venerdì 18 maggio 2018

18 Maggio Santi italici ed italo greci


Santo Venanzio martire a Camerino (verso il 250)

Tratto da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/53900
Si rimane meravigliati di fronte all’enorme ed antichissimo culto tributato a questo santo martire, a Camerino come in tutta l’Italia Centrale. Come pure si rimane interdetti alla lettura dei martirî subiti; Venanzio giovanetto di quindici anni apparteneva ad una nobile famiglia di Camerino, fattosi cristiano, lasciò tutte le comodità in cui era vissuto ed andò a vivere presso il prete Porfirio.
Venne ricercato dalle autorità pagane della città e minacciato di tormenti e di morte se non fosse ritornato al culto degli dei, in esecuzione degli editti imperiali. Venanzio adolescente per età, ma dalla forte personalità per la fede ricevuta, si rifiuta e quindi viene sottoposto a flagellazioni, pene di fumo, fuoco, eculeo (cavalletto), ne esce sempre incolume e per questo raccoglie conversioni fra i pagani curiosi e gli stessi persecutori.
Resta imprigionato e viene ancora tormentato con i carboni accesi sul capo, gli vengono spezzati i denti e mandibola, gettato in un letamaio, Venanzio resiste ancora, allora viene dato in pasto a cinque leoni affamati, ma questi gli si accucciano inoffensivi ai suoi piedi.
Ancora incarcerato, può accogliere ammalati di ogni genere che gli fanno visita ammirati ed imploranti, ed egli ridona a loro la salute del corpo e dell’anima, convertendoli al cristianesimo. Ormai esasperato, il prefetto della città lo fa gettare dalle mura, ma ancora una volta lo ritrovano salvo, mentre canta le lodi a Dio.
Viene legato e trascinato attraverso le sterpaglie della campagna e anche in questa occasione opera un prodigio, facendo sgorgare una sorgente da uno scoglio per dissetare i soldati, operando così altre conversioni.
Alla fine, il 18 maggio del 251, sotto l’imperatore Decio o nel 253 sotto l’imperatore Valeriano, viene decapitato insieme ad altri dieci cristiani; mettendo così fine a questa galleria di orrori, che è difficile credere a tanta crudeltà, messa in atto da un popolo che dominava il mondo di allora, sì con la forza ma suscitando anche cultura, arte, diritto, civiltà. Ad ogni modo questa ‘passio’, riportata negli ‘Acta SS.’ già nel secolo XI è stata integrata nei secoli successivi, inserendo anche una fuga di Venanzio da Camerino, per sottrarsi ai persecutori attraverso la Valnerina a Rieti e di lì a Raiano (L’Aquila), dove gli è dedicata una chiesa.
Il martire venne sepolto fuori della Porta Orientale sul declivio Est del colle a 500 metri dalle mura, sul quale venne edificata una basilica (sec. V), che venne più volte riedificata nei secoli successivi, è tuttora sede dell’’Arca del santo’ meta di secolare devozione.
Nel corso della storia millenaria della città, il suo nome, il suo culto, è presente dappertutto; nelle formule d’invocazione e nelle litanie dei santi dei vescovi camerinesi del 1235 e 1242, libri liturgici locali dei sec. XIV e XV, sigilli e monete coniate con la figura del santo, nella chiesa eretta presso la sorgente che sgorgò miracolosamente, a cui sono collegate due vasche, nelle quali venivano immersi lebbrosi e ulcerosi per impetrare la guarigione.
Con la Signoria dei Da Varano, fin dalla fine del ‘200, s. Venanzio subentrò come protettore della città di Camerino al santo vescovo Ansovino (m. 868). Nel 1259 durante la distruzione e il saccheggio di Camerino da parte delle truppe di Manfredi, le reliquie di s. Venanzio furono asportate e depositate nel Castel dell’Ovo a Napoli; furono restituite alla devozione della città nel 1269 per ordine del papa Clemente IV.
La vicenda terrena dell’adolescente Venanzio, suscitò una fioritura letteraria, drammi, oratori musicali, poemi, poemetti e carmi latini ed italiani. Solenni manifestazioni religiose con toni oggi diremmo di folklore, sin dal 1200 si svolgevano a Camerino il 18 maggio, data della sua festa e nei giorni vicini, coinvolgendo tutta la città con un palio particolare, sfilata delle autorità e delle corporazioni, giostra della Quintana e altre corse, fiere, falò, processioni con la statua d’argento.
In campo artistico, sono innumerevoli le opere d’arte che lo raffigurano in affreschi, stampe, monete, sigilli, incisioni, medaglie, ricami, arazzi, statue, polittici, ecc. a cui si dedicarono tutta una serie di artisti dal Medioevo ai giorni nostri.
La bibliografia legata al santo martire, al suo culto e alle manifestazioni celebrative, è enorme, come pochissimi altri santi.

