venerdì 4 maggio 2018

4 Maggio Santi Italici ed Italo greci


Santo Ciriaco vescovo di Ancona e poi martire in Palestina sotto Giuliano Apostata( tra il 360 e il 363)

Vescovo, martire e santo, l'anconetano più vecchio della storia: San Ciriaco - Blog


Tratto da

http://www.anconatoday.it/blog/ancona-malgrado-la-storia/san-ciriaco-ancona.html

Se mi chiedete quale sia l'anconitano più vecchio che conosco la risposta può essere una sola e indica, inequivocabilmente, l'uomo che dorme in quella teca di vetro, lassù sul colle Guasco. Non è nato ad Ancona, ma l'abbiamo adottato almeno 1500 anni fa (anche di più). Fa parte della nostra storia, lo rappresentano vestito come lo vedete ora sulle nostre monete antiche (nel Medioevo), molti anconitani hanno portano il suo nome. Non mi è chiaro perchè giunse qui, una sorta di compensazione per la mancata traslazione in città delle spoglie di Santo Stefano, e non sono estranei antichi maneggi politici poiché servì l'interessamento di una principessa di stirpe imperiale, Galla Placidia. La raccomandazione della principessa servì per superare la legge imperiale che vietava la traslazione delle salme dei Santi, al fine di ostacolare il commercio delle reliquie. Giunse sicuramente per la via del porto, in una data che stimasi vicina al 433/435 Anno Domini, esattamente  il giorno 8 agosto (il giorno è certo, si celebrava come festività anconitana al pari del 4 maggio). E qui il Santo decise di restare.

VESCOVO, MARTIRE E SANTO - Ciriaco, prima di divenire Cristiano, era Rabbino Ebraico e fece rinvenire la Vera Croce su cui soffrì il supplizio Gesù Cristo, quindi si convertì e divenne Vescovo probabilmente proprio qui, ad  Ancona. Regnante l'Imperatore Giuliano detto l'Apostata poiché voleva restaurare il culto pagano, Ciriaco venne incarcerato a Gerusalemme nell'anno 363 d.C. e sottoposto a torture e quindi a martirio per convincerlo ad abiurare il culto di Cristo. Prima percosso e torturato, forse per mesi, quindi costretto ad assistere al supplizio della madre Anna, arsa viva, infine gli fu fatto bere piombo fuso e, di nuovo, colpito a morte con una pesante lancia. Nel 1979 le spoglie furono sottoposte a ricognizione con moderni metodi scientifici e sul corpo si è riscontrato ogni dettaglio del supplizio, a conferma dell'identificazione della reliquia con l'antico Santo: un femore rotto due o tre mesi prima del decesso, i tessuti del cavo orale e della trachea con eccezionale contenuto di piombo, pari a 300 volte la percentuale presente nei tessuti dei moderni abitanti di zone industriali inquinate, le tracce di edema conseguente alle bruciature provocate dal metallo incandescente, lesioni da taglio alla base del collo ed infine una frattura del cranio, causa finale della morte. Il Santo ingerì il piombo da vivo, sopravvisse e fu necessario un colpo di grazia: la conferma di ogni suplizio descritto anche dalle testimonianze più antiche. Dal 1979 abbiamo quindi sufficienti elementi per credere che il corpo esposto in Cattedrale sia quello di Giuda Ciriaco vescovo, santo e martire. 
C’ERA O NON C'ERA PIU’? Prima ancora dell'identificazione, il dubbio investiva l'accertamento della presenza del corpo del Santo in città. Se ora lo si può venerare nella sua teca di cristallo nel giorno della celebrazione del suo martirio, il 4 maggio di ogni anno, nessuno lo vide per almeno 6 secoli. Nel medioevo era vanto delle città libere di possedere e venerare, in un qualche tempio cristiano, le spoglie di uno o più Santi: i furti erano considerati imprese eroiche e, purtroppo, noi anconitani ne fummo ingenue vittime. Nella chiesa di Santo Stefano, dislocata fuori le mura, era conservato il corpo di San Costanzo e scaltri veneziani, mostrando sui moli del porto alcune sculture che avevano attirato la curiosità dei cittadini, trafugarono la reliquia esponendola poi nella chiesa veneziana di S.Basilio, intorno all'anno 1100. Fortunatamente  Ciriaco era già al sicuro, nella Basilica di S.Lorenzo, ora dedicata a S.Ciriaco.Vi fu traslato intorno all'anno 1000, al completamento del primo assetto dell'edificio; circa 20 anni dopo, precisamente nel 1017, lo stato della reliquia fu nuovamente esaminato, dopo che nella basilica era giunto il corpo del vescovo San Marcellino, che ancora fa compagnia a San Ciriaco nella Cripta dei Protettori. Ma alcuni anni dopo avviene il fattaccio col furto delle reliquie di San Costanzo: si decide allora per una nuova ricognizione a verifica della presenza della reliquia nell'urna marmorea. A conferma delle ispezioni e della loro datazione, nell'ultima ricognizione si sono rinvenute quattro monete: due dell'imperatore del Sacro Romano Impero Ottone III, sul trono dal 983 al 1002 (ricognizione dell'anno 1000); una del successore Enrico II, regnante dal 1004 al 1024 (ricognizione dell'anno 1017), una da attribuire a Enrico IV o V, coniata in un lasso di tempo che va dal 1056 al 1125 (ricognizione dell'anno 1100). Tutti coloro che hanno esaminato il Santo nel corso dei secoli passati hanno desiderato lasciare una traccia, a futura memoria. Anche gli studiosi del 1979, dopo aver esaminato le quattro antiche monete, hanno deciso di lasciare la propria traccia per eventuali futuri studiosi, collocando nell'urna monete italiane coniate nell'anno dell'ultimo accesso.
LE 4 MONETE, ANZI 6. In realtà le antiche monete rinvenute, ad un esame superficiale, sembrerebbero essere sei, ma due dischetti metallici sono ben strani: una insolita fusione di oro e, guarda caso, granuli di piombo. Sembrarono proprio monete a chi vide la salma per la prima volta, dopo sei secoli e a lume di candela, nel 1755. In quell'anno si fece la successiva ricognizione della reliquia del Santo dopo che, per oltre seicento anni, era rimasta nel buio della sua custodia di pietra. Infatti, con il precedente accesso del 1100, constatato che il corpo era ancora lì, si decise di rendere il furto impossibile. Le urne in pietra dei Santi Liberio, Ciriaco e Marcellino furono definitivamente sigillate e la Cripta dei Protettori fu chiusa per sempre da sbarre di ferro, conficcate nella pietra e prive di cancello di accesso. Si creò così un'area impenetrabile dove nessuno mise piede per oltre mezzo millennio, dal 1100 al 1755. In una  notte del 1755 un fulmine penetrò nella cripta e danneggiò la base in pietra: nel varco si introdusse carponi un canonico che, a lume di candela, verificò se fosse ancora presente il Santo nell’urna. La misura di sicurezza definitiva, per quanto drastica, aveva funzionato e il corpo era ancora al suo posto, perfettamente conservato. A questo punto, dopo una sommaria ricognizione dello stato del Santo, si decise di modificare l'antico sarcofago in pietra, aprendone una parete e creando la teca in legno e vetro che consentiva l'adorazione della venerata reliquia. Nel XVII secolo si protrassero dotte disquisizioni sull'identificazione del corpo col Giuda Ciriaco che aveva ritrovato la Vera Croce e che divenne martire del nell'Anno del Signore 363, al tempo dell'imperatore Giuliano,  oppure  altro Ciriaco martire nel 133 d.C. La ricognizione del 1755, per quanto ufficiale, fu però affidata ad un medico il quale si limitò a descrivere la salma, constatandone l'ottimo stato di conservazione senza indagine storica degli altri reperti. Nessuno indagò sulle apparenti “sei monete” che, se accuratamente controllate, avrebbero consentito di stabilire che con il corpo era giunto a noi anche il mezzo del suo supplizio, simboleggiato dai due dischi metallici ottenuti mescolando piombo con oro e inseriti nel sepolcro sin dalla notte dei tempi, per identificare senza dubbio il corpo del Martire.











