Santo
Ciriaco vescovo di Ancona e poi martire in Palestina sotto Giuliano Apostata(
tra il 360 e il 363)
Vescovo,
martire e santo, l'anconetano più vecchio della storia: San Ciriaco - Blog
Tratto
da
http://www.anconatoday.it/blog/ancona-malgrado-la-storia/san-ciriaco-ancona.html
Se mi chiedete quale sia l'anconitano più
vecchio che conosco la risposta può essere una sola e indica,
inequivocabilmente, l'uomo che dorme in quella teca di vetro, lassù sul colle Guasco. Non è nato ad Ancona, ma l'abbiamo
adottato almeno 1500 anni fa (anche di più). Fa parte della nostra storia, lo
rappresentano vestito come lo vedete ora sulle nostre monete antiche (nel
Medioevo), molti anconitani hanno portano il suo nome. Non mi è chiaro perchè
giunse qui, una sorta di compensazione per la mancata traslazione in città
delle spoglie di Santo Stefano, e
non sono estranei antichi maneggi politici poiché servì l'interessamento di una
principessa di stirpe imperiale, Galla Placidia. La raccomandazione della
principessa servì per superare la legge imperiale che vietava la traslazione
delle salme dei Santi, al fine di ostacolare il commercio delle reliquie.
Giunse sicuramente per la via del porto, in una data che stimasi vicina al 433/435 Anno Domini, esattamente il giorno
8 agosto (il giorno è certo, si celebrava come festività anconitana al pari del
4 maggio). E qui il Santo decise di restare.
VESCOVO, MARTIRE E SANTO - Ciriaco, prima di divenire Cristiano, era Rabbino Ebraico e fece rinvenire la Vera Croce su cui soffrì il supplizio Gesù Cristo, quindi si convertì e divenne Vescovo probabilmente proprio qui, ad Ancona. Regnante l'Imperatore Giuliano detto l'Apostata poiché voleva restaurare il culto pagano, Ciriaco venne incarcerato a Gerusalemme nell'anno 363 d.C. e sottoposto a torture e quindi a martirio per convincerlo ad abiurare il culto di Cristo. Prima percosso e torturato, forse per mesi, quindi costretto ad assistere al supplizio della madre Anna, arsa viva, infine gli fu fatto bere piombo fuso e, di nuovo, colpito a morte con una pesante lancia. Nel 1979 le spoglie furono sottoposte a ricognizione con moderni metodi scientifici e sul corpo si è riscontrato ogni dettaglio del supplizio, a conferma dell'identificazione della reliquia con l'antico Santo: un femore rotto due o tre mesi prima del decesso, i tessuti del cavo orale e della trachea con eccezionale contenuto di piombo, pari a 300 volte la percentuale presente nei tessuti dei moderni abitanti di zone industriali inquinate, le tracce di edema conseguente alle bruciature provocate dal metallo incandescente, lesioni da taglio alla base del collo ed infine una frattura del cranio, causa finale della morte. Il Santo ingerì il piombo da vivo, sopravvisse e fu necessario un colpo di grazia: la conferma di ogni suplizio descritto anche dalle testimonianze più antiche. Dal 1979 abbiamo quindi sufficienti elementi per credere che il corpo esposto in Cattedrale sia quello di Giuda Ciriaco vescovo, santo e martire.
