testi greci.
Da questo punto vi è un moltiplicarsi di date di celebrazione sia come Eleuterio, sia come Liberatore, mentre numerose chiese sorgevano in suo onore a Roma, Nepi, Vasto, Parenzo d’Istria, Aeca, Chieti, Benevento, Salerno, Sulmona, Mugnano del Cardinale, Ariano Irpino, Terracina, Arce, Canne in Puglia; come pure al suo nome Liberatore è dedicato il famoso monastero di Maiella.
Di lui non si sa praticamente niente, ma i migliori studiosi agiografi, sono concordi ad identificarlo con il celebre s. Eleuterio o Liberatore vescovo dell’Illiria.
Gli ‘Acta’ che lo riguardano sia greci che latini, sono molto leggendari, esaminiamo per brevità solo la versione latina che parte comunque da elementi di quella greca.
Eleuterio (Liberatore) era figlio del defunto console Eugenio e viveva con la madre Anzia a Roma; fu ordinato diacono, sacerdote e vescovo da Aniceto, evidentemente un vescovo metropolita e poi da questo inviato nell’Apulia nella antica città di Aeca come vescovo.
Ritornato a Roma insieme alla madre Anzia, fu messo al giudizio dell’imperatore Adriano, conclusasi con la condanna a morte per tutti e due; la versione greca dice il 15 dicembre 130 ca., quella latina dice il 18 aprile.
La qualifica di vescovo dell’Illiria che lo distingue nell’elenco dei santi è opera di Cesare Baronio che l’ha inserita nel Martirologio Romano, prendendola da testi greci.
Da questo punto vi è un moltiplicarsi di date di celebrazione sia come Eleuterio, sia come Liberatore, mentre numerose chiese sorgevano in suo onore a Roma, Nepi, Vasto, Parenzo d’Istria, Aeca, Chieti, Benevento, Salerno, Sulmona, Mugnano del Cardinale, Ariano Irpino, Terracina, Arce, Canne in Puglia; come pure al suo nome Liberatore è dedicato il famoso monastero di Maiella.
Consultare anche
Capitolo
XVIII-Cenno de’ suoi primi vescovi
Come Beneveuto fu invasa e devastata dai Goti, e in proceder di tempo restaurata da Narsete.
Come Beneveuto fu invasa e devastata dai Goti, e in proceder di tempo restaurata da Narsete.
https://it.wikisource.org/wiki/Istoria_della_citt%C3%A0_di_Benevento_dalla_sua_origine_fino_al_1894/Parte_I/Capitolo_XVIII
Santa Cesarea
Eremita ad Otranto
Tratto da
S. Cesarea nacque in un dicembre del
secolo XIV da Luigi e Lucrezia, dopo una attesa di oltre dieci anni dal
matrimonio e al termine di una pia pratica delle devozioni sabatine, suggerita
da un eremita Giuseppe Benigno.
Rimasta orfana della madre quando era ancora adolescente, Cesarea fu costretta ad abbandonare la casa dei genitori, per sfuggire alle insane tentazioni del padre; si rifugiò in una grotta della marina di Castro, sotto un colle roccioso presso Otranto.
Qui visse la sua vita di privazioni e di preghiera, votata ad una totale dedizione a Dio, divenendo una eremita la cui fama si estese in tutta la Terra d’Otranto. Dopo la sua morte avvenuta nella grotta da dove non era più uscita, sempre nel secolo XIV, fu eretta una chiesa sul posto, che divenne centro del suo culto fin dal secolo XVII.
Nel 1924 essa fu affidata ai Francescani che la sostituirono con una nuova, eretta poi in parrocchia nel 1954. In onore di s. Cesarea sorsero altre chiese nei centri del Salentino, in particolare a Francavilla Fontana (Brindisi) che alcune tradizioni classificano come patria d’origine della santa.
Patrona di Porto Cesareo in provincia di Lecce; la sua festa liturgica è al 15 maggio.
La città di Santa Cesarea Terme festeggia la sua patrona l’11 settembre di ogni anno, data tradizionale dell’evento della fuga di Cesarea, con una processione che dopo aver percorso tutte le vie della cittadina termina con un corteo di barche alla grotta dove sarebbe vissuta e morta.
Il culto è molto diffuso in tutta la Puglia e il nome Cesarea è molto usato in tutta la provincia leccese.
Rimasta orfana della madre quando era ancora adolescente, Cesarea fu costretta ad abbandonare la casa dei genitori, per sfuggire alle insane tentazioni del padre; si rifugiò in una grotta della marina di Castro, sotto un colle roccioso presso Otranto.