tratto da
http://www.novena.it/calendario_santi/maggio/santo_maggio04.htm
Chi fu in realtà S. Cirìaco, che la città di Ancona festeggia oggi come suo patrono? Fu vescovo della città adriatica o di Gerusalemme, oppure di entrambe, in tempi successivi? Secondo un testo apocrifo, già noto a S. Gregorio di Tours, ai lavori per il ritrovamento della Croce di Cristo nella città santa, promossi dal vescovo di Gerusalemme e dalla pia madre dell'imperatore Costantino, Elena, avrebbe assistito un ebreo di nome Giuda. Tra i primi miracolosi effetti prodotti dal santo legno sarebbe da annoverarsi la conversione di questo ebreo.

Mutato il nome di Giuda con quello di Ciriaco (nome di origine greca, che vuol dire «patrizio», assai diffuso in tutto il mondo romano), dopo aver percorso le vie della Palestina, fu eletto vescovo della città santa, e come tale avrebbe subito il martirio, insieme con la madre di nome Anna, durante la persecuzione di Giuliano l'Apostata. Ma la tradizione anconitana, suffragata da cospicue testimonianze di culto e antichissimi monumenti, e raccolta dallo stesso Martirologio Romano, concorda col testo apocrifo sopra citato soltanto nella prima parte.

Appena convertitosi, probabilmente per sottrarsi all'ostilità dei suoi vecchi correligionari, Giuda, assunto il nome di Ciriaco in occasione del battesimo, avrebbe abbandonato la Palestina per stabilirsi in Italia, approdando finalmente ad Ancona. Qui fu eletto vescovo, in un'epoca di straordinaria fioritura del cristianesimo, da poco uscito dalla clandestinità con l'editto di Milano. Dopo un lungo episcopato, Ciriaco, carico di meriti, volle compiere un ultimo pellegrinaggio nella Terrasanta, per rivedere il paese di Gesù e della sua stessa giovinezza. Qui lo avrebbe atteso la spada dell'ultimo persecutore romano, Giuliano l'Apostata, e il santo vegliando avrebbe colto la palma del martirio. Più tardi le reliquie del vescovo sarebbero giunte fortunosamente ad Ancona, chiuse in una cassa sospinta dalle onde del mare fino al porto. Per ricordare questa leggenda, il 4 maggio nel duomo anconitano vengono distribuiti mazzetti di giunchi benedetti.

Tra le testimonianze dell'antico culto reso ad Ancona a S. Ciriaco vi è la riproduzione dell'immagine del santo nelle monete della zecca anconitana e in monumenti. La stessa cattedrale, già dedicata a S. Lorenzo, nel secolo XIV assunse definitivamente il titolo del santo patrono. La stupenda chiesa, che domina la città adriatica dall'alto del colle del Guasco, si offre per prima allo sguardo di chi arriva ad Ancona per terra o per mare, e gli rammenta il nome del santo vescovo approdato anch'egli alla città adriatica dapprima come esule, poi come pastore.


SAN CIRIACO, Vescovo e Martire
Patrono di Ancona
Fece ritrovare la Croce di Gesù sul Monte Calvario
Tratto da

San Ciriaco è festeggiato il 4 maggio. Era un rabbino ebreo, che si convertì al cristianesimo quando, facendo ritrovare a Sant'Elena, madre dell'imperatore Costantino, la croce di Gesù sepolta sul Calvario, avvenne il miracolo della risurrezione di un morto adagiato sulla croce di Gesù da Sant'Elena, che chiedeva al Signore quale delle tre croci ritrovate fosse quella di Gesù (le altre due erano dei due ladroni). Divenne Vescovo di Ancona e morì martire a Gerusalemme.
    Una recentissima rilettura degli Atti e la ricognizione canonica del suo corpo ha confermato la tradizione costante. Egli era un Ebreo, nato a Gerusalemme; aiutò Sant'Elena, la madre di Costantino, a ritrovare la Croce di Gesù. Convertitosi, ebbe la dignità di Vescovo e come sede, Ancona: eletto probabilmente a tale incarico per la sua partecipazione al ritrovamento della croce, e trovandosi in Ancona al tempo della vacanza della Cattedra di questa città. Morì a Gerusalemme, dove si era recato in pellegrinaggio, al tempo dell'imperatore Giuliano l'Apostata, il 4 maggio 363. La sua salma venne trasferita in Ancona a cura e per iniziativa di Galla Placidia, circa settant'anni dopo. Con San Ciriaco furono martirizzati la madre, Anna, e un incantatore di serpenti, Ammonio.
    Del Vescovo Ciriaco si conosce qualche notizia e precisamente la data della morte, avvenuta a seguito del martirio sopportato nell'anno secondo dell'imperatore Giuliano detto l'Apostata. L'attribuzione della Cattedra Anconitana a San Ciriaco è fondata sulla costante tradizione e sulla mancata rivendicazione da parte di altre Chiese Orientali od Occidentali; più certa è la sua dignità vescovile, affermata, oltre che dai martirologi e degli Atti anche da un testo della prima metà del sec. VI, in cui è riconosciuto come pastore ottimo di popoli cristiani. Testo che era conosciuto a Costantinopoli ed usato nella liturgia del Venerdì Santo o in quella della festa della Croce che si celebrava nella Quaresima, composto da Romano il Melode, diacono della stessa Chiesa. San Ciriaco morì a Gerusalemme dove si era recato per visitare i Luoghi Santi. Si cercò prima di convincerlo ad aderire al paganesimo; di fronte alla sua costanza della Fede si tentò di piegarlo inutilmente con diversi tormenti, sino a versargli piombo fuso in bocca ed essendo a questi sopravvissuto, ebbe la morte percuotendo il suo capo con un ferro, forse una roncola, procurandogli una frattura cranica. Questi tormenti sono stati accertati dagli esami radiologici e chimici eseguiti nella ricognizione delle spoglie, avvenuta nel 1979.
    La salma del Martire fu sepolta a Gerusalemme, in una grotta del Monte Calvario; fu traslata in Ancona, probabilmente nel 433 o 435, a cura e per interessamento di Galla Placidia in sostituzione delle reliquie di Santo Stefano - richieste dagli anconitani - e deposta nella Chiesa che la stessa Augusta aveva fatto erigere in onore del Protomartire, la seconda con questo titolo. In questa basilica rimase sino al Mille, quando, in occasione della donazione alla Chiesa Anconitana della basilica palatina di San Lorenzo, che era nel recinto dell'acropoli, vi fu traslato unitamente alla Cattedra ed in questa Chiesa, oggi intitolata a San Ciriaco, ancora riposa.
Il corpo di San Ciriaco è INCORROTTO da 1700 anni.
