TRATTO da
http://www.ilsussidiario.net/News/Cronaca/2017/5/18/SAN-VENANZIO-Santo-del-giorno-il-18-maggio-si-celebra-san-Venanzio-da-Camerino/764536/

Nella giornata del 18 maggio la Chiesa Cristiana ricorda e celebra l'importante figura di san Venanzio da Camerino, una delle figure più importanti della storia del cristianesimo. Per quanto riguarda la sua biografia non si sa molto: nacque in un anno imprecisato da nobile famiglia romana e fin dalla più tenera età emerse in lui la fortissima fede cristiana. Nonostante l'ostilità della famiglia, che era una delle più in vista di Camerino in epoca romana, il giovane non si lasciò scoraggiare, tanto da decidere, arrivato a nemmeno vent'anni, di recarsi a vivere da Porfirio, altro esponente della cristianità di Camerino.
Per la sua appartenenza al cristianesimo venne alla fine imprigionato e sottoposto a torture indicibili, le quali però non fecero mai venire meno la sua incrollabile fede, che nel periodo trascorso da uomo libero non aveva mai nascosto e che aveva rafforzato attraverso una vita avulsa dal lusso e dagli sprechi.
Alla fine, si dice per ordine dello stesso imperatore Decio, venne decapitato in un anno compreso tra il 250 e il 252 per non aver rispettato l'editto dell'Imperatore, che imponeva a tutti coloro che abitavano nel territorio dell'Impero Romano di non professare un culto diverso da quello pagano accettato dalle autorità romane. Le sue spoglie mortali vennero lasciate a Camerino e oggi riposano in un luogo di culto costruito proprio per ricordarlo.
Tra i vari miracoli a lui accreditati ve ne sono alcuni accaduti nel periodo in cui venne torturato per la sua fede cristiana, come ad esempio quello di aver ammansito dei leoni affamati cui era stato dato in pasto o quello di sopravvivere dopo essere stato gettato dalle mura cittadine. 
È riconosciuto come patrono di diverse realtà urbane, tra cui le più importanti sono senza ombra di dubbio Raiano e San Venanzio. Nella prima cittadina si trova un affascinante eremo che è visitato da pellegrini che arrivano da ogni parte d'Italia, mentre nel paesino di San Venanzio in provincia di Terni si svolge ogni anno, in occasione del 18 maggio, una processione.
Molto importante è anche una messa che si svolge all'aperto, nei pressi di una roccia da cui si racconta che il Santo abbia fatto sgorgare dell'acqua per i cavalli dei soldati romani che lo stavano portando a morire per decapitazione. 

Leggere anche
http://www.comune.raiano.aq.it/c066077/zf/index.php/servizi-aggiuntivi/index/index/idtesto/37


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Vita di s. Venanzio martire descritta da Matteo Pascucci




tratto da

http://www.diocesisulmona-valva.it/index.php?option=com_content&view=article&id=174:raiano-san-venanzio&catid=52