VESCOVO, MARTIRE E SANTO - Ciriaco, prima di divenire Cristiano, era Rabbino Ebraico e fece rinvenire la Vera Croce su cui soffrì il supplizio Gesù Cristo, quindi si convertì e divenne Vescovo probabilmente proprio qui, ad Ancona. Regnante l'Imperatore Giuliano detto l'Apostata poiché voleva restaurare il culto pagano, Ciriaco venne incarcerato a Gerusalemme nell'anno 363 d.C. e sottoposto a torture e quindi a martirio per convincerlo ad abiurare il culto di Cristo. Prima percosso e torturato, forse per mesi, quindi costretto ad assistere al supplizio della madre Anna, arsa viva, infine gli fu fatto bere piombo fuso e, di nuovo, colpito a morte con una pesante lancia. Nel 1979 le spoglie furono sottoposte a ricognizione con moderni metodi scientifici e sul corpo si è riscontrato ogni dettaglio del supplizio, a conferma dell'identificazione della reliquia con l'antico Santo: un femore rotto due o tre mesi prima del decesso, i tessuti del cavo orale e della trachea con eccezionale contenuto di piombo, pari a 300 volte la percentuale presente nei tessuti dei moderni abitanti di zone industriali inquinate, le tracce di edema conseguente alle bruciature provocate dal metallo incandescente, lesioni da taglio alla base del collo ed infine una frattura del cranio, causa finale della morte. Il Santo ingerì il piombo da vivo, sopravvisse e fu necessario un colpo di grazia: la conferma di ogni suplizio descritto anche dalle testimonianze più antiche. Dal 1979 abbiamo quindi sufficienti elementi per credere che il corpo esposto in Cattedrale sia quello di Giuda Ciriaco vescovo, santo e martire.
C’ERA O NON
C'ERA PIU’? Prima ancora dell'identificazione, il dubbio
investiva l'accertamento della presenza del corpo del Santo in città. Se ora lo
si può venerare nella sua teca di cristallo nel giorno della celebrazione del
suo martirio, il 4 maggio di ogni anno, nessuno lo vide per almeno 6 secoli.
Nel medioevo era vanto delle città libere di possedere e venerare, in un
qualche tempio cristiano, le spoglie di uno o più Santi: i furti erano
considerati imprese eroiche e, purtroppo, noi anconitani ne fummo ingenue
vittime. Nella chiesa di Santo Stefano, dislocata fuori le mura, era conservato
il corpo di San Costanzo e scaltri veneziani, mostrando sui moli del porto
alcune sculture che avevano attirato la curiosità dei cittadini, trafugarono la
reliquia esponendola poi nella chiesa veneziana di S.Basilio, intorno all'anno
1100. Fortunatamente Ciriaco era già al sicuro, nella Basilica di
S.Lorenzo, ora dedicata a S.Ciriaco.Vi fu traslato intorno all'anno 1000, al
completamento del primo assetto dell'edificio; circa 20 anni dopo, precisamente
nel 1017, lo stato della reliquia fu nuovamente esaminato, dopo che nella
basilica era giunto il corpo del vescovo San Marcellino, che ancora fa
compagnia a San Ciriaco nella Cripta dei Protettori. Ma alcuni anni dopo avviene
il fattaccio col furto delle reliquie di San Costanzo: si decide allora per una
nuova ricognizione a verifica della presenza della reliquia nell'urna marmorea.
A conferma delle ispezioni e della loro datazione, nell'ultima ricognizione si
sono rinvenute quattro monete: due dell'imperatore del Sacro Romano Impero
Ottone III, sul trono dal 983 al 1002 (ricognizione dell'anno 1000); una del
successore Enrico II, regnante dal 1004 al 1024 (ricognizione dell'anno 1017),
una da attribuire a Enrico IV o V, coniata in un lasso di tempo che va dal 1056
al 1125 (ricognizione dell'anno 1100). Tutti coloro che hanno esaminato il
Santo nel corso dei secoli passati hanno desiderato lasciare una traccia, a
futura memoria. Anche gli studiosi del 1979, dopo aver esaminato le quattro
antiche monete, hanno deciso di lasciare la propria traccia per eventuali
futuri studiosi, collocando nell'urna monete italiane coniate nell'anno
dell'ultimo accesso.
LE 4 MONETE, ANZI 6. In realtà le antiche monete rinvenute, ad
un esame superficiale, sembrerebbero essere sei, ma due dischetti metallici
sono ben strani: una insolita fusione di oro e, guarda caso, granuli di piombo.