Santo Giacomo Diacono Martire a Bergamo per mano degli eretici ariani (verso il  380)

Tratto
http://bergamo-ortodossa.blogspot.it/2013/05/san-giacomo-diacono-martire-di-bergamo.html

tono 1

composto dall'ipodiacono Claude Lopez-Ginisty[1][1]



Diacono di Bergamo, un giorno durante un ufficio, * mentre stavi predicando la parola di Cristo, * un gruppo di Ariani entrò nel luogo santo, * e ti uccise per odio della ortodossia. * O santo martire Giacomo dalla fede retta e giusta * chiedi al Signore di avere di noi grande misericordia!



Kontakion, tono 1

Essendo stato in terra amico dei poveri, degli orfani e delle vedove, qual servo buono e fedele prendi  ora parte alla gioia del tuo Signore nel Regno, o Giacomo esempio dei diaconi e vanto di Bergamo, supplicalo di salvare le anime nostre!


Bergamasco convertito al cristianesimo, fu chierico ed espletò il suo servizio presso la basilica alessandrina conducendo vita irreprensibile. Grazie alla sua eloquenza conquistò molti pagani alla fede cristiana. Essendo diacono già da vent’anni, mentre predicava fu assalito in piena basilica da un gruppo di ariani fanatici che lo percossero fino ad ucciderlo precipitandolo dal pulpito fra lo sconcerto dei fedeli. Il triste evento ebbe luogo il 4 maggio dell’anno 380, secondo quanto asseriva l’iscrizione latina incisa sulla sua tomba un secolo dopo la sua morte. Giacomo fu ritenuto santo dai fedeli e per diverso tempo la sua tomba fu oggetto di venerazione. Indi se ne perdette quasi la memoria. Nel 1291 tuttavia le sue ossa furono rinvenute nella basilica alessandrina; il frate Branca, presente all’esumazione, constatò che il teschio presentava evidenti segni di violenza. Le reliquie di San Giacomo sono ora sotto l’altar maggiore della cattedrale di Bergamo. Il suo martirio poté avvenire prima dell’anno 380, al tempo dell’episcopato bergamasco di San Viatore, quando l’eretico Aussenzio si era insediato sul soglio metropolita di Milano; si è peraltro supposto che il delitto fosse accaduto pochi anni dopo, quando a Milano l’ariano Aussenzio II si oppose per qualche tempo a Sant’Ambrogio.












Santo Venerio Vescovo di Milano  ed amico di San Giovanni Crisostomo (verso il 408)

Martirologio Romano: A Milano, san Venerio, vescovo, che, discepolo e diacono di sant’Ambrogio, inviò chierici in aiuto ai vescovi d’Africa e si prese cura di san Giovanni Crisostomo mentre si trovava in esilio.


Tratto da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/52010
San Venerio era accanto ad Ambrogio, quando questi morì. Gli fu secondo successore (400 - 408), dopo Simpliciano. Ci testimonia la vivacità della Chiesa ambrosiana in quegli anni e la stima di cui era circondata.
Sollecitato dai vescovi africani (sinodo di Cartagine del 18 giugno 401), che soffrivano per la crisi di vocazioni sacerdotali, non esitò ad inviare alcuni presbiteri e diaconi ambrosiani in loro aiuto. E non ebbe timore di mandare i migliori: tra questi primi nostri «fidei donum» ci fu Paolino, che, sollecitato proprio da Sant’Agostino, scrisse la prima Vita di Sant’Ambrogio! Non calcolava, quando c’era di mezzo la verità: quando San Giovanni Crisostomo fu cacciato in esilio per la sua condanna della corruzione imperiale, egli lo difese strenuamente, insieme a papa Innocenzo I e a Cromazio di Aquileia. Non fu geloso del suo potere, poiché per lui era importante il servizio dei fratelli: per questo non si oppose, quando la Chiesa di Aquileia volle erigersi a diocesi autonoma da Milano. In quegli anni difficili (i Visigoti di Alarico scorrazzavano per l’Italia, senza che gli eserciti romani riuscissero a fermarli) Venerio seppe fare onore al suo maestro: anch’egli sostenne il popolo con la sua parola (era di una rara eloquenza), incoraggiando a tenere fisso lo sguardo su colui che solo può consolare e sempre vincere il male, come gli aveva insegnato Ambrogio: «Tutto abbiamo in Cristo. Tutto è Cristo per noi».




Tratto da
http://www.treccani.it/enciclopedia/santo-venerio_%28Enciclopedia-Italiana%29/

VENERIO, santo. - Discepolo di S. Ambrogio, succedette a Simpliciano sulla cattedra episcopale di Milano che governò dal 400 al 408, beneficiando della posizione eccezionale che avevano conferito alla chiesa milanese l'importanza politica della città e l'azione di S. Ambrogio. Da questo punto di vista vanno interpretati i suoi rapporti con papa Anastasio I, che ebbe a scrivergli per invitarlo ad accettare la condanna dell'origenismo; con i vescovi africani, che ebbero a rivolgersi a lui (401), come a papa Anastasio, a proposito del trattamento da farsi ai preti e ai vescovi donatisti convertiti; infine, con lo stesso Giovanni Crisostomo, che ebbe a scrivergli (aprile 404) dal suo esilio. La sua festa si celebra il 4 maggio.
Bibl.: J. Van den Gheyn, La lettre du pape Anastase I à S. Venerius, in Revue d'hist. et de litt. relig., 1899, pp. 1-12.