Qui visse la sua vita di privazioni e di preghiera, votata ad una totale dedizione a Dio, divenendo una eremita la cui fama si estese in tutta la Terra d’Otranto. Dopo la sua morte avvenuta nella grotta da dove non era più uscita, sempre nel secolo XIV, fu eretta una chiesa sul posto, che divenne centro del suo culto fin dal secolo XVII.
Nel 1924 essa fu affidata ai Francescani che la sostituirono con una nuova, eretta poi in parrocchia nel 1954. In onore di s. Cesarea sorsero altre chiese nei centri del Salentino, in particolare a Francavilla Fontana (Brindisi) che alcune tradizioni classificano come patria d’origine della santa.
Patrona di Porto Cesareo in provincia di Lecce; la sua festa liturgica è al 15 maggio.
La città di Santa Cesarea Terme festeggia la sua patrona l’11 settembre di ogni anno, data tradizionale dell’evento della fuga di Cesarea, con una processione che dopo aver percorso tutte le vie della cittadina termina con un corteo di barche alla grotta dove sarebbe vissuta e morta.
Il culto è molto diffuso in tutta la Puglia e il nome Cesarea è molto usato in tutta la provincia leccese.
San
Donnino di Piacenza
Diacono
Tratto da
San Donnino è un diacono di Piacenza.
Su di lui ci sono rimaste solo delle scarne notizie che si trovano nel testo
sulla sua “Memoria” di Rufino monaco del monastero di san Savino nel XIII
secolo, e citata nell’Italia sacra, dell’abate Ferdinando Ughelli.
In quel testo si narra che Donnino era di origine piacentina e fu un diacono di San Mauro, terzo vescovo di Piacenza, e morto nel 449.
Morì nel 443 e fu sepolto sotto l’altare della chiesa del monastero delle Mose, nella zona nord di Piacenza, dove prosperava una grande comunità di monaci che custodivano i corpi dei Santi Savino, Gelasio, Vittore e Vittoria.
Alcuni storici, tra cui anche il Campi nella sua “Historia ecclesiastica”, avanzano l’ipotesi che Donnino fosse stato ammesso fra i chierici di S. Savino, mentre altri storici lo indicano quale monaco del monastero delle Mose.
Il nome di San Donnino è comunemente associato a San Vittore, pure diacono piacentino vissuto nella stessa epoca.
I suoi resti si conservavano nella chiesa del monastero delle Mose. Dopo l’incendio di quella chiesa del 902, avvenuto durante un’incursione degli Ungari, le sue reliquie furono trasportate dal vescovo Everardo, nella cripta della chiesa di San Savino, che era stata costruita all’interno della città.
Il culto di San Donnino, non è per niente diffuso e nel proprio della diocesi viene ricordato nella festa di tutti i santi piacentini.
Alcuni storici affermano che di lui non esistono immagini né leggende popolari. In realtà esiste un’immagine di San Donnino posta sull’altare della cripta della chiesa di San Savino. Nell’opera di uno scultore lombardo del 1481, commissionata dall’abate Rufino Landi, il nostro santo è presentato a mani giunte, girato verso la Madonna. Un’altra sua immagine leggendaria del 1888, lo raffigura insieme a san Vittore sul muro della cappella del seminario cittadino.
In quel testo si narra che Donnino era di origine piacentina e fu un diacono di San Mauro, terzo vescovo di Piacenza, e morto nel 449.
Morì nel 443 e fu sepolto sotto l’altare della chiesa del monastero delle Mose, nella zona nord di Piacenza, dove prosperava una grande comunità di monaci che custodivano i corpi dei Santi Savino, Gelasio, Vittore e Vittoria.
Alcuni storici, tra cui anche il Campi nella sua “Historia ecclesiastica”, avanzano l’ipotesi che Donnino fosse stato ammesso fra i chierici di S. Savino, mentre altri storici lo indicano quale monaco del monastero delle Mose.
Il nome di San Donnino è comunemente associato a San Vittore, pure diacono piacentino vissuto nella stessa epoca.
I suoi resti si conservavano nella chiesa del monastero delle Mose. Dopo l’incendio di quella chiesa del 902, avvenuto durante un’incursione degli Ungari, le sue reliquie furono trasportate dal vescovo Everardo, nella cripta della chiesa di San Savino, che era stata costruita all’interno della città.
Il culto di San Donnino, non è per niente diffuso e nel proprio della diocesi viene ricordato nella festa di tutti i santi piacentini.
Alcuni storici affermano che di lui non esistono immagini né leggende popolari. In realtà esiste un’immagine di San Donnino posta sull’altare della cripta della chiesa di San Savino. Nell’opera di uno scultore lombardo del 1481, commissionata dall’abate Rufino Landi, il nostro santo è presentato a mani giunte, girato verso la Madonna. Un’altra sua immagine leggendaria del 1888, lo raffigura insieme a san Vittore sul muro della cappella del seminario cittadino.