Nei pressi del paese, nella suggestione di una natura qui davvero incontaminata, la Valle dell’Aterno crea una gola stretta e selvaggia che separa, sui due versanti, i monti Mandra Murata e Mentino da un lato, e le Spugne e monte Urano dall’altro. Incastrato tra le due sponde rocciose del fiume sorge, quasi sospeso su di un ardito ponte ad arco, l’eremo di San Venanzio.
La chiesa, meta ancora oggi di frequenti pellegrinaggi, è dedicata al giovane Venanzio; egli si convertì al Cristianesimo e decise di ritirarsi in queste remote lande con il maestro Porfirio, ma nel 259 fu arrestato e martirizzato a Camerino, sua città d’origine, dopo aver appreso della morte del padre.
Al culto di questo Santo martire, ancora oggi molto sentito dai fedeli che qui accorrono un po’ da tutto l’Abruzzo, si lega un’antica tradizione che vuole riconoscere in alcuni segni impressi nella roccia le impronte stesse del Santo.
In una perfetta simbiosi tra la religiosità popolare ed il contesto naturale, la festa di San Venanzio, celebrata il 18 maggio, si radica nei cosiddetti patronati delle pietre, dell’acqua e della vegetazione. Ripercorrendo le orme della vita di San Venanzio e ripetendo un tipico rituale detto della pietra, i pellegrini si sdraiano su quella che si crede sia l’impronta del corpo lasciata dal Santo, detta letto di San Venanzio, e prendono poi posto sul sedile di Santa Rina per ottenere la guarigione
da vari mali fisici. Arrampicandosi poi sulla parete rocciosa che si erge sulla sponda opposta, essi raggiungono la grotta della Crocetta nella quale si crede che Venanzio si ritirasse in solitudine. Sebbene la più antica notizia di una chiesa dedicata al Santo risalga ad una bolla di papa Adriano IV del 1156, nel circondario di Raiano il culto del martire doveva essere vivo e sentito già secoli prima, sorto in parallelo a quello per altre vittime delle persecuzioni contro i primi Cristiani.
In passato qualche studiosi aveva avanzato l’ipotesi che l’eremo fosse stato costruito attorno al XII secolo, ma la mancanza di resti medievali e l’analisi della configurazione del luogo sacro lascia invece supporre che sia nato nel Quattrocento o forse nel secolo successivo. Se la più antica traccia databile con certezza è infatti fornita dagli affreschi che risalgono al XV e XVI secolo, tra cui spicca la raffigurazione degli Evangelisti, la chiesa è stata snaturata da vari restauri e rifacimenti del Seicento, come svelano il soffitto e i tre altari, uno maggiore e due laterali.
Usciti dalla chiesa si segue il camminamento che la fiancheggia e, passando per le celle anticamente abitate dagli eremiti, si arriva ad una grotta detta cappella delle Sette Marie, dove si conserva una pregevole opera d’arte che raffigura il Compianto sul Cristo morto, per la quale è stata individuata la data del 1510. Se si è appassionati di arte, lo si può confrontare con un opera simile che si trova nella vicina Pratola Peligna, nell’Oratorio della Madonna delle Grazie. Essa è più recente, risale infatti al 1540, ed è composta da ben 17 figure in terracotta che, secondo gli storici dell’arte, sarebbero opera dello scultore Gian Francesco Gagliardelli da Città Sant’Angelo.
La loggia esterna si affaccia sul fiume e da qui parte la Scala Santa, scavata nella roccia, che porta fino all’acqua del fiume e viene percorsa in salita dai pellegrini. Questi gesti rituali sono legati all’evocazione della discesa agli inferi, dai quali si risale purificati, ma anche alle pratiche religiose per mezzo delle quali i pellegrini invocano la guarigione dai loro mali attraverso i riti con la pietra (detta litoterapia) e l’acqua. Un esempio è l’immersione degli arti doloranti o malati nelle acque del fiume Aterno e la benedizione dei malati con l’acqua di San Venanzio, alla quale si riconoscono poteri curativi.
Il territorio di Raiano fu scelto dall’uomo per abitarvi sin dal periodo italico, come testimoniano i vari ritrovamenti archeologici e in particolare quelli fatti in località Castellone, ma fu in epoca romana che qui sorse la città di Radianum. Le origini della moderna Raiano sembrano essere medievali e risalgono alla fine del IX secolo, come si scopre dal Chronicon Casauriense, lacronaca dell’abbazia di San Clemente a Casauria. Nel XI secolo Enrico III confermava il possesso del castello di Raiano all’abbazia di San Giovanni in Venere, e questo periodo risale la chiesa di Sant’Antonio Abate, costruita nel 1004.
Il castrum di Raiano è raffigurato simbolicamente in una delle formelle del portone in bronzo di San Clemente, risalente al XII secolo, e fu abbandonato nel corso del Quattrocento in seguito ad un rovinoso terremoto. Gli abitanti lo ricostruirono più a valle, dove si trova oggi. Uscendo da Raiano può essere interessante visitare il piccolo borgo di Vittorito, minuscolo ma ricco di interessanti elementi di arte e architettura. Si incontrerà prima la chiesa parrocchiale, dedicata a Santa Maria del Borgo e costruita ai primi del XV secolo, sotto il regno di Giovanna II Durazzo, anche se i primi documenti che ne parlano sono quelli del 1499.
Sulla facciata laterale ci sono due grandi affreschi con la Madonna col Bambino e San Cristoforo, mentreall’interno sono da vedere vari altri affreschi tra cui spicca un San Nicola del Quattrocento e altre figure di Santi con la data del 1538. Alla fine del borgo sorge la chiesa di San Michele Arcangelo, dove si può ammirare un ciborio interamente affrescato nel primo Quattrocento con gli Evangelisti dipinti nella volta; varie figure di Santi e un’Annunciazione spiccano invece sulle pareti esterne.
Giovanni Lattanzi
fonte: www.abruzzocultura.it


VITA DI SAN VENANZIO MARTIRE Secondo la legenda, San Venanzio nacque a Camerino nell'anno 238 da Soprino, senatore, e da Benedetta o Deodata che morì poco dopo aver dato alla luce il figlio. Entrambi erano cristiani e cristianamente fu educato il fanciullo. Sua guida spirituale e maestro fu il sacerdote Porfirio che Venanzio seguì, per volere paterno, quando su di loro si profilava il pericolo della persecuzione. Maestro ed alunno lasciarono allora Camerino e vagarono senza meta precisa. Finalmente pervennero presso il Fiume Aterno, dove "osservarono due altissimi colli [...] che dopo aver ristrette le acque tra fauci anguste, danno adito ad una lunga valle rivolta verso oriente [...]. Determinarono quivi i novelli anacoreti fermarsi per esercizi d'orazione". erano arrivati nelle gole che, poi, saranno dette di san Venanzio.