Sembrarono proprio monete a chi vide la salma per la prima volta, dopo sei
secoli e a lume di candela, nel 1755. In quell'anno si fece la successiva
ricognizione della reliquia del Santo dopo che, per oltre seicento anni, era
rimasta nel buio della sua custodia di pietra. Infatti, con il precedente
accesso del 1100, constatato che il corpo era ancora lì, si decise di rendere
il furto impossibile. Le urne in pietra dei Santi Liberio, Ciriaco e Marcellino
furono definitivamente sigillate e la Cripta dei Protettori fu chiusa per
sempre da sbarre di ferro, conficcate nella pietra e prive di cancello di
accesso. Si creò così un'area impenetrabile dove nessuno mise piede per oltre
mezzo millennio, dal 1100 al 1755. In una notte del 1755 un fulmine
penetrò nella cripta e danneggiò la base in pietra: nel varco si introdusse
carponi un canonico che, a lume di candela, verificò se fosse ancora presente
il Santo nell’urna. La misura di sicurezza definitiva, per quanto drastica,
aveva funzionato e il corpo era ancora al suo posto, perfettamente conservato.
A questo punto, dopo una sommaria ricognizione dello stato del Santo, si decise
di modificare l'antico sarcofago in pietra, aprendone una parete e creando la
teca in legno e vetro che consentiva l'adorazione della venerata reliquia. Nel
XVII secolo si protrassero dotte disquisizioni sull'identificazione del corpo
col Giuda Ciriaco che aveva ritrovato la Vera Croce e che divenne martire del
nell'Anno del Signore 363, al tempo dell'imperatore Giuliano, oppure
altro Ciriaco martire nel 133 d.C. La ricognizione del 1755, per quanto
ufficiale, fu però affidata ad un medico il quale si limitò a descrivere la
salma, constatandone l'ottimo stato di conservazione senza indagine storica
degli altri reperti. Nessuno indagò sulle apparenti “sei monete” che, se
accuratamente controllate, avrebbero consentito di stabilire che con il corpo era
giunto a noi anche il mezzo del suo supplizio, simboleggiato dai due dischi
metallici ottenuti mescolando piombo con oro e inseriti nel sepolcro sin dalla
notte dei tempi, per identificare senza dubbio il corpo del Martire.
“
tratto da
http://www.novena.it/calendario_santi/maggio/santo_maggio04.htm
Chi fu in realtà S. Cirìaco, che la città di
Ancona festeggia oggi come suo patrono? Fu vescovo della città adriatica o di
Gerusalemme, oppure di entrambe, in tempi successivi? Secondo un testo
apocrifo, già noto a S. Gregorio di Tours, ai lavori per il ritrovamento della
Croce di Cristo nella città santa, promossi dal vescovo di Gerusalemme e dalla
pia madre dell'imperatore Costantino, Elena, avrebbe assistito un ebreo di nome
Giuda. Tra i primi miracolosi effetti prodotti dal santo legno sarebbe da
annoverarsi la conversione di questo ebreo.
Mutato il nome di Giuda con quello di Ciriaco (nome di origine greca, che vuol dire «patrizio», assai diffuso in tutto il mondo romano), dopo aver percorso le vie della Palestina, fu eletto vescovo della città santa, e come tale avrebbe subito il martirio, insieme con la madre di nome Anna, durante la persecuzione di Giuliano l'Apostata. Ma la tradizione anconitana, suffragata da cospicue testimonianze di culto e antichissimi monumenti, e raccolta dallo stesso Martirologio Romano, concorda col testo apocrifo sopra citato soltanto nella prima parte.