Santo
Ellero(in alcuni codici Ilaro) igumeno e fondatore del monastero
di Galeata negli Appennini tra Toscana ed Rmilia (tra il 498 e il 556)
Tratto dal
quotidiano Avvenire
Nato in Tuscia nel 476, a dodici anni
Ellero decise di darsi a vita solitaria: lasciò la casa paterna, si inoltrò
sull'Appennino e scelse per propria dimora un monte della valle del Bidente, in
Romagna. Qui costruì in tre anni una cappella dove pregare e, sotto, una
spelonca dove alloggiare, procurandosi il vitto col proprio lavoro. A vent'anni
passò dalla vita eremitica a quella cenobitica. Infatti un nobile ravennate,
Olibrio, pagano e posseduto dal demonio, fu condotto da lui perché lo
esorcizzasse. Olibrio fu liberato dallo spirito maligno, fu battezzato con
tutta la famiglia e, alla morte della moglie, si offerse insieme ai due figli
come compagno di vita monastica ad Ellero, donandogli i suoi averi e un piccolo
terreno da lavorare. Sorse così, verso il 496, il nucleo monastico di Galeata.
Ellero morì a ottantadue anni, il 15 maggio del 558
Tratto da
Nacque in Tuscia nel 476. A dodici
anni, nell'ascoltare la lettura del brano di Lc. 14, 26, decise di darsi alla
vita solitaria: lasciò la casa paterna, si inoltrò sull'Appennino, scese verso
l'Emilia e scelse per propria dimora, dietro indicazione di un angelo, un monte
della valle del Bidente a circa un miglio dal fiume. In quel luogo costruì in
tre anni una cappella dove pregare e, sotto di essa, una spelonca dove
alloggiare, procurandosi il vitto col proprio lavoro. A vent'anni passò dalla
vita eremitica a quella cenobitica: infatti un nobile ravennate, Olibrio,
pagano e posseduto dal demonio, fu condotto al santo perché lo esorcizzasse.
Olibrio fu liberato dallo spirito maligno, fu battezzato con tutta la sua
famiglia e, essendogli morta poco dopo la moglie, si offerse insieme coi due
figli come compagno di vita monastica ad Ellero: donò al santo i suoi averi e
tra l'altro un piccolo terreno poco lontano, da lavorare. Sorse così, verso il
496, il nucleo monastico di Galeata.
Altri miracoli compiuti dal santo e, aggiungiamo noi, lo smarrimento e lo sconcerto provocato dai grandiosi e terribili eventi di quegli anni (caduta dell'impero ed invasioni barbariche in Italia), gli recarono nuovi discepoli. La regola che egli fece osservare era semplicissima, non molto dissimile, a quanto pare, da quella di s. Pacomio (quale del resto troviamo seguita in tutti i monasteri occidentali prima di s. Benedetto): essa era basata sulla preghiera comune, sul digiuno, sul lavoro dei campi, sulla pratica della carità, per cui ogni monaco, ed Ellero primo fra tutti, lavava i piedi al proprio fratello e gli offriva ogni più umile servizio. Notevole il particolare che ogni monaco doveva far benedire dal "padre" (poi abate) tutti i frutti della terra per liberarli da ogni influsso demoniaco: il monaco Glicerio, infatti, che non si era attenuto a questa norma, ebbe la sorpresa di veder mutarsi dell'uva in un serpente. Teodorico stesso (493-526), che aveva fatto costruire un palazzo non lontano dal monastero di Ellero, quantunque in un primo tempo tentasse di molestare i monaci, in seguito, anche per essersi compiuti avvenimenti prodigiosi, si mostrò assai benevolo verso di loro e donò al monastero beni e terreni. Ellero morì all'età di ottantadue anni, il 15 maggio del 558.