Eremo di San Venanzio

Sta in



Santo Felice Vescovo di Spello  martire sotto Massimiano (tra il 286  e il 305)
Nel Martirologio di Usuardo del sec. IX, al 18 maggio si trova questo elogio: "Ipso die sancti Felicis episcopi qui apud Spellantensem urbem sub Maximiano imperatore palmam martyrii adeptus est"

TRATTO da
http://www.visitgianoumbria.it/abbazia-di-san-felice/il-martirio-di-san-felice-una-strana-storia/
San Felice, patrono di Giano dell’UmbriA e di Massa Martana, fu vescovo tra la fine del III e l’inizio del IV sec. d.c.  di Vicus ad Martis. Complicata la questione agiografica che lo fa vescovo di più città…Massa Martana, Giano, Spello, come dubbioso il luogo e la data della sua morte. Diverse inoltre sono le versioni relative al suo martirio avvenuto ad opera del prefetto Tarquinio presumibilmente tra il 304 e il 306 d.C. Si narra che, per intervento divino, stentasse a morire nonostante le terribili torture alle quali fu sottoposto: fu immerso in una pentola con pece bollente, fu messo sui carboni ardenti come San Lorenzo, alla fine fu decapitato. Numerosi inoltre si dice fossero gli eventi straordinari che si scatenarono nel momento della sua morte: l’improvviso offuscamento del cielo con tuoni e fulmini, un terremoto e l’apparizione di angeli. Dopo la sua morte, per dare degna sepoltura a Felice,  i cristiani del Vicus ad Martis portarono via di nascosto il corpo e costruirono, in un bosco sacro di lecci dove il santo si ritirava in preghiera, una cappella in cui collocarne il sarcofago. Sulla tomba di Felice, nel X secolo, venne costruita la chiesa romanica in pietra locale, per accogliere i pellegrini che si recavano a pregare il Santo.  Secondo una leggenda i buoi che trainavano il carro che trasportava il corpo del martire dal Vicus ad Martis verso il territorio di Giano , giunti  su una piccola collina si inginocchiarono per mostrare il luogo dove doveva sorgere la chiesa. Secondo un’altra versione, i buoi si sarebbero invece imbizzarriti, facendo cadere il sarcofago del santo nel luogo dove oggi sorge la chiesa. Oggetto di grande devozione, il corpo di Felice era ed è conservato in un sarcofago in travertino locale appoggiato su 4 colonnine, decorato su un lato con elementi di difficile interpretazione; la sua tomba era famosa per avere poteri taumaturgici: le persone che soffrivano di male alle ossa e i bambini che avevano problemi agli arti e agli occhi venivano infatti miracolosamente guariti al contatto con la tomba. Il malato, come raccontano le immagini all’interno de chiostro dell’Abbazia, doveva passare gattoni sotto il sarcofago di San Felice, sfiorandolo con il corpo, per uscirne così guarito da molti mali.  Gli abitanti di Giano, avevano l’abitudine di onorare San Felice anche durante la processione della Madonna del Fosco…passavano dietro al sarcofago in segno di omaggio e poi proseguivano per il Santuario.

Tratto da
https://it.wikipedia.org/wiki/Felice_di_Massa_Martana
Nacque e crebbe, secondo la tradizione trascritta dallo Jacobilli, a Massa Martana, anticamente Vicus ad Martis Tudertium sotto l'egida del vescovo Ponziano di Todi, che lo battezzò[1]. Qui, per merito delle sue virtù, fu eletto vescovo e confermato da papa Caio nel 295 (l'esistenza di tale diocesi, che pur sopravvive come sede titolare, è però messa in dubbio da vari autori[2][3]); fu fervente predicatore e operò numerose conversioni e ordinazioni, soprattutto nella città di Spello[4].
Nel 303 avrebbe preso parte al concilio di Sinuessa  oggi ritenuto unanimemente un falso storico.[4][5]
Visse sotto la diarchia di Diocleziano e Massimiano, che, tramite il prefetto Tarquinio, perseguitarono Felice; questi, avendo rifiutato di abiurare la propria fede fu martirizzato per mezzo della decapitazione [6], dopo essere miracolosamente scampato al supplizio della graticola[7].
Il suo corpo nottetempo fu celato dai fedeli e discepoli (fra i quali Faustino di Todi) e posto in un sepolcro.
·  ^ San Felice di Spalato, su santiebeati.it. URL consultato il 19 settembre 2013.
·  ^ Lanzoni, p. 507
·  ^ a b Jacobilli, p. 370
·  ^ Angelo Di Berardino, Marcellino, santo, Enciclopedia dei Papi, 2000.
·  ^ Massa Martana festeggia il Santo patrono (PDF), su webdiocesi.chiesacattolica.it. URL consultato il 19 settembre 2013.
·  ^ San Felice, su comune.massamartana.pg.it. URL consultato il 19 settembre 2013.