Secondo la vita di sant'Ambrogio scritta da Paolino di Milano Venerio era un diacono della Chiesa milanese e si trovava al capezzale del santo poco prima della sua morte, il 4 aprile 397, quando fu decisa, con l'assenso del moribondo, la successione sulla cattedra milanese di Simpliciano  (2)
Venerio succedette come vescovo di Milano proprio a Simpliciano, morto prima di novembre 400 [3 probabilmente già durante l'autunno o l'inverno 400/401. Infatti, in una lettera che Paolino di Nola scrisse a Delfino di Bordeaux tra novembre 400 e l'inizio della primavera del 401, Venerio è qualificato come novus episcopus; inoltre è già conosciuto come vescovo milanese in un concilio celebrato a Cartagine il 16 giugno 401. Dalla lettera di san Paolino si evince che Venerio aveva scritto al vescovo nolano per comunicare la sua ordinazione episcopale.
Venerio fu il destinatario, assieme a papa Anastasio I, di una lettera scritta il 16 giugno 401 dai membri del concilio cartaginese, che informavano i due prelati delle difficoltà in cui versava la Chiesa africana per la mancanza di preti, che li obbligava a consacrare gli ex donatisti  Nella sessione del 13 settembre 401, gli atti del concilio africano accennano alla risposta di papa Anastasio, ma non a quella di Venerio. Tuttavia, secondo quanto racconta Paolino, il biografo di sant'Ambrogio, ancora diacono, venne inviato da Venerio in Africa e in seguito, su richiesta di sant'Agostino  scrisse la vita di Ambrogio.
Tra aprile e dicembre 401 Venerio ricevette una lettera di papa Anastasio, che lo sollecitava a sostenere l'anatema lanciato contro le opere di Origene  giudicate blasfeme, e la cui lettura doveva essere impedita. Venerio è citato in un'altra lettera di papa Anastasio a Giovanni di Gerusalemme, e nella Apologia contro Rufino san Girolamo lo menziona al terzo posto tra i protagonisti della condanna di Origene per eresia , dopo Anastasio di Roma e Teofilo di Alessandria e prima di Cromazio d'Aquileia  
Nel 404 Venerio ricevette una lettera di Giovanni Crisostomo che gli esponeva i suoi contrasti con Teofilo di Alessandria e descriveva i tumulti avvenuti a Costantinopoli nella notte di Pasqua del 404; la lettera, indirizzata anche a papa Innocenzo I e a Cromazio d'Aquileia, fu scritta prima dell'esilio del Crisostomo (ossia prima del 9 giugno 404), con lo scopo di fare appello ai vescovi dell'Occidente perché la sua causa fosse giudicata da un tribunale imparziale. In seguito a questo appello, venne celebrato un sinodo, probabilmente a Roma prima dell'estate 406; la lettera sinodale venne firmata da tutti i presenti, tra cui anche Venerio di Milano, i quali chiedevano il ristabilimento di Giovanni Crisostomo sulla sua sede prima di procedere contro di lui con un processo legittimo.
Durante il suo esilio (giugno 404 - settembre 407), Giovanni Crisostomo scrisse una lettera a Venerio per ringraziarlo e per invitarlo a continuare a sostenere la sua causa.
A Venerio è dedicato uno dei Carmina di Magno Felice Ennodio [4 scritti prima del 521; l'autore sottolinea la giovane età di Venerio in occasione della sua ordinazione e le sue doti di eloquenza. A partire dall'elogio di Ennodio, alcuni autori hanno erroneamente attribuito a Venerio il De sacramentis di sant'Ambrogio e i XX sermones di Massimo di Torino.[5]
Secondo un antico Catalogus archiepiscoporum Mediolanensium[6], l'episcopato di Venerio si colloca tra quelli di Simpliciano, morto nel 400, e di Marolo, vescovo di Milano prima del 431. Il medesimo catalogus gli assegna 9 anni di governo e lo dice sepolto il 4 maggio [7] nella basilica di San Nazaro. Tradizionalmente, il suo episcopato è assegnato agli anni 400-408 [8]
Una tradizione medievale, che non ha fondamenti storici, associa Venerio all'aristocratica famiglia milanese degli Oldrati.

Note

1.   Dal sito "Santi e Beati".
2.   ^ Paolino di Milano, Vita Ambrosii, 46.
3.   ^ Paoli, Les notices sur les évêques de Milan, p. 225.
4.   ^ Magno Felice Ennodio, Carmina, nº 197, in Monumenta Germaniae Historica, Auctores antiquissimi, vol. VII, Berlino 1885, p. 163.
5.   ^ Rimoldi, BS XII, col. 1010.
6.   ^ Catalogus Archiepiscoporum Mediolanensium, Monumenta Germaniae Historica, Scriptores, vol. VIII, Hannover 1848, p. 102.
7.   ^ Depositus die 4 maii.
Tratto dal Quotidiano Avvenire
Per essere davvero "cattolica" ogni Chiesa locale deve saper coltivare profondi rapporti di fraternità con le altre comunità in tutto il mondo, prendendosi cura di quelle che hanno più bisogno di sostegno. D'altra parte questo avveniva già in epoca apostolica e nei primi secoli, come ci ricorda la figura di san Venerio di Milano. Si trovava al capezzale di sant'Ambrogio alla sua morte il 4 aprile 397 e fu il suo secondo successore dopo Simpliciano: il suo episcopato molto probabilmente iniziò nel 400 e durò fino al 408 o 409. Nel 401 ricevette una richiesta di aiuto da Cartagine: alla Chiesa locale mancavano i sacerdoti. Tra i preti e i diaconi che vennero mandati - quasi come "fidei donum" - da Venerio in Africa c'era anche Paolino, che poi scrisse una vita di sant'Ambrogio. Venerio, inoltre, sostenne san Giovanni Crisostomo durante il suo esilio.




Santo Niceforo l’esicasta  italiano ed ortodosso  difensore dell’ortodossia di fronte alla proposta di “unia” a Lione e monaco sul monte Athos

S. Niceforo l’Esicasta  nel contesto dei rapporti

tra il Monte Athos e la Calabria

 