Questa è la sua Vita, ma quale ne sarà il valore? Il suo autore, si dichiara discepolo del santo e testimone oculare degli ultimi avvenimenti della di lui vita. Tale asserzione merita fede? Sull'argomento il Lanzoni ha scritto un ottimo lavoro, purtroppo ancora manoscritto nella Biblioteca Comunale di Faenza. In esso l'insigne agiografo faentino fa un'ampia analisi dei dati stilistici, topografici, cronologici, onomastici e soprattutto di quelli offerti dalla descrizione di usi monastici, dall'andamento del racconto, ecc., e conclude che la Vita s. Hilari è veramente opera di un contemporaneo il quale fu testimone dell'ultima parte della vita del santo e per il resto attinse a tradizioni popolari e monastiche. Lo scrittore si prefisse lo scopo non solo di narrare la vita del fondatore, ma altresì di porre in inscritto le linee fondamentali della regola del monastero di Galeata come dimostrano le lunghe illustrazioni che ne fa. Naturalmente, nella sua redazione, l'autore seguì — forse un po' troppo semplicisticamente — gli schemi usuali dell'agiografia contemporanea, la quale nel santo vedeva spesso solo il taumaturgo, moltiplicava a iosa interventi ed apparizioni di angeli e di demoni, e poneva in bocca ai protagonisti lunghe preghiere o discorsi centonati da testi biblici, dalle Passiorles Martyrum e dalle Vitae Patrum. E così fece il nostro scrittore, componendo più un panegirico che una vera storia. In particolare la liberazione di Olibrio dall'ossessione demoniaca rassomiglia troppo a racconti del genere di cui è piena l'agiografia del tempo (cf. s. Abercio, s. Apollonia, s. Gordiano, s. Ciriaco diac., s. Epifanio di Cipro, s. Vito mart., s. Potito, le Gesta Marcelli) ecc.) per non apparirne un derivato. Anche l'incontro del santo con Teodorico è già trasfigurato dalla tradizione popolare che negli imponenti avanzi dell'acquedotto romano di Galeata, vedeva un ennesimo palazzo di Teodorico. Comunque, conclude il Lanzoni, "l'opera, nella penuria di documenti di quel tempo, è tutt'altro che disprezzabile".
Il culto a s. Ilario, o s. Ellero (secondo la dizione toscana) è molto diffuso in Toscana ed in Romagna: specialmente nelle diocesi di Arezzo, Sarsina, Forlì, Bertinoro, Faenza, Imola, Modigliana, Fiesole, Firenze e nell'abbazia di Farfa. Il santo è particolare protettore di Lugo; la sua festa è celebrata il 15 maggio.
Altri miracoli compiuti dal santo e, aggiungiamo noi, lo smarrimento e lo sconcerto provocato dai grandiosi e terribili eventi di quegli anni (caduta dell'impero ed invasioni barbariche in Italia), gli recarono nuovi discepoli. La regola che egli fece osservare era semplicissima, non molto dissimile, a quanto pare, da quella di s. Pacomio (quale del resto troviamo seguita in tutti i monasteri occidentali prima di s. Benedetto): essa era basata sulla preghiera comune, sul digiuno, sul lavoro dei campi, sulla pratica della carità, per cui ogni monaco, ed Ellero primo fra tutti, lavava i piedi al proprio fratello e gli offriva ogni più umile servizio. Notevole il particolare che ogni monaco doveva far benedire dal "padre" (poi abate) tutti i frutti della terra per liberarli da ogni influsso demoniaco: il monaco Glicerio, infatti, che non si era attenuto a questa norma, ebbe la sorpresa di veder mutarsi dell'uva in un serpente. Teodorico stesso (493-526), che aveva fatto costruire un palazzo non lontano dal monastero di Ellero, quantunque in un primo tempo tentasse di molestare i monaci, in seguito, anche per essersi compiuti avvenimenti prodigiosi, si mostrò assai benevolo verso di loro e donò al monastero beni e terreni. Ellero morì all'età di ottantadue anni, il 15 maggio del 558.
Questa è la sua Vita, ma quale ne sarà il valore? Il suo autore, si dichiara discepolo del santo e testimone oculare degli ultimi avvenimenti della di lui vita. Tale asserzione merita fede? Sull'argomento il Lanzoni ha scritto un ottimo lavoro, purtroppo ancora manoscritto nella Biblioteca Comunale di Faenza. In esso l'insigne agiografo faentino fa un'ampia analisi dei dati stilistici, topografici, cronologici, onomastici e soprattutto di quelli offerti dalla descrizione di usi monastici, dall'andamento del racconto, ecc., e conclude che la Vita s. Hilari è veramente opera di un contemporaneo il quale fu testimone dell'ultima parte della vita del santo e per il resto attinse a tradizioni popolari e monastiche. Lo scrittore si prefisse lo scopo non solo di narrare la vita del fondatore, ma altresì di porre in inscritto le linee fondamentali della regola del monastero di Galeata come dimostrano le lunghe illustrazioni che ne fa. Naturalmente, nella sua redazione, l'autore seguì — forse un po' troppo semplicisticamente — gli schemi usuali dell'agiografia contemporanea, la quale nel santo vedeva spesso solo il taumaturgo, moltiplicava a iosa interventi ed apparizioni di angeli e di demoni, e poneva in bocca ai protagonisti lunghe preghiere o discorsi centonati da testi biblici, dalle Passiorles Martyrum e dalle Vitae Patrum. E così fece il nostro scrittore, componendo più un panegirico che una vera storia. In particolare la liberazione di Olibrio dall'ossessione demoniaca rassomiglia troppo a racconti del genere di cui è piena l'agiografia del tempo (cf. s. Abercio, s. Apollonia, s. Gordiano, s. Ciriaco diac., s. Epifanio di Cipro, s. Vito mart., s. Potito, le Gesta Marcelli) ecc.) per non apparirne un derivato. Anche l'incontro del santo con Teodorico è già trasfigurato dalla tradizione popolare che negli imponenti avanzi dell'acquedotto romano di Galeata, vedeva un ennesimo palazzo di Teodorico. Comunque, conclude il Lanzoni, "l'opera, nella penuria di documenti di quel tempo, è tutt'altro che disprezzabile".