Controversie sull'identità

Alcuni autori, come il Lanzoni, il Burchi e il Delehaye ritengono che il Santo sia uno "sdoppiamento" dell'omonimo san Felice di Spalato, favorito dall'assonanza del nome latino del luogo di provenienza (Hispellum, Spello e Spalatum, Spalato), anche perché i due santi condividono la stessa data del martirio. Eccetto le indicazioni topografiche, la passio di Felice di Martana è identica a quella di san Felice di Spello. Inoltre, sempre a causa dell'assonanza tra Spalatensis e Spoletensis, Felice venne inserito anche tra i santi della diocesi di Spoleto.[9]
·  ^ Voce San Felice di Spalato in Santi e Beati.






Santo Teodoro I  Papa e Patriarca di Roma (642-649) che confessa la retta fede contro l’eresia monotelita  -Greco di nascita, era oriundo di Gerusalemme. Condannò diversi eretici monoteliti, e fra questi Pirro, patriarca di Costantinopoli, firmandone la condann

Tratto da (con annessa bibliografia)
http://www.treccani.it/enciclopedia/teodoro-i_%28Enciclopedia-dei-Papi%29/
Nonostante la scarsezza di notizie relative alle sue origini, si ritiene che T., che le fonti danno come figlio di un vescovo, giunto a Roma da Gerusalemme, dove era nato, forse per sfuggire all'invasione degli Arabi, impadronitisi di Mesopotamia, Siria e Palestina, provenisse da quegli ambienti gerosolimitani vicini al patriarca Sofronio (morto fra il 638 e il 639). Costui, in precedenza, si era distinto nel corso dell'acceso dibattito cristologico relativo alla volontà di Cristo, assumendo di fatto il ruolo di guida dell'opposizione al monotelismo propugnato dal patriarcato costantinopolitano e ufficialmente riconosciuto dall'imperatore con la pubblicazione dell'Ecthèsis (638). Sebbene le fonti non permettano una puntuale ricostruzione dell'attività svolta a Roma da T. anteriormente alla sua elezione, è comunque lecito ipotizzare che egli sia stato particolarmente vicino alle comunità religiose di profughi orientali che in quegli anni si andavano insediando nell'Urbe, e che si adoperarono per coinvolgere il pontefice ed il clero romano nella lotta contro le deviazioni teologiche di Costantinopoli, le quali, a partire dal patriarcato di Pirro (638-641), si erano andate sempre più configurando in senso eterodosso. Eletto subito dopo la morte di papa Giovanni IV (12 ottobre 642), fu consacrato il 24 novembre dello stesso anno. Il brevissimo lasso di tempo intercorso fra i due eventi, induce a ipotizzare che la conferma della sua elezione non sia stata emanata direttamente dall'imperatore, ma dall'esarca di Ravenna. Le vicende relative al suo pontificato sono ripercorribili attraverso un cospicuo numero di testimonianze narrative e documentarie in lingua greca e latina, fra le quali occorre principalmente ricordare gli atti del sinodo lateranense svoltosi nel 649 durante il pontificato del suo successore, Martino I, e la biografia contenuta nel Liber pontificalis, anche se alla luce delle acquisizioni emerse dagli ultimi studi (quali, fra l'altro, l'edizione degli atti del sinodo del 649 curata dal Riedinger o le osservazioni fatte dal Capitani a proposito del Liber pontificalis), tali fonti devono essere utilizzate con estrema cautela, in quanto frutto di una lettura a posteriori dei fatti narrati. Quel che è comunque certo è che l'elezione di T. avvenne in una situazione di latente conflitto fra Roma e Bisanzio, ulteriormente aggravata dalla concomitante crisi politica e militare dell'Impero e dalla minore età del nuovo sovrano bizantino, Costante II (641-668), e caratterizzata nell'Urbe dalla progressiva presa di coscienza delle più profonde implicazioni eterodosse delle tesi postulanti l'esistenza in Cristo di un'unica volontà. Tale atteggiamento aveva finito per favorire l'aperta condanna del monotelismo, formulata nel corso del sinodo romano riunito da papa Giovanni IV. Ad essa fece ben presto seguito l'Apologia pro Honorio papa indirizzata all'imperatore, volta a sostenere l'ortodossia delle posizioni assunte anteriormente alla pubblicazione dell'Ecthèsis da Onorio, addotte dalla propaganda monotelita a sostegno delle proprie tesi. In tale contesto, l'elezione del greco T., esponente dell'opposizione orientale al monotelismo, veniva pertanto a configurarsi come una sorta di enunciazione programmatica da parte del clero romano, ormai attestato su una posizione di fermezza nei confronti di Costantinopoli. Per quanto è dato di sapere, uno dei primi atti di governo compiuti da T. sembra appunto configurarsi come una presa di posizione nei confronti del monotelismo. L'occasione gli venne fornita dalla deposizione del patriarca costantinopolitano Pirro, che, ormai