Appena convertitosi, probabilmente per sottrarsi all'ostilità dei suoi vecchi correligionari, Giuda, assunto il nome di Ciriaco in occasione del battesimo, avrebbe abbandonato la Palestina per stabilirsi in Italia, approdando finalmente ad Ancona. Qui fu eletto vescovo, in un'epoca di straordinaria fioritura del cristianesimo, da poco uscito dalla clandestinità con l'editto di Milano. Dopo un lungo episcopato, Ciriaco, carico di meriti, volle compiere un ultimo pellegrinaggio nella Terrasanta, per rivedere il paese di Gesù e della sua stessa giovinezza. Qui lo avrebbe atteso la spada dell'ultimo persecutore romano, Giuliano l'Apostata, e il santo vegliando avrebbe colto la palma del martirio. Più tardi le reliquie del vescovo sarebbero giunte fortunosamente ad Ancona, chiuse in una cassa sospinta dalle onde del mare fino al porto. Per ricordare questa leggenda, il 4 maggio nel duomo anconitano vengono distribuiti mazzetti di giunchi benedetti.
Tra le testimonianze dell'antico culto reso ad Ancona a S. Ciriaco vi è la riproduzione dell'immagine del santo nelle monete della zecca anconitana e in monumenti. La stessa cattedrale, già dedicata a S. Lorenzo, nel secolo XIV assunse definitivamente il titolo del santo patrono. La stupenda chiesa, che domina la città adriatica dall'alto del colle del Guasco, si offre per prima allo sguardo di chi arriva ad Ancona per terra o per mare, e gli rammenta il nome del santo vescovo approdato anch'egli alla città adriatica dapprima come esule, poi come pastore.
Mutato il nome di Giuda con quello di Ciriaco (nome di origine greca, che vuol dire «patrizio», assai diffuso in tutto il mondo romano), dopo aver percorso le vie della Palestina, fu eletto vescovo della città santa, e come tale avrebbe subito il martirio, insieme con la madre di nome Anna, durante la persecuzione di Giuliano l'Apostata. Ma la tradizione anconitana, suffragata da cospicue testimonianze di culto e antichissimi monumenti, e raccolta dallo stesso Martirologio Romano, concorda col testo apocrifo sopra citato soltanto nella prima parte.
Appena convertitosi, probabilmente per sottrarsi all'ostilità dei suoi vecchi correligionari, Giuda, assunto il nome di Ciriaco in occasione del battesimo, avrebbe abbandonato la Palestina per stabilirsi in Italia, approdando finalmente ad Ancona. Qui fu eletto vescovo, in un'epoca di straordinaria fioritura del cristianesimo, da poco uscito dalla clandestinità con l'editto di Milano. Dopo un lungo episcopato, Ciriaco, carico di meriti, volle compiere un ultimo pellegrinaggio nella Terrasanta, per rivedere il paese di Gesù e della sua stessa giovinezza. Qui lo avrebbe atteso la spada dell'ultimo persecutore romano, Giuliano l'Apostata, e il santo vegliando avrebbe colto la palma del martirio. Più tardi le reliquie del vescovo sarebbero giunte fortunosamente ad Ancona, chiuse in una cassa sospinta dalle onde del mare fino al porto. Per ricordare questa leggenda, il 4 maggio nel duomo anconitano vengono distribuiti mazzetti di giunchi benedetti.
Tra le testimonianze dell'antico culto reso ad Ancona a S. Ciriaco vi è la riproduzione dell'immagine del santo nelle monete della zecca anconitana e in monumenti. La stessa cattedrale, già dedicata a S. Lorenzo, nel secolo XIV assunse definitivamente il titolo del santo patrono. La stupenda chiesa, che domina la città adriatica dall'alto del colle del Guasco, si offre per prima allo sguardo di chi arriva ad Ancona per terra o per mare, e gli rammenta il nome del santo vescovo approdato anch'egli alla città adriatica dapprima come esule, poi come pastore.