Il culto a s. Ilario, o s. Ellero (secondo la dizione toscana) è molto diffuso in Toscana ed in Romagna: specialmente nelle diocesi di Arezzo, Sarsina, Forlì, Bertinoro, Faenza, Imola, Modigliana, Fiesole, Firenze e nell'abbazia di Farfa. Il santo è particolare protettore di Lugo; la sua festa è celebrata il 15 maggio.
Tratto da
Sant’Ellero
Il nostro santo (noto anche come Ilario di Galeata), i cui resti sono conservati nella cripta dell’omonima abbazia, nacque in Tuscia nel 476 (Immagine 3). A dodici anni, nell’ascoltare la lettura di un brano del Vangelo (Luca 14, 26) decise di darsi alla vita solitaria: lasciò la casa paterna, si inoltrò sull’Appennino, scese verso l’Emilia e scelse per propria dimora, dietro indicazione di un angelo, un monte della valle del Bidente a circa un miglio dal fiume. In quel luogo costruì in tre anni una cappella dove pregare e, sotto di essa, una spelonca dove alloggiare, procurandosi il vitto col proprio lavoro. A vent’anni passò dalla vita eremitica a quella cenobitica: infatti un nobile ravennate, Olibrio, pagano e posseduto dal demonio, fu condotto al santo perché lo esorcizzasse. Olibrio fu liberato dallo spirito maligno, fu battezzato con tutta la sua famiglia e, essendogli morta poco dopo la moglie, si offerse insieme coi due figli come compagno di vita monastica ad Ellero: donò al santo i suoi averi e tra l’altro un piccolo terreno poco lontano, da lavorare. Sorse così, verso il 496, il nucleo monastico di Galeata. (Immagine 4)
Lo smarrimento provocato dalla caduta delle autorità romana e le conseguenti invasioni barbariche portarono al piccolo monastero nuovi discepoli a i quali Ellero diede come regola di vita comune delle semplici norme, molto simili alla regola di san Pacomio: essa era basata sulla preghiera comune, sul digiuno, sul lavoro dei campi, sulla pratica della carità. In particolare ogni monaco doveva far benedire dal “padre” (poi abate) tutti i frutti della terra per liberarli da ogni influsso demoniaco. Poco distante dal monastero il re Teodorico (493-526), si era fatto costruire un palazzo, da lui utilizzato nella stagione della caccia. In un primo tempo tra il re molestò i monaci, poi, a seguito di eventi prodigiosi, si mostrò assai benevolo verso di loro e donò al monastero beni e terreni. (Immagine 5) Ellero morì all’età di ottantadue anni, il 15 maggio del 558.
La storia dell’abbazia
I lavori per la costruzione dell’abbazia iniziarono nel 497. L’abbazia crebbe di influenza e di potere, tanto da diventare un nullius, una “quasi diocesi” a capo di circa quaranta parrocchie, estese in un territorio compreso tra Romagna e Toscana. Il monastero fu esente dalla giurisdizione vescovile fino al 1785, quando il Granduca Pietro Leopoldo la annesse alla Diocesi di Sansepolcro, il cui vescovo assunse il titolo di Abate di Sant’Ellero. In tempi recenti il suo territorio è confluito nella Diocesi di Forlì-Bertinoro.