tratto da http://www.ortodoxia.it/S.Niceforo%20l%27esicasta.htm


Tu certamente conosci s. Niceforo, che ha trascorso lunghi anni nel deserto e nell’esichia e che in seguito dimorò nei luoghi più solitari della santa Montagna senza concedersi tregua. Egli ci ha tramandato la pratica della sobrietà dopo essersi nutrito degli scritti dei Padri». Con queste parole s. Gregorio Palamas, nella prima delle sue Triadi in difesa dei santi esicasti, ci ha delineato, nei tratti essenziali, il più antico ritratto di questo santo in rapporto alla sobrietà, della quale egli era stato un iniziato – se ne nutrì dapprima alla scuola dei Padri –, un cultore –, la praticò a sua volta nell’esichia – ed un maestro – la trasmise infine nel suo magistero ascetico. Nella seconda Triade, poi, l’arcivescovo di Tessalonica precisa che Niceforo aveva reso la sua “bella confessione” davanti al primo dei Paleologhi, colui “che pensava conforme ai latini” (Michele VIII) e che per questo era stato esiliato. Questa notizia ci offre un appiglio sicuro per la sua cronologia – siamo pertanto nel 1276-77, gli anni cruciali della spedizione punitiva dell’italiano Licario per reprimere l’opposizione degli Aghioriti all’unione di Lione – e ci apre ulteriori spiragli conoscitivi, consentendoci di identificarlo con il Niceforo autore, con il monaco Clemente, suo compagno di sventure, di una relazione scritta (diavlexi) sul processo da essi subito davanti al patriarca latino e legato papale, il domenicano Tomaso Agni da Lentini, a S. Giovanni d’Acri (la greca Tolemaide).
Possiamo così circoscrivere l’ambito spaziale della sua esistenza: arresto all’Athos, cinque mesi e mezzo di carcere a Costantinopoli, trasferimento nell’ultimo baluardo latino in Terrasanta per il giudizio, conseguente esilio a Cipro, probabile permanenza – ipotizzata da Antonio Rigo – al Monte S. Aussenzio in Bitinia, centro della resistenza monastica all'unione con Roma ed infine ritorno all’Athos, dove Niceforo chiuse la sua esistenza terrena, nel proprio esicasterio, tradizionalmente posto nei dintorni di Lavra. Non risulta infatti che la sua ascesi solitaria abbia avuto, come esito naturale – secondo una tipologia evolutiva estremamente frequente –, il formarsi intorno a lui di un agglomerato di vita comunitaria: nessuna fonte gli attribuisce il titolo di igumeno, ma unicamente gli appellativi di monaco e di prete. Del resto il suo amore appassionato per l’esichia, di cui è magistrale espressione il suo rinomato Logos sulla custodia del cuore, rende estremamente plausibile che, anche una volta pervenuto alla maturità spirituale, egli non abbia impresso una svolta cenobitica al proprio itinerario ascetico.
Per quanto riguarda invece le coordinate temporali, il fatto che s. Gregorio Palamas lo annoveri tra gli «antichi tra i santi» induce a credere ch’egli fosse di una generazione antecedente rispetto a quelli che l’arcivescovo di Tessalonica enumera come gli interlocutori di Niceforo, cioè s. Atanasio di Costantinopoli e s. Teolepto di Filadelfia, il maestro stesso del Palamas. In conclusione gli estremi cronologici di Niceforo sarebbero da porre – come propone il Rigo – tra il primo ed il penultimo decennio del XIII secolo: egli risulta in tal modo un contemporaneo di s. Melezio (1208-1286), il confessore dell’ortodossia al Monte Galesion. Più arbitraria ci sembra la cronologia interna di Niceforo stabilita dallo studioso veneto, che pone il suo ingresso all’Athos intorno al 1240 e la composizione del Logos sulla custodia del cuore tra il 1270 ed il 1275.
Abbiamo volutamente trascurato sinora il problema – cruciale per il nostro intervento – delle origini di s. Niceforo. S. Nicodemo l’Aghiorita, nell’Acoluzia dei SS. Padri dell’Athos, lo definisce «in precedenza latino», prima di abbracciare la fede ortodossa. L’Aghiorita non pare tuttavia disporre di fonti diverse dalle nostre, cioè le testimonianze del Palamas nelle Triadi, e non brilla certo per precisione nel riprenderle: basti pensare che, nella Filocalia, pone Niceforo «fiorente poco prima del 1340». In realtà l’arcivescovo di Tessalonica non lo dice espressamente di confessione latina, ma «di stirpe di italiani», dei quali aveva poi abbandonato i «cattivi dogmi» (la kakodoxia). Ci sembra pertanto tutt’altro che infondata la tesi che fa di Niceforo – nonostante il parere contrario di Daniel Stiernon e dello stesso Rigo – un greco di Calabria. Sarebbe in tal caso un figlio di quell’ellenismo italiota, sempre più ristretto in aree linguistiche delimitate, con una propria gerarchia episcopale – forzatamente inquadrata nella Chiesa di Roma – in via di drastica riduzione, che non solo aveva dovuto accettare tutti i dogmi latini, ma che nella grecità del proprio rito aveva subito un’ibridante latinizzazione.
Ci sembra del resto suggestiva la prospettiva di vedere in Niceforo una figura per un verso analoga e per l’altro specularmente opposta a Barlaam di Seminara: analoga quanto alla migrazione materiale da Occidente in Oriente ed opposta quando all’esito radicalmente diverso del medesimo itinerario spirituale. Esso dovette consistere per entrambi in un agognato ritorno alle proprie radici culturali e religiose, in un’immersione nelle sorgenti pure dell’ellenismo, per sottrarsi alla soffocante ed invasiva pressione filosofica e spirituale latina. Senonché la sopravvenuta estraneità dell’ellenismo italiota rispetto al formalizzarsi della dottrina esicastica – avvenuto nel frattempo in territorio metropolitano, in assoluta coerenza con i suoi presupposti teologici, antropologici ed ascetici – determinava in Barlaam l’errata convinzione che il suo spiritualismo nominalista, antitetico al realismo della scolastica, rappresentasse l’autentica tradizione orientale. La conseguente, diretta, e per lui traumatica, scoperta che invece quest’ultima rappresentava un altro realismo, quello della partecipazione dell’uomo, nella sua integrità pneumatosomatica, all’esperienza deificante della grazia increata, provocherà il suo drastico, totale rifiuto dell’esicasmo, nella sua teorica e nelle sue pratiche psicofisiche ormai consolidate. Il suo predecessore Niceforo invece, un secolo prima, aveva assimilato così profondamente la linfa purissima della propria originaria tradizione da divenire uno dei teorici più autorevoli dell’esicasmo: aveva infatti sentito persino l’esigenza di registrare e trasmettere agli altri, con l’apporto creativo e personale del suo Logos, ciò che egli stesso aveva ricevuto.
Un indizio a favore di un’origine calabrese di Niceforo potrebbe essere il suo stesso nome monastico. Le memorie sacre della santa Montagna registrano infatti, ai loro primordi, un monaco calabrese di quel nome, dedito dapprima ad forma estrema di eremitismo, ma passato poi sotto il giogo dell’obbedienza nei confronti del grande Atanasio. Pur nell’assenza di documentati riscontri cultuali, si tratta di una figura di rilevante interesse, come tramite di congiunzione tra la zona monastica del Merkourion, nell’omonima tourma nella Calabria settentrionale, e quella del Monte Athos, che furono entrambe, in periodi successivi della sua vita, spazio sacro della sua ascesi. Le testimonianze agiografiche su di lui, non sono dirette, ma incrociate. Della fase calabrese della sua esistenza siamo informati dalla Vita, di stesura tessalonicese, di s. Fantino il Nuovo, uno dei maggiori esponenti del monachesimo greco della Calabria settentrionale, nello specifico mercuriense, testo scoperto ed edito da Enrica Follieri: vi si nomina infatti Niceforo come uno dei due discepoli che, dopo il 965, accompagnano il grande Fantino nella sua migrazione in Grecia, dove, a Tessalonica appunto, si concluderà, nel 974, la sua vicenda terrena.