SAN CIRIACO,
Vescovo e Martire
Patrono di Ancona
Fece ritrovare la Croce di Gesù sul Monte Calvario
Tratto da
San Ciriaco è festeggiato il 4 maggio. Era un rabbino ebreo, che si
convertì al cristianesimo quando, facendo ritrovare a Sant'Elena, madre dell'imperatore
Costantino, la croce di Gesù sepolta sul Calvario, avvenne il miracolo della
risurrezione di un morto adagiato sulla croce di Gesù da Sant'Elena, che
chiedeva al Signore quale delle tre croci ritrovate fosse quella di Gesù (le
altre due erano dei due ladroni). Divenne Vescovo di Ancona e morì martire a
Gerusalemme.
Una recentissima rilettura degli Atti e la
ricognizione canonica del suo corpo ha confermato la tradizione costante. Egli
era un Ebreo, nato a Gerusalemme; aiutò Sant'Elena, la madre di Costantino, a
ritrovare la Croce di Gesù. Convertitosi, ebbe la dignità di Vescovo e come
sede, Ancona: eletto probabilmente a tale incarico per la sua partecipazione al
ritrovamento della croce, e trovandosi in Ancona al tempo della vacanza della Cattedra
di questa città. Morì a Gerusalemme, dove si era recato in pellegrinaggio, al
tempo dell'imperatore Giuliano l'Apostata, il 4 maggio 363. La sua salma venne
trasferita in Ancona a cura e per iniziativa di Galla Placidia, circa
settant'anni dopo. Con San Ciriaco furono martirizzati la madre, Anna, e un
incantatore di serpenti, Ammonio.
Del Vescovo Ciriaco si conosce qualche notizia e
precisamente la data della morte, avvenuta a seguito del martirio sopportato
nell'anno secondo dell'imperatore Giuliano detto l'Apostata. L'attribuzione
della Cattedra Anconitana a San Ciriaco è fondata sulla costante tradizione e
sulla mancata rivendicazione da parte di altre Chiese Orientali od Occidentali;
più certa è la sua dignità vescovile, affermata, oltre che dai martirologi e
degli Atti anche da un testo della prima metà del sec. VI, in cui è
riconosciuto come pastore ottimo di popoli cristiani. Testo che era conosciuto
a Costantinopoli ed usato nella liturgia del Venerdì Santo o in quella della
festa della Croce che si celebrava nella Quaresima, composto da Romano il
Melode, diacono della stessa Chiesa. San Ciriaco morì a Gerusalemme dove si era
recato per visitare i Luoghi Santi. Si cercò prima di convincerlo ad aderire al
paganesimo; di fronte alla sua costanza della Fede si tentò di piegarlo
inutilmente con diversi tormenti, sino a versargli piombo fuso in bocca ed
essendo a questi sopravvissuto, ebbe la morte percuotendo il suo capo con un
ferro, forse una roncola, procurandogli una frattura cranica. Questi tormenti
sono stati accertati dagli esami radiologici e chimici eseguiti nella
ricognizione delle spoglie, avvenuta nel 1979.
La salma del Martire fu sepolta a Gerusalemme, in una grotta del Monte Calvario; fu traslata in Ancona, probabilmente nel 433 o 435, a cura e per interessamento di Galla Placidia in sostituzione delle reliquie di Santo Stefano - richieste dagli anconitani - e deposta nella Chiesa che la stessa Augusta aveva fatto erigere in onore del Protomartire, la seconda con questo titolo. In questa basilica rimase sino al Mille, quando, in occasione della donazione alla Chiesa Anconitana della basilica palatina di San Lorenzo, che era nel recinto dell'acropoli, vi fu traslato unitamente alla Cattedra ed in questa Chiesa, oggi intitolata a San Ciriaco, ancora riposa.