La struttura esterna
Il complesso monastico è stato più volte ricostruito e restaurato: di esso rimane la chiesa romanica con la facciata in blocchi di arenaria (Immagine 6). La semplicità ed armonia della struttura lo inserisce nell’espressione dell’arte romanica, realizzata con una pietra locale dalle tonalità calde: la facciata è a capanna, la cui sommità è caratterizzata da un oculo cilindrico. La parte più importante e affascinante dell’esterno è comunque il portale, restaurato di recente, strombato verso l’interno, il cui arco a tutto sesto si regge su antichi capitelli scolpiti che recano i segni del tempo, ma ancora perfettamente leggibili: sulla destra due donne in forma di sirena bicaudata, simboleggianti la tentazione e il peccato; sulla sinistra due monaci cavalieri, dalle braccia incrociate reggenti una spada, a simboleggiare la preghiera e la lotta della chiesa a protezione della cristianità. (Immagine 7)
In facciata sono inoltre murati frammenti erratici di lastre, scolpiti con motivi geometrici tipicamente bizantini. Degni di nota, sempre all’esterno, sul fianco destro, i due piccoli portali in pietra, medievali, uno dei quali in corrispondenza della base del campanile. (Immagine 8)
Gli interni
L’interno è molto semplice, caratterizzato da un’aula unica rimaneggiata attorno al XVII secolo, a causa della edificazione di alcune cappelle laterali. (Immagine 9)
Originale è invece quasi tutto l’intero presbiterio. L’arco trionfale, a sesto leggermente ribassato, si regge su capitelli a mensola decorati da motivi piuttosto arcaici a palmette, pervenuti a noi danneggiati dall’opera di scalpellamento barocca, per permettere l’intera stuccatura delle pareti.
L’abside, dalla forma insolitamente squadrata, in cui si vedono ancora chiaramente i resti del finestrone centrale (oggi tamponato) a tutto sesto poggiante su mensole. Da notare la differenza nella muratura, dove troviamo pietra lavorata e intagliata nell’arco della finestra, e pietra più grezza, di dimensioni inferiori, frammista a ciottoli di fiume. Ciò non è da imputare a due fasi costruttive differenti, ma semplicemente a un “risparmio” da parte dei costruttori per gli elementi di minor impatto quali appunto la muratura interna, a vantaggio degli elementi principali, di spicco, quali facciata, archi e finestre.
Il presbiterio si presenta rialzato a motivo della cripta paleocristiana. (Immagine 10)
Il nostro santo (noto anche come Ilario di Galeata), i cui resti sono conservati nella cripta dell’omonima abbazia, nacque in Tuscia nel 476 (Immagine 3). A dodici anni, nell’ascoltare la lettura di un brano del Vangelo (Luca 14, 26) decise di darsi alla vita solitaria: lasciò la casa paterna, si inoltrò sull’Appennino, scese verso l’Emilia e scelse per propria dimora, dietro indicazione di un angelo, un monte della valle del Bidente a circa un miglio dal fiume. In quel luogo costruì in tre anni una cappella dove pregare e, sotto di essa, una spelonca dove alloggiare, procurandosi il vitto col proprio lavoro. A vent’anni passò dalla vita eremitica a quella cenobitica: infatti un nobile ravennate, Olibrio, pagano e posseduto dal demonio, fu condotto al santo perché lo esorcizzasse. Olibrio fu liberato dallo spirito maligno, fu battezzato con tutta la sua famiglia e, essendogli morta poco dopo la moglie, si offerse insieme coi due figli come compagno di vita monastica ad Ellero: donò al santo i suoi averi e tra l’altro un piccolo terreno poco lontano, da lavorare. Sorse così, verso il 496, il nucleo monastico di Galeata. (Immagine 4)
Lo smarrimento provocato dalla caduta delle autorità romana e le conseguenti invasioni barbariche portarono al piccolo monastero nuovi discepoli a i quali Ellero diede come regola di vita comune delle semplici norme, molto simili alla regola di san Pacomio: essa era basata sulla preghiera comune, sul digiuno, sul lavoro dei campi, sulla pratica della carità. In particolare ogni monaco doveva far benedire dal “padre” (poi abate) tutti i frutti della terra per liberarli da ogni influsso demoniaco. Poco distante dal monastero il re Teodorico (493-526), si era fatto costruire un palazzo, da lui utilizzato nella stagione della caccia. In un primo tempo tra il re molestò i monaci, poi, a seguito di eventi prodigiosi, si mostrò assai benevolo verso di loro e donò al monastero beni e terreni. (Immagine 5) Ellero morì all’età di ottantadue anni, il 15 maggio del 558.
La storia dell’abbazia
I lavori per la costruzione dell’abbazia iniziarono nel 497. L’abbazia crebbe di influenza e di potere, tanto da diventare un nullius, una “quasi diocesi” a capo di circa quaranta parrocchie, estese in un territorio compreso tra Romagna e Toscana. Il monastero fu esente dalla giurisdizione vescovile fino al 1785, quando il Granduca Pietro Leopoldo la annesse alla Diocesi di Sansepolcro, il cui vescovo assunse il titolo di Abate di Sant’Ellero. In tempi recenti il suo territorio è confluito nella Diocesi di Forlì-Bertinoro.