inviso alla popolazione, negli ultimi mesi del 641 aveva finito per rinunciare alla sua carica, ritirandosi a vita monastica in un cenobio africano. Nell'estate del 642, il nuovo patriarca, Paolo II, ed i vescovi responsabili della sua elezione notificarono l'accaduto a Giovanni IV, al quale venne contestualmente indirizzata anche la risposta di Costante II relativa al testo della succitata Apologia. Le missive furono tuttavia ricevute da T., il quale ebbe motivo di dubitare dell'ortodossia di Paolo, che peraltro nella sua lettera non affrontava la questione relativa al dissidio cristologico che da tempo opponeva Roma e Bisanzio. Pertanto, rispondendo distintamente sia al patriarca che ai vescovi, T. pose come condizione necessaria al riconoscimento di Paolo la convocazione di un sinodo finalizzato a formalizzare la deposizione di Pirro e a condannare le tesi sostenute da quest'ultimo. Già in precedenza il pontefice, rispondendo all'imperatore (fine 642-maggio 643), lo aveva sollecitato a difendere l'ortodossia mediante la revoca dell'Ecthèsis, e ad evitare che l'irregolare allontanamento di Pirro, non corroborato da una deposizione formulata secondo i canoni, desse luogo ad uno scisma. A tal fine, nell'eventuale impossibilità di convocare un sinodo a Costantinopoli, T. si era mostrato disponibile ad ospitarlo in Roma. Stando a quanto è possibile ricavare dalle fonti, pare che Paolo non abbia fornito una pronta risposta alle richieste di T., evitando per un certo tempo di chiarire la sua posizione, mentre, come attestato da un passo degli Annali di Eutichio, sembra certo che Costante II abbia replicato all'invito di T. mediante l'invio di una sua missiva; ma purtroppo i contenuti di questa lettera sono del tutto sconosciuti. Parallelamente a questi avvenimenti, con ogni probabilità ascrivibili alla prima metà del 643, la vita dell'Urbe, stando a quanto esclusivamente riferito dal Liber pontificalis, fu turbata dalla rivolta del "chartularius" Maurizio . Comandante delle truppe bizantine di stanza a Roma, e peraltro già responsabile dell'esproprio del tesoro lateranense avvenuto durante il breve pontificato di Severino, Maurizio, dopo aver convocato in città le milizie adibite alla difesa dei "castra" dell'intero Ducato romano, le riunì in assemblea unitamente ai reparti acquartierati in città, accusando l'esarca ravennate Isacio di alto tradimento, dal momento che, a suo dire, stava tramando per impadronirsi della corona imperiale. Il "chartularius", arringando abilmente le truppe, riuscì a far sì che tutti i soldati gli prestassero giuramento, riconoscendolo come supremo capo militare in luogo dell'esarca. L'insurrezione di Maurizio, pur ottenendo qualche consenso nel laicato della città, lasciò del tutto indifferente il clero e il vescovo di Roma, i quali, in ragione del passato atteggiamento di Maurizio, dovevano guardare con estrema diffidenza al tentativo di rivolta contro Bisanzio, che peraltro venne ben presto vanificato dall'arrivo di un corpo di spedizione inviato da Ravenna. Infatti, non appena le truppe comandate dal "sacellarius" Dono fecero la propria comparsa sotto le mura di Roma, le milizie ed i notabili della città abbandonarono Maurizio al suo destino. Inutilmente rifugiatosi nella chiesa di S. Maria ad Praesepe, egli venne arrestato insieme ai suoi principali sostenitori ed inviato sotto scorta a Ravenna. Ma, giunto nei pressi dell'attuale Cervia, venne decapitato per ordine dell'esarca, e la sua testa fu esposta nel circo di Ravenna. Miglior sorte ebbero invece gli altri prigionieri, i quali, rinchiusi in carcere, vennero liberati in conseguenza dell'improvvisa morte di Isacio, caduto presumibilmente in battaglia nel novembre del 643. Nel maggio del 645, il patriarca Paolo, forse ripetutamente sollecitato da T. tramite i suoi apocrisiari residenti a Costantinopoli, palesò finalmente la sua posizione mediante una lettera sinodale (che tuttavia è nota solo attraverso gli atti del sinodo del 649), con la quale, pur auspicando la concordia fra la nuova e l'antica Roma, dichiarava di professare il monotelismo, richiamandosi, pur senza farne menzione, al testo dell'Ecthèsis e alle precedenti formulazioni del patriarca Sergio e di papa Onorio. Dinanzi a tale pronunciamento, la risposta dell'opposizione antimonotelita e della sua nuova guida teologica, Massimo il Confessore (ca. 580-662), non si fece attendere. Già primo segretario dell'imperatore Eraclio, Massimo, ritiratosi tra il 613 e il 614 nel monastero di Crisopoli, per sfuggire alle invasioni persiane ed arabe si era rifugiato in Africa verso il 626, dove, dopo la morte di Sofronio, aveva