La salma del Martire fu sepolta a Gerusalemme, in una grotta del Monte Calvario; fu traslata in Ancona, probabilmente nel 433 o 435, a cura e per interessamento di Galla Placidia in sostituzione delle reliquie di Santo Stefano - richieste dagli anconitani - e deposta nella Chiesa che la stessa Augusta aveva fatto erigere in onore del Protomartire, la seconda con questo titolo. In questa basilica rimase sino al Mille, quando, in occasione della donazione alla Chiesa Anconitana della basilica palatina di San Lorenzo, che era nel recinto dell'acropoli, vi fu traslato unitamente alla Cattedra ed in questa Chiesa, oggi intitolata a San Ciriaco, ancora riposa.
Il corpo di San Ciriaco è INCORROTTO da 1700 anni.
Santo Giacomo
Diacono Martire a Bergamo per mano degli eretici ariani (verso il 380)
Tratto
http://bergamo-ortodossa.blogspot.it/2013/05/san-giacomo-diacono-martire-di-bergamo.html
tono 1
composto dall'ipodiacono
Claude Lopez-Ginisty[1][1]
Diacono di Bergamo, un giorno durante
un ufficio, * mentre stavi predicando la parola di Cristo, * un gruppo di
Ariani entrò nel luogo santo, * e ti uccise per odio della ortodossia. * O
santo martire Giacomo dalla fede retta e giusta * chiedi al Signore di avere di
noi grande misericordia!
Kontakion, tono 1
Essendo stato in terra amico dei
poveri, degli orfani e delle vedove, qual servo buono e
fedele prendi ora parte alla gioia del tuo Signore nel Regno, o
Giacomo esempio dei diaconi e vanto di Bergamo, supplicalo di salvare le
anime nostre!
Bergamasco
convertito al cristianesimo, fu chierico ed espletò il suo servizio presso la
basilica alessandrina conducendo vita irreprensibile. Grazie alla sua eloquenza
conquistò molti pagani alla fede cristiana. Essendo diacono già da vent’anni,
mentre predicava fu assalito in piena basilica da un gruppo di ariani fanatici
che lo percossero fino ad ucciderlo precipitandolo dal pulpito fra lo sconcerto
dei fedeli. Il triste evento ebbe luogo il 4 maggio dell’anno 380, secondo
quanto asseriva l’iscrizione latina incisa sulla sua tomba un secolo dopo la
sua morte. Giacomo fu ritenuto santo dai fedeli e per diverso tempo la sua
tomba fu oggetto di venerazione. Indi se ne perdette quasi la memoria. Nel 1291
tuttavia le sue ossa furono rinvenute nella basilica alessandrina; il frate
Branca, presente all’esumazione, constatò che il teschio presentava evidenti
segni di violenza. Le reliquie di San Giacomo sono ora sotto l’altar maggiore
della cattedrale di Bergamo. Il suo martirio poté avvenire prima dell’anno 380,
al tempo dell’episcopato bergamasco di San Viatore, quando l’eretico Aussenzio
si era insediato sul soglio metropolita di Milano; si è peraltro supposto che
il delitto fosse accaduto pochi anni dopo, quando a Milano l’ariano Aussenzio
II si oppose per qualche tempo a Sant’Ambrogio.
Santo Venerio
Vescovo di Milano ed amico di San
Giovanni Crisostomo (verso il 408)
Martirologio Romano: A Milano, san
Venerio, vescovo, che, discepolo e diacono di sant’Ambrogio, inviò chierici in
aiuto ai vescovi d’Africa e si prese cura di san Giovanni Crisostomo mentre si
trovava in esilio.
Tratto
da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/52010
San Venerio era accanto ad Ambrogio,
quando questi morì. Gli fu secondo successore (400 - 408), dopo Simpliciano. Ci
testimonia la vivacità della Chiesa ambrosiana in quegli anni e la stima di cui
era circondata.