La struttura esterna
Il complesso monastico è stato più volte ricostruito e restaurato: di esso rimane la chiesa romanica con la facciata in blocchi di arenaria (Immagine 6). La semplicità ed armonia della struttura lo inserisce nell’espressione dell’arte romanica, realizzata con una pietra locale dalle tonalità calde: la facciata è a capanna, la cui sommità è caratterizzata da un oculo cilindrico. La parte più importante e affascinante dell’esterno è comunque il portale, restaurato di recente, strombato verso l’interno, il cui arco a tutto sesto si regge su antichi capitelli scolpiti che recano i segni del tempo, ma ancora perfettamente leggibili: sulla destra due donne in forma di sirena bicaudata, simboleggianti la tentazione e il peccato; sulla sinistra due monaci cavalieri, dalle braccia incrociate reggenti una spada, a simboleggiare la preghiera e la lotta della chiesa a protezione della cristianità. (Immagine 7)
In facciata sono inoltre murati frammenti erratici di lastre, scolpiti con motivi geometrici tipicamente bizantini. Degni di nota, sempre all’esterno, sul fianco destro, i due piccoli portali in pietra, medievali, uno dei quali in corrispondenza della base del campanile. (Immagine 8)
Gli interni
L’interno è molto semplice, caratterizzato da un’aula unica rimaneggiata attorno al XVII secolo, a causa della edificazione di alcune cappelle laterali. (Immagine 9)
Originale è invece quasi tutto l’intero presbiterio. L’arco trionfale, a sesto leggermente ribassato, si regge su capitelli a mensola decorati da motivi piuttosto arcaici a palmette, pervenuti a noi danneggiati dall’opera di scalpellamento barocca, per permettere l’intera stuccatura delle pareti.
L’abside, dalla forma insolitamente squadrata, in cui si vedono ancora chiaramente i resti del finestrone centrale (oggi tamponato) a tutto sesto poggiante su mensole. Da notare la differenza nella muratura, dove troviamo pietra lavorata e intagliata nell’arco della finestra, e pietra più grezza, di dimensioni inferiori, frammista a ciottoli di fiume. Ciò non è da imputare a due fasi costruttive differenti, ma semplicemente a un “risparmio” da parte dei costruttori per gli elementi di minor impatto quali appunto la muratura interna, a vantaggio degli elementi principali, di spicco, quali facciata, archi e finestre.
Il presbiterio si presenta rialzato a motivo della cripta paleocristiana. (Immagine 10)
La cripta
La cripta è la parte che riserva le maggiori sorprese. Si suppone che questo spazio sia il primitivo sacello del Santo, il luogo da cui poi si sviluppò la costruzione dell’intera Abbazia. Vi troviamo ora il sarcofago di Sant’Ellero, dell’VIII secolo, in marmo greco, scolpito a croci, foglie e fiori dal gusto bizantino ravennate. (Immagine 11) Dietro ad esso si apre appunto la cella, dove si pensa il Santo si ritirasse a pregare, larga circa un metro e alta poco più, ricoperta da una volta con un foro di 25 cm di diametro. (Immagine 12) Secondo un’antica tradizione, il fedele pone il capo nel buco intagliato nella roccia e si mette a sedere in un sedile di pietra per prevenire mal di schiena e mal di testa. A fianco dell’ingresso di destra della cella si trova un vano in cui è visibile un sedile in pietra, luogo di preghiera del Santo, dove i fedeli tradizionalmente si siedono per scongiurare il mal di schiena.
La cripta è la parte che riserva le maggiori sorprese. Si suppone che questo spazio sia il primitivo sacello del Santo, il luogo da cui poi si sviluppò la costruzione dell’intera Abbazia. Vi troviamo ora il sarcofago di Sant’Ellero, dell’VIII secolo, in marmo greco, scolpito a croci, foglie e fiori dal gusto bizantino ravennate. (Immagine 11) Dietro ad esso si apre appunto la cella, dove si pensa il Santo si ritirasse a pregare, larga circa un metro e alta poco più, ricoperta da una volta con un foro di 25 cm di diametro. (Immagine 12) Secondo un’antica tradizione, il fedele pone il capo nel buco intagliato nella roccia e si mette a sedere in un sedile di pietra per prevenire mal di schiena e mal di testa. A fianco dell’ingresso di destra della cella si trova un vano in cui è visibile un sedile in pietra, luogo di preghiera del Santo, dove i fedeli tradizionalmente si siedono per scongiurare il mal di schiena.
Santo Orso Vescovo di Fano (VII secolo
)
Sarebbe stato eletto
Vescovo sotto Papa Onorio I
(625-638). Orso era
già famoso in Città per le sue virtù
e penitenze, benché vivesse
in un eremo. La leggenda di S. Orso, natoa Fano, (ricordata nella Storia di
Fano dell’Amiani e nell’opera “Le Chiese d’Italia”del Cappelletti), racconta
che un contadino, lavorando con i buoi nel giorno dedicato alla festa di S.Orso
(15 maggio), fu rimproverato da un amico e rispondendo
a questo dicesse: “Se
egli è un orso, io sono un cane!”.