Tutte le informazioni su Niceforo in nostro possesso, compresa la conferma della sua discendenza spirituale da s. Fantino, ci vengono però dalle due Vite di s. Atanasio l’Athonita, quella di Atanasio di Panagiou – scritta tra il 1010 ed il 1025 – e quella anonima, composta tra il 1050 ed il 1150. In esse il suo discepolato fantiniano è non solo esplicitamente dichiarato, ma viene altresì avvalorato dal suo stesso epiteto di Niceforo il Nudo, che richiama uno dei tratti essenziali e caratteristici dell’ascesi del grande Fantino. Quest’ultimo era stato per tutta la vita un irriducibile nostalgico della solitudine, risospinto periodicamente nell’esichia, il cui desiderio lo bruciava dentro come un fuoco e gli faceva compiere gesti estremi, come la fuga dai monasteri che aveva fondato ed il rifiuto di qualsiasi indumento. Questo periodico ritorno alla nudità incolpevole dei progenitori avveniva in Fantino, ora per il naturale disfacimento del suo ruvido vestito dopo periodi di errabonda vita sui monti, ora per esplicita scelta del santo, come quando, al momento di scomparire per sempre dalla Calabria, dopo una visione estatica dell’aldilà, egli si sfilò il vestito, con gesto provocatorio, invitando i suoi cenobiti a fare altrettanto, nel presupposto che fuga dal cenobio, per disperdersi nelle solitudini montane, e nudità integrale rappresentassero un’endiadi ascetica.
Precisamente a questo errare nudo anche di Niceforo, insieme al maestro, sui monti della Calabria, dimorando in luoghi inaccessibili, fa riferimento il primo agiografo di Atanasio, che enfatizza tra l’altro il ruolo di Niceforo accanto a Fantino, il quale lo mette persino a parte della rivelazione estatica a lui concessa. Con un voluto parallelismo Atanasio di Panagiou osserva che, mentre Fantino si fissa a Tessalonica, Niceforo, attratto dalla fama di s. Atanasio passa all’Athos e si pone sotto la guida di quest’ultimo. Aggregatosi così a coloro che vivevano nell’obbedienza di questo cenobiarca – a sua volta grande estimatore dell’esichia –, egli ottiene dalla sua condiscendenza di mantenere le proprie consuetudini eremitiche quanto all’abito – gli è consentito di avere come unico indumento un tessuto tutto lacero portato a foggia di lenzuolo, divenendo così quello che tecnicamente veniva chiamato un sindonita – ed al vitto (si ciba infatti, solo dopo il tramonto, di crusca salata e inumidita in acqua tiepida). Pur nella profonda unità della politeia monastica, la diaita eremitica infatti si distingueva per consuetudini peculiari relative proprio all’abito, limitato ad alcuni capi essenziali, rispetto allo scrupolo cenobitico di indossare il costume monastico nella totalità delle sue componenti, così ricche di valore simbolico, e ad un particolare regime alimentare, ben più rigoroso, rispetto a quello del cenobio, quanto ai cibi ed alle scansioni dei pasti. Si tratta precisamente di quella che, nella Vita di s. Pietro di Atroa, viene chiamata la “regola più severa”, l’akribestero kanon.
Questa tolleranza atanasiana si inquadra perfettamente nella sua tipologia monastica: ben lungi dall’essere un “convertito” al cenobitismo – come hanno affermato Eulogio Kourilas e, più recentemente, Julien Leroy – egli era un portatore del modello ascetico-istituzionale microasiatico, maturato nel “cuore” monastico dell’impero, cioè nelle aree a densa popolazione monastica dell’Asia minore, la Bitinia ed il retroterra efesino, per superare l’endemica tensione tra eremitismo e cenobitismo, salvaguardando i vantaggi offerti da entrambe le vie. Le modalità di questa non facile sintesi consistettero essenzialmente nel conferire piena legittimità istituzionale all’eremitismo innestandolo sul tronco del cenobitismo: in questa sintesi microasiatica o mediobizantina – come la chiama Rosemary Morris – che riprende la sapiente tolleranza sempre dimostrata dalla legislazione privilegiante il cenobitismo – quella ecclesiastica, con le prescrizioni basiliane, nel IV secolo, e quella civile, con le Novelle giustinianee, nel VI –, i cenobiti attratti dall’esichia potevano viverla ai margini del cenobio, sotto il rigido controllo del suo superiore e continuando a dipendere da esso per la vita liturgica. Espressione compiuta di questa sintesi fu la laura, diametralmente opposta, quanto a profilo istituzionale, all’omologo palestinese del V-VI secolo: non più un agglomerato di celle esicastiche con al centro un piccolo cenobio per i servizi comuni, ma un grande cenobio dal quale dipende un limitato numero di eremitaggi. Da quanto risulta dalle descrizioni del cenobio athonita di s. Atanasio, chiamato, in virtù dell’inversione semantica appena spiegata, Megisth Laura – fornite sia dalle Vite del santo sia dalla sua normativa monastica, a noi pervenuta –, la figura dell’esicasta Niceforo rientra nel novero di quel limitato e predeterminato numero di asceti, ai quali il santo lasciava condurre, non troppo lontano dal cenobio, quella vita solitaria, che anch’egli continuava a ritenere la più alta, ma ad un tempo anche la più difficile e rischiosa, e pertanto consentita soltanto a pochi.
Successivamente però – e non inaspettatamente per noi, nel contesto del processo evolutivo rapidamente in corso, in quegli anni, sulla santa Montagna, dove monaci senza fissa dimora (anestioi), con i piedi nudi e mai lavati (gimnopode e aniptopode), e con pesanti collari di ferro, entravano a frotte nella mandra di Atanasio – Niceforo passa «dall’eccellenza dell’eremia» (ta parasima ti erhmia), come si esprime Atanasio di Panagiou, a quella nelle virtù del cenobio. Con un vero proprio rito di iniziazione cenobitica – implicitamente descritto dal secondo biografo di s. Atanasio – Niceforo si spoglia del suo lenzuolo per assumere l’abito, ed insieme il genere di vita, del cenobita. Anche in questo caso il suo itinerario personale è emblematico del percorso ascetico di un’intera categoria, quella degli esicasti della santa Montagna, sino ad allora la componente indiscutibilmente egemone al Monte Athos ed ora inesorabilmente destinata ad essere assorbita dal nuovo cenobitismo riformato, ibridato di eremitismo, moderno anche nella dotazione di inusitate risorse fondiarie per la generosità dei due basilei, Niceforo Focas prima e Giovanni Zimisce poi. La sua personale “conversione” risulta pertanto esemplarmente coincidente con la coeva assimilazione al modello cenobitico degli esicasti di Chaldou, una specie di “riserva” dove i superstiti tenaci estimatori della vita solitaria erano stati concentrati per vivere la loro esichia con un minimo di lavoro collettivo, integrato dalla carità dei monasteri. Tale agglomerato infatti, prima del 991, dovette trasformarsi anch’esso in un cenobio, debitamente dotato di risorse fondiarie per il proprio mantenimento.