Sollecitato dai vescovi africani (sinodo di Cartagine del 18 giugno 401), che soffrivano per la crisi di vocazioni sacerdotali, non esitò ad inviare alcuni presbiteri e diaconi ambrosiani in loro aiuto. E non ebbe timore di mandare i migliori: tra questi primi nostri «fidei donum» ci fu Paolino, che, sollecitato proprio da Sant’Agostino, scrisse la prima Vita di Sant’Ambrogio! Non calcolava, quando c’era di mezzo la verità: quando San Giovanni Crisostomo fu cacciato in esilio per la sua condanna della corruzione imperiale, egli lo difese strenuamente, insieme a papa Innocenzo I e a Cromazio di Aquileia. Non fu geloso del suo potere, poiché per lui era importante il servizio dei fratelli: per questo non si oppose, quando la Chiesa di Aquileia volle erigersi a diocesi autonoma da Milano. In quegli anni difficili (i Visigoti di Alarico scorrazzavano per l’Italia, senza che gli eserciti romani riuscissero a fermarli) Venerio seppe fare onore al suo maestro: anch’egli sostenne il popolo con la sua parola (era di una rara eloquenza), incoraggiando a tenere fisso lo sguardo su colui che solo può consolare e sempre vincere il male, come gli aveva insegnato Ambrogio: «Tutto abbiamo in Cristo. Tutto è Cristo per noi».
Sollecitato dai vescovi africani (sinodo di Cartagine del 18 giugno 401), che soffrivano per la crisi di vocazioni sacerdotali, non esitò ad inviare alcuni presbiteri e diaconi ambrosiani in loro aiuto. E non ebbe timore di mandare i migliori: tra questi primi nostri «fidei donum» ci fu Paolino, che, sollecitato proprio da Sant’Agostino, scrisse la prima Vita di Sant’Ambrogio! Non calcolava, quando c’era di mezzo la verità: quando San Giovanni Crisostomo fu cacciato in esilio per la sua condanna della corruzione imperiale, egli lo difese strenuamente, insieme a papa Innocenzo I e a Cromazio di Aquileia. Non fu geloso del suo potere, poiché per lui era importante il servizio dei fratelli: per questo non si oppose, quando la Chiesa di Aquileia volle erigersi a diocesi autonoma da Milano. In quegli anni difficili (i Visigoti di Alarico scorrazzavano per l’Italia, senza che gli eserciti romani riuscissero a fermarli) Venerio seppe fare onore al suo maestro: anch’egli sostenne il popolo con la sua parola (era di una rara eloquenza), incoraggiando a tenere fisso lo sguardo su colui che solo può consolare e sempre vincere il male, come gli aveva insegnato Ambrogio: «Tutto abbiamo in Cristo. Tutto è Cristo per noi».
Tratto da
http://www.treccani.it/enciclopedia/santo-venerio_%28Enciclopedia-Italiana%29/
VENERIO, santo. - Discepolo
di S. Ambrogio, succedette a Simpliciano sulla cattedra episcopale di Milano
che governò dal 400 al 408, beneficiando della posizione eccezionale che
avevano conferito alla chiesa milanese l'importanza politica della città e
l'azione di S. Ambrogio. Da questo punto di vista vanno interpretati i suoi
rapporti con papa Anastasio I, che ebbe a scrivergli per invitarlo ad accettare
la condanna dell'origenismo; con i vescovi africani, che ebbero a rivolgersi a
lui (401), come a papa Anastasio, a proposito del trattamento da farsi ai preti
e ai vescovi donatisti convertiti; infine, con lo stesso Giovanni Crisostomo,
che ebbe a scrivergli (aprile 404) dal suo esilio. La sua festa si celebra il 4
maggio.
Bibl.: J. Van den
Gheyn, La lettre du pape Anastase I à S. Venerius, in Revue
d'hist. et de litt. relig., 1899, pp. 1-12.