All’improvviso si
aprì il terreno e nella fossa precipitarono il contadino e i buoi. L ‘ Amiani
assicura che la voragine si vedeva ancora ai tempi suoi ed era detta la Fossa
di S. Orso. La denominazione esiste anche oggi per una zona di terreno vicino a
Fano.
S. Orso è invocato come quarto protettore della città
di Fano.
Tratto da
http://www.esseo.it/Orso.htm
Molto scarse sono le notizie relative a
questo vescovo di Fano. Uno storico locale avverte che: « Fra i Santi nostri
Vescovi, anzi fra tutti coloro che governarono la nostra Chiesa fino ad oggi,
non ve n'ha nessuno che abbia lasciato cosí scarse memorie di sé come il nostro
Protettore S. Orso » (C. Masetti,).Il documento piú antico, cui si rifanno gli storici locali, è .costituito dalla Vita s. Fortunati di Giovanni di Nonantola, del sec. XII, conservata in ms. nell'Archivio capitolate di Fano e riportata dai Bollandisti. In questa Vita di carattere panegiristico e leggendario, si parla del rinvenimento delle reliquie dei santi Fortunato, Eusebio e Orso, vescovi di Fano, avvenuta nell'a. 1113 durante i lavori di ricostruzione della nuova cattedrale, distrutta da un incendio nel 1111. Le reliquie, di cui si era perduta ogni notizia, sarebbero state riconosciute dal fatto che portavano la scritta Corpus Sancti Ursi; e in questa circostanza sarebbero state collocate nella chiesa cattedrale stessa sotto l'altare della cappella laterale tuttora dedicata ai ss. Orso e Eusebio, a destra dell'altare maggiore, presso la sagrestia, insieme alle reliquie di s. Eusebio.
Tutte le notizie cronologiche e biografiche sono fornite dagli storici locali posteriori (Nolfi, Amiani) e riprese dal Cappelletti e dall'Ughelli.
Secondo queste notizie, Orso fu eletto vescovo di Fano, chiamato dal clero della città, a succedere a s. Fortunato, nell'anno 620 ca., per la fama che si era acquistata come eremita predicatore del Vangelo. Nei tristi tempi in cui la Marca era invasa dai Longobardi; egli, come riferiscono gli stessi storici, si prodigò in opere di carità e di zelo. Sarebbe morto nel 625 secondo 1'Ughelli, nel 639 secondo 1'Amiani. Non è mancato, per altro, chi, come il Negusanti, pensò addirittura che s. Orso fosse vissuto prima di s. Fortunato.
La festa si celebra a Fano il 15 maggio. La Leggenda di S.Orso, accettata dagli storici locali, racconta come un contadino, lavorando coi buoi nel giorno della festa di S.Orso, fosse redarguito da un passante al quale il contadino avrebbe risposto: « Se lui è un orso, io sono un cane » e avrebbe continuato a lavorare; ma, improvvisamente, nel terreno si sarebbe aperta una voragine nella quale sarebbero precipitati il contadino e i suoi buoi; a Fano, nella via dedicata al santo, esiste ancora la denominazione della « fossa di S. Orso ».
Nella cappella dedicata a s. Eusebio e S.Orso la pala dell'altare di Ludovico Caracci, dipinta nel 1615, raffigura la Vergine, regina del cielo, con accanto i due santi vescovi Orso ed Eusebio; sovrasta la dedica: « B. Virgini Coelorum Reginae et SS. Urso et Eusebio dicatum ».
Bibliografia.:
V. Nolfi, Vite dei Quattro SS. Vescovi e Protettori di Fano, Venezia 1641, pp. 146-60;
Ughelli, I, pp. G36 sgg.;
P. M. Amiani, Memorie Istoriche della città di Fano, I, Fano 1751.;
C. Masettí, S. Eusebio, s. Fortunato, s. Orso, Vescovi di Fano, ibid. 1914;
L. Bartoccetti, I Vescovi di Fano, in Studia Picena, XIII (1938), p. 68;
C. Selvelli, Fanum Fortunae, Fano 1945; Vies des Saints, V, p. 296.
Vittorio Bartoccetti in: Enciclopedia dei Santi, Biblioteca santorum, Ed. Citta Nuova (1967) (Biblioteca Federiciana, Fano
Origine
del nome del quartiere Sant’Orso
Sta
in
http://www.esseo.it/origini%20del%20nome.htm
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