È indicativo il confronto tra l’esito finale del percorso ascetico dell’esicasta Niceforo, entrato proprio nel gregge di chi era accusato di causare l’estinzione della vita solitaria, qual’era stata sino ad allora praticata sulla santa Montagna, e l’irriducibile opposizione di quegli stessi ambienti eremitici, che avevano prodotto, tra il 972 ed il 978, nella Vita di s. Pietro l’Athonita  – scritta da un loro esponente, il monaco Nicola – un testo agiografico a tesi, un manifesto ideologico in forma narrativa, per ribadire l’eccellenza dell’eremitismo assoluto, del quale il biografato veniva presentato come il campione, l’archetipo locale. Nella prospettiva di Nicola il passo compiuto da Niceforo sarebbe stato equiparabile all’abbandono stesso dello stato monacale, nel presupposto che il cenobio sia ancora parte del mondo: non è un caso che l’espressione «monasteri del mondo», per indicare i cenobi, figuri nelle subdole parole che il demonio, mascheratosi da angelo di luce, rivolge a s. Pietro per indurlo ad abbandonare l’esichia al fine di giovare alla salvezza altrui nella via del cenobio. Si potrebbe anche vedere, nell’arrendevolezza finale di Niceforo nei confronti del modello monastico atanasiano, un tratto caratteristico del monachesimo italo-greco, i cui maggiori esponenti passeranno dall’eremitismo al cenobitismo precisamente sulla base dell’argomentazione addotta dal tentatore per distogliere s. Pietro dalla propria ascesi solitaria. Con la variante però che tale argomento – che cioè la salvezza di un’anima è più meritoria dell’eroismo della solitudine –, figura sulla bocca non più del demonio, ma dell’essere che rivela la volontà divina.
Dopo essere diventato, da campione dell’esichia, modello di obbedienza, il calabrese Niceforo morì, forse ancor prima della fine del secolo, se la menzione del grande Atanasio, registrata da entrambi gli agiografi a proposito della traslazione delle sue reliquie, implica la presenza all’evento dell’Athonita – scomparso a sua volta tragicamente il 5 luglio di un anno tra il 997 ed il 1006 – e non piuttosto l’attribuzione a quest’ultimo della costruzione del nuovo sepolcreto, nel quale i resti mortali di Niceforo venivano trasferiti. In tale occasione si constatò che le ossa del santo presentavano dei coaguli di miron, e si produsse pertanto nel monastero, al momento della traslazione, un percepibile fenomeno di osmogenesi. Niceforo entra così nella categoria dei santi mirovliti.
Con i due Nicefori, calabresi entrambi a mio parere, si apre e si chiude il periodo per il quale le fonti agiografiche in nostro possesso – in virtù dell’estesa rete di conoscenze e di interscambio di uomini, che caratterizzava, nell’ecumene monastica romano-orientale, i rapporti tra le diverse aree, anche geograficamente lontane – ci documentano una persistente trama di rapporti tra il monachesimo aghioritico e quello calabro-greco, in particolare quello della Calabria settentrionale. La riscontrata conoscenza, in una di queste isole monastiche, di episodi avvenuti nell’altra, presuppone di per sé un travaso di uomini, dato che a quell’epoca le notizie potevano viaggiare solo tramite la mobilità umana. L’anonimo agiografo di s. Nilo di Rossano, attivo nei primi decenni dell’XI secolo, ci informa che una tremenda prova di obbedienza, imposta dal santo ai monaci del cenobio da lui appena costituito – l’incendio delle vigne del monastero –, aveva suscitato al Monte Athos una formidabile ammirazione, evidentemente per la ipotagi, la sottomissione, di quei cenobiti e insieme per lo zelo, tutto studita, del cenobiarca per l’obbedienza e la povertà. Tale annotazione fa presupporre l’esistenza di uno spazio comune creato dalla condivisa professione monacale, che annullava, per così dire, le distanze e nel quale pertanto, se circolavano le notizie, doveva di conseguenza svolgersi un intenso traffico di persone, cioè di monaci.
Un’indicazione convergente sul percorso inverso, di uomini ed informazioni, dall’Athos all’Italia ellenofona ci viene poi dalla nota autografa dello stesso Nilo, vergata su di un codice da lui trascritto, il Crypt. B. b. I, relativa all’antico possesso del medesimo codice da parte di Niceforo il Nudo, di cui si registra l’avvenuto decesso: è detto infatti «di beata memoria». Se un monaco seminudo, avvolto in un lenzuolo lacero, scalzo e con i piedi sporchi, era stato possessore di un manoscritto del Lausiakon di Palladio, è palese l’inadeguatezza dei nostri parametri di comprensione e, soprattutto di giudizio, in ordine a questi personaggi, così ferini e nel contempo così acculturati.
S. Nilo e s. Atanasio, come si desume dalle rispettive Vite, non si incontrarono mai, pur essendo contemporanei, anche se non coetanei: Atanasio era di almeno un quindicennio più giovane di Nilo e morì forse qualche anno prima della sua morte, avvenuta nel 1004. Non risulta pertanto arbitraria una lettura sinottica di queste due figure, a partire anche soltanto dalla concomitanza dei dati biografici, dai quali emerge un’analogia di ruoli nelle rispettive aree monastiche. Entrambi, a differenza di altri – dei quali si dice che compirono il percorso del sole, irradiando da oriente ad occidente, o quello inverso –, sono sempre rimasti, nei loro molteplici spostamenti, nell’ambito di quell’area dell’ecumene dei Romei, orientale od occidentale, nella quale avevano visto la luce. S. Atanasio, lasciata la nativa Trebisonda, è iniziato alla vita monastica nella zona del Monte Kyminas e si trasferisce poi al Monte Athos, dove la sua esichia evolve nella fondazione di un cenobio. S. Nilo, a sua volta, lasciata la natia Rossano, è iniziato alla vita monastica nella zona del Merkourion, dove pratica a lungo l’esichia; si trasferisce poi presso il podere familiare, situato nei dintorni dell’attuale S. Demetrio Corone, dove fonda il cenobio dei SS. Adriano e Natalia e donde emigrerà poi verso nord, risalendo la penisola, in terra latina, stabilendosi prima a Valleluce, presso Capua, poi a Serperi, presso Gaeta, ed infine a Grottaferrata, alle porte di Roma. Entrambi questi rakendutai, cioè “straccioni” in virtù dell’abito della loro professione monastica, sul modello dei profeti vetero e neo-testamentari hanno avuto influenti relazioni con i sovrani rispettivamente d’oriente (s. Atanasio con Niceforo Focas e con Giovanni Zimisce) e d’occidente (s. Nilo con Ottone III).