Secondo la vita di sant'Ambrogio scritta da
Paolino di Milano Venerio era un diacono della Chiesa milanese e si trovava al
capezzale del santo poco prima della sua morte, il 4 aprile 397, quando fu
decisa, con l'assenso del moribondo, la successione sulla cattedra milanese di
Simpliciano (2)
Venerio succedette come vescovo di Milano proprio
a Simpliciano, morto prima di novembre 400 [3 probabilmente già
durante l'autunno o l'inverno 400/401. Infatti, in una lettera che Paolino di
Nola scrisse a Delfino di Bordeaux tra novembre 400 e l'inizio della primavera
del 401, Venerio è qualificato come novus episcopus; inoltre è già
conosciuto come vescovo milanese in un concilio celebrato a Cartagine il 16
giugno 401. Dalla lettera di san Paolino si evince che Venerio aveva scritto al
vescovo nolano per comunicare la sua ordinazione episcopale.
Venerio fu il destinatario, assieme a papa
Anastasio I, di una lettera scritta il 16 giugno 401 dai membri del concilio
cartaginese, che informavano i due prelati delle difficoltà in cui versava la
Chiesa africana per la mancanza di preti, che li obbligava a consacrare gli ex
donatisti Nella sessione del 13
settembre 401, gli atti del concilio africano accennano alla risposta di papa
Anastasio, ma non a quella di Venerio. Tuttavia, secondo quanto racconta
Paolino, il biografo di sant'Ambrogio, ancora diacono, venne inviato da Venerio
in Africa e in seguito, su richiesta di sant'Agostino scrisse la vita di Ambrogio.
Tra aprile e dicembre 401 Venerio ricevette
una lettera di papa Anastasio, che lo sollecitava a sostenere l'anatema
lanciato contro le opere di Origene giudicate blasfeme, e la cui lettura doveva
essere impedita. Venerio è citato in un'altra lettera di papa Anastasio a
Giovanni di Gerusalemme, e nella Apologia contro Rufino san Girolamo lo
menziona al terzo posto tra i protagonisti della condanna di Origene per eresia
, dopo Anastasio di Roma e Teofilo di Alessandria e prima di Cromazio
d'Aquileia
Nel 404 Venerio ricevette una lettera di
Giovanni Crisostomo che gli esponeva i suoi contrasti con Teofilo di
Alessandria e descriveva i tumulti avvenuti a Costantinopoli nella notte di
Pasqua del 404; la lettera, indirizzata anche a papa Innocenzo I e a Cromazio
d'Aquileia, fu scritta prima dell'esilio del Crisostomo (ossia prima del 9
giugno 404), con lo scopo di fare appello ai vescovi dell'Occidente perché la
sua causa fosse giudicata da un tribunale imparziale. In seguito a questo
appello, venne celebrato un sinodo, probabilmente a Roma prima dell'estate 406;
la lettera sinodale venne firmata da tutti i presenti, tra cui anche Venerio di
Milano, i quali chiedevano il ristabilimento di Giovanni Crisostomo sulla sua
sede prima di procedere contro di lui con un processo legittimo.
Durante il suo esilio (giugno 404 - settembre
407), Giovanni Crisostomo scrisse una lettera a Venerio per ringraziarlo e per
invitarlo a continuare a sostenere la sua causa.
A Venerio è dedicato uno dei Carmina
di Magno Felice Ennodio [4 scritti prima del 521; l'autore
sottolinea la giovane età di Venerio in occasione della sua ordinazione e le
sue doti di eloquenza. A partire dall'elogio di Ennodio, alcuni autori hanno
erroneamente attribuito a Venerio il De sacramentis di sant'Ambrogio e i
XX sermones di Massimo di Torino.[5]
Secondo un antico Catalogus
archiepiscoporum Mediolanensium[6],
l'episcopato di Venerio si colloca tra quelli di Simpliciano, morto nel 400, e
di Marolo, vescovo di Milano prima del 431. Il medesimo catalogus gli
assegna 9 anni di governo e lo dice sepolto il 4 maggio [7] nella basilica di San Nazaro. Tradizionalmente, il