presto cominciato a reggere le fila del partito antimonotelita, stringendo anche una tacita alleanza con l'esarca del Nordafrica, Gregorio, da tempo intenzionato a rendere i territori da lui amministrati indipendenti dal potere centrale di Bisanzio. Nel luglio 645 (e quindi a soli due mesi dal pronunciamento di Paolo II), Gregorio, forse temendo che la presenza di Pirro nell'Africa settentrionale bizantina potesse dare nuove energie all'ormai esigua fazione monotelita di quella regione, o, piuttosto, contando di coinvolgere nell'opposizione politico-religiosa a Bisanzio anche questo eminente personaggio, ritenne opportuno organizzare - presumibilmente su suggerimento di Massimo - una disputa teologica fra quest'ultimo e l'ex patriarca. Al termine del dibattito, svoltosi pubblicamente a Cartagine in presenza dell'esarca e di numerosi vescovi, Pirro, che forse in cuor suo mirava ad essere in qualche modo posto nuovamente a capo della Chiesa costantinopolitana, si dichiarò convinto dalle argomentazioni di Massimo. Pertanto, abiurate le tesi monotelite, proclamò di volersi recare a Roma per consegnare a papa T. un libello relativo allo svolgimento della disputa, impegnandosi peraltro a sconfessare le decisioni sinodali da lui precedentemente propugnate e sottoscritte. Il desiderio espresso dall'ex patriarca, che alcuni attribuiscono all'abile regia di Massimo, forse desideroso di utilizzare Pirro ai fini di un ulteriore coinvolgimento di Roma nell'opposizione a Costantinopoli, fu comunque prontamente recepito e accettato da T., che si adoperò per accogliere il suo antico avversario nel migliore dei modi. Giunto infatti ben presto nell'Urbe in compagnia di Massimo, Pirro, dopo aver pubblicamente consegnato al pontefice il libello di abiura, fu invitato a prendere posto su un seggio episcopale accanto a T., che, stando alla narrazione del Liber pontificalis, lo accolse "ut sacerdotem regiae civitatis" (Liber pontificalis [I, p. 332]). Se la ritrattazione di un ex patriarca di Costantinopoli dinanzi al vescovo di Roma aveva certamente corroborato il prestigio della Sede romana, quest'ultima fu ulteriormente rafforzata anche dalle posizioni assunte nel 646 dai vescovi nordafricani. Come si può infatti evincere da alcune lettere tramandate dagli atti del sinodo lateranense del 649 (che tuttavia, stando a quanto indicato dal Riedinger, sarebbero state compilate successivamente a Roma), costoro, al termine dei sinodi provinciali di Numidia, Bizacena e Mauritania, si espressero contro le tesi a suo tempo enunciate nell'Ecthèsis, riconoscendo al vescovo di Roma il ruolo di supremo garante della fede e pregandolo di intervenire presso il patriarca costantinopolitano per farlo desistere dalle sue posizioni eterodosse. In tale contesto ebbe inizio anche l'aperta ribellione di Gregorio contro l'imperatore, la quale, seppur al momento limitata ai territori dell'Africa mediterranea nordoccidentale, avrebbe potuto potenzialmente estendersi anche all'Italia qualora Gregorio avesse raggiunto una qualche intesa con le classi dirigenti di Roma. Tuttavia, l'autonomia politica da Bisanzio dei territori africani, che forse nelle intenzioni di T. avrebbe dovuto rappresentare un valido appoggio nell'eventualità non auspicata di una definitiva rottura con Costantinopoli, non ebbe lunga durata, dal momento che nel 647 l'esarca fu ucciso in battaglia dagli Arabi, ormai in procinto di invadere quelle regioni. Tale evento, che di fatto in parte vanificava le strategie sino ad allora presumibilmente adottate dal pontefice e da Massimo il Confessore, non fu senza conseguenze. Infatti, forse temendo l'approssimarsi della reazione bizantina, Pirro, che probabilmente contava sull'appoggio di Gregorio per rientrare in possesso della sede patriarcale di Costantinopoli, fuggì da Roma, rifugiandosi a Ravenna presso l'esarca Platone, dove ben presto rinnegò l'abiura. Rientrato quindi a Costantinopoli, tentò di farsi riabilitare affermando di essere stato costretto ad abiurare con la forza. Nonostante il mutato quadro politico, peraltro aggravato dall'inaspettato voltafaccia di Pirro, T., che intanto si adoperava per ristabilire l'ortodossia in Oriente, affidando a Stefano di Dor, nominato vicario apostolico in Palestina, il compito di ricondurre i vescovi di quella regione sulle posizioni teologiche di Roma, decise di non desistere dalla sua posizione. Infatti, alla fuga dell'ex patriarca fece subito seguito la convocazione di un sinodo romano (646-647), nel corso del quale il pontefice procedette alla formale deposizione di Pirro, che venne peraltro colpito dall'anatema. Stando alla narrazione del Liber