Soprattutto però il loro itinerario monastico appare visibilmente parallelo, configurandosi per entrambi come il percorso di un asceta bruciato dal fuoco per l’esichia, che perviene a dar vita ad un cenobio senza deflettere dalla convinzione che il precedente genere di vita, abbandonato per l’altrui vantaggio, rimane il più alto e profittevole e continuando a perseguirlo, a livello personale, come ideale supremo. Nel contempo il cenobitismo, al quale entrambi si piegano, riprende significativi tratti dello spirito basiliano, chiaramente mediati dal rinnovamento studita. In alternativa infatti ad una linea di pensiero, che vedeva nelle forme più estreme di ascesi individuale – a scapito della stessa dinamica liturgico-sacramentale – la chiave di accesso alla perfezione spirituale, la concezione basiliano-studita pone l'azione liturgica come terzo pilastro, accanto all'obbedienza ed alla laboriosità, della vita monastica. La memorabile definizione di quest’ultima, pronunciata da s. Nilo a Montecassino: «Il monaco è un angelo e la sua opera è misericordia, pace e sacrificio di lode» (con una ripresa, dal contesto liturgico, della risposta all’ammonizione diaconale che precede l’anafora), trova puntuale riscontro nel typikon di s. Atanasio l'Athonita, che, in stretta analogia con l'aforisma niliano, definisce la vita monastica una vocazione angelica, per il comune compito, degli angeli come dei monaci, di lodare e glorificare Dio. è evidente che in questa definizione la metafora isoangelica non si riferisce, come altrove nel lessico monastico, all'anticipazione in terra della condizione escatologica dell'uomo, bensì all'assimilazione del ceto monacale ai cori angelici nel cantare la gloria divina, delineando in tal modo una concezione – precisamente quella promossa dal rinnovamento studita – più ascetico-liturgica della vita monastica – in quanto incentrata su lavoro e preghiera – che non teologico-antropologica.
Non sappiamo se alludendo al confluire all’Athos di Calabresi – insieme a provenienti dalla stessa Roma, dall’Italia, da Amalfi, oltre che dalla Georgia e dall’Armenia, tutti attirati della fama di Atanasio – i due agiografi del santo (che in questo passo sottintendono le vicende, da noi altrimenti conosciute, relative alla fondazione dei monasteri athoniti di Iviron e degli Amalfitani) avessero in mente soltanto la figura di Niceforo il Nudo, della quale peraltro poco più avanti avrebbero scritto, oppure fossero a conoscenza del raccogliersi di altri monaci ellenofoni calabresi, attorno ad Atanasio. Comunque un bio, questa volta italo-greco, ci informa, con una certa precisione, del temporaneo ma significativo soggiorno di un altro monaco calabrese sulla santa Montagna. Si tratta di s. Bartolomeo da Simeri, il fondatore del monastero della Madre di Dio, la Nuova Hodigitria, detto del Patir, nei dintorni di Rossano, nonché di quello del Salvatore Pantokrator sull’acroterio in glossa phari nella città di Messina, entrambi sedi di importanti archimandritati in età normanna. Costui, ci informa il suo agiografo, dopo la fondazione del Patir rossanese – pertanto dopo il 1105 – si recò a Costantinopoli, dove fu benevolmente accolto dal basileu Alessio I Comneno e dalla sua consorte Irene Ducena – siamo pertanto prima del 1118 –, e qui venne richiesto da un personaggio autorevole, assai vicino ai sovrani, un tale Basilio Kalimeris, di recarsi al Monte Athos per farsi carico della riforma del locale monastero di S. Basilio, di cui il predetto Basilio era ktitwr, cioè fondatore-proprietario. Sembra persino che, nel momento in cui s. Bartolomeo accettò di diventare igumeno di questo monastero, il potente laico ktitwr del medesimo glielo abbia donato, sì che il monaco calabrese, nell’assumerne la prostasia, ne divenne anche il proprietario. Per questo, come lascia intendere l’agiografo, da allora (ektote) – dopo che, al momento di ritornare in Calabria, Bartolomeo, in qualità di ktitor, vi ebbe nominato un nuovo igumeno – questo monastero athonita fece parte del complesso di fondazioni che dipendevano dall’autorità del cenobiarca del Patir (il Padre, appunto, per antonomasia).
Il medesimo agiografo insinua poi che la denominazione “del Calabrese”, attribuita a questo monastero, alluda proprio alla provenienza del suo igumeno riformatore, secondo fondatore e nuovo proprietario, cioè allo stesso Bartolomeo. Senonché un documento sicuramente anteriore alla venuta di s. Bartolomeo all’Athos – ipomnima del Proto Paolo dell’ottobre 1080 – menziona già questo monastero “del Calabrese”; ci si potrebbe pertanto spingere ad ipotizzare – come fece Agostino Pertusi – che l’epiteto provenisse dal suo primo ktitor e che pertanto lo stesso Basilio Kalimeris fosse un italiota, cioè un italiano ellenofono, proveniente segnatamente dalla Calabria. D’altra parte non è sicura la derivazione del nome di questa fondazione da uno dei suoi due fondatori, in quanto un ulteriore documento databile al 1080 – l’atto di donazione alla Grande Lavra del kellion di Prophourni a Karyes – lo designa con un determinativo etnico, «dei Calabresi», facendo pensare ad un monastero destinato ad accogliere, nella dimensione sin dalle origini panortodossa del monachesimo aghioritico, monaci di quella nazionalità.
Nonostante l’assimilazione dottrinale al dogma latino dei greci di Calabria – i quali, recuperati alla giurisdizione patriarcale romana, poterono mantenere, in zone ristrette e peraltro in via di costante restringimento, la propria identità rituale, distaccata però dall’effettiva appartenenza ecclesiale –, è indubbio che a Costantinopoli, e pertanto anche nell’area metropolitana, alla quale afferisce il Monte Athos, si sia continuato, ancora per un certo periodo, a considerarli parte integrante dell’ecumene ortodossa. Ce lo attesta l’Opusculum contra Francos, falsamente attribuito al grande Fozio, ma in realtà posteriore alla contesa sugli azzimi esplosa nel 1054. Vi si afferma che, mentre il papa di Roma e gli altri cristiani d’Occidente «sono da molto tempo fuori della Chiesa ed estranei alle tradizioni evangeliche ed apostoliche, ... i Calabresi soli sono, sin dall’inizio, cristiani ortodossi». Anteriore al 1112, quando viene citato da Giovanni di Claudiopoli e da Niceta Seides,; questo passo verrà fedelmente ripreso, dopo il 1204, da Costantino Stilbes – cioè il metropolita Cirillo di Cizico – nel suo Memoriale contro i Latini.
Questa percezione di una ortodossia dei Calabresi, ancor viva nel XII secolo nel centro stesso dell’Ortodossia, appare già offuscata nel XIV, nel sentire almeno di s. Gregorio Palamas, forse anche a causa dell’esperienza personale di un ellenismo non più ortodosso, da lui avuta nell’aspra polemica con Barlaam di Seminara. Ai suoi occhi la calabresità non è più sentita come una garanzia di ortodossia dottrinale: un calabrese come Niceforo, anche se ellenofono, è italo, cioè afferente all’Occidente cristiano, e, in quanto tale kakodoxo, estraneo alla retta dottrina. Alla fine del XVIII secolo poi, sotto la penna di s. Nicodemo l’Aghiorita, anche l’ellenofonia della Calabria – del resto già da tempo estinta – è caduta nell’oblio più totale e pertanto un italo-greco, a suo tempo ortodosso quanto al rito ma sostanzialmente cattolico quanto al dogma, viene sentito e presentato semplicemente come un latino. Il glorioso Occidente dei Romei, con i suoi apporti culturali all’ellenismo medioevale e, soprattutto, con la sua originale esperienza monacale – ben conosciuta in Oriente nelle persone dei due Elia, di s. Fantino, di s. Nilo e di s. Bartolomeo –, non è più nella mente e nel cuore della tradizione della Grande Chiesa, autorevolmente espressa, in due momenti successivi di riscoperta della propria identità, dal Palamas e dall’Aghiorita.


Enrico Morini
Alma Mater Studiorum. Università di Bologna








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