pontificalis e ad un passo degli atti sinodali del 649, la condanna di Pirro, che secondo quanto riferito da Teofane (p. 331), sarebbe stata sottoscritta da T. con inchiostro mescolato al vino consacrato, sarebbe stata seguita anche da quella a carico del patriarca costantinopolitano Paolo II, formulata nel corso di un ulteriore sinodo romano. Tuttavia, questa circostanza, che peraltro non trova conferme nelle altre fonti, è considerata da parte di alcuni storici alquanto dubbia. Infatti tale condanna, che avrebbe necessariamente comportato la definitiva rottura con Costantinopoli, mal si accorderebbe con la successiva lettera (ascrivibile al periodo compreso tra il 648 e il maggio 649) con la quale il pontefice ingiunse agli apocrisiari di stanza a Costantinopoli di ammonire vigorosamente Paolo, affinché desistesse dalle sue posizioni eterodosse. Tuttavia, la missione assegnata ai delegati romani, forse configurabile come un estremo tentativo di T. per ricomporre in qualche modo il dissidio teologico, non diede i frutti sperati. Dinanzi al progressivo inasprirsi dei rapporti fra Roma e Bisanzio, Costante II, desideroso di giungere ad un compromesso fra le due fazioni, con un editto emanato nel 648 (il cosiddetto Typos) proclamò il definitivo ritiro dell'Echtèsis, vietando però, sotto minaccia di punizione, ogni ulteriore discussione sulla questione delle volontà di Cristo. Il cauto pronunciamento imperiale, del quale il successivo sinodo lateranense avrebbe tuttavia provveduto ad enfatizzare le valenze eterodosse, non valse comunque a placare gli animi. Infatti i delegati romani vennero ben presto fatti oggetto di vere e proprie azioni intimidatrici (quale l'abbattimento dell'altare della loro residenza costantinopolitana, il palazzo di Placidia), alle quali fece seguito l'arresto, e, nel caso dell'apocrisiario Anastasio, l'esilio a Trebisonda, con l'accusa di aver contravvenuto con le proprie proteste alle disposizioni enunciate nell'editto. Ad ogni modo, nei primi mesi del 649, Costante II decise di inviare a Roma una delegazione presumibilmente incaricata di notificare al pontefice il testo del Typos e, su tale base, di sollecitare l'unione delle Chiese di Roma e Costantinopoli. Tuttavia, prima ancora che gli inviati dell'imperatore giungessero a Roma, T. morì, e il 14 maggio del 649 venne sepolto in S. Pietro "in porticu pontificum", come riferisce P. Mallio che riporta anche i primi versi del suo epitaffio (Inscriptiones Christianae, II, nr. 49, p. 211). Il Liber pontificalis attribuisce a T. la costruzione della basilica di S. Valentino "iuxta pontem Molbium", che sotto il suo pontificato sarebbe stata edificata "a solo", e quindi dedicata al santo (cfr. Liber pontificalis [I, p. 332]). In realtà, ormai si tende a credere che T. abbia invece soltanto portato a termine i lavori di ampliamento e restauro della basilica, peraltro già esistente nel IV secolo, avviati al tempo di papa Onorio. Un analogo intervento del pontefice è generalmente ipotizzato per l'oratorio di S. Venanzio nella chiesa romana di S. Giovanni in Fonte (Battistero Lateranense), dove la presenza di una raffigurazione di T. nel mosaico dell'abside induce a ritenere che egli abbia fatto completare la decorazione della chiesa, verosimilmente cominciata da Giovanni IV. Sicuramente attribuibile al pontefice è invece la traslazione delle spoglie dei martiri Primo e Feliciano nel 648, "qui erant in arenario sepulta via Numentana" (ibid.), presso la chiesa di S. Stefano Rotondo al Celio, che in quella occasione, come risulta da alcune testimonianze epigrafiche, sarebbe stata restaurata e nuovamente consacrata. T. costruì la piccola abside orientale decorandola con il mosaico raffigurante i due martiri, accompagnata dalle relative didascalie e da una iscrizione in distici, parzialmente perduta (R. Krautheimer-S. Corbett-W. Frankl, p. 194). Un'altra iscrizione, di cui però non si conosce l'originaria ubicazione, ricordava l'intervento del pontefice a favore "sanctorum corpora cultu" (Inscriptiones Christianae, II, nr. 30, p. 152). Inoltre T., secondo quanto indicato nel Liber pontificalis, arricchì la "confessio" con una "tabula" e "arcos" d'argento (I, p. 332). Quella delle reliquie di Primo e Feliciano è la prima traslazione entro la città a noi documentata. A tali lavori vanno aggiunti la costruzione di un oratorio intitolato a s. Euplo, oggi non più esistente, presumibilmente sito fra la Porta Ostiense e la piramide di Caio Cestio, e un altro piccolo luogo di culto, non menzionato in altre fonti, dedicato a s. Sebastiano presso il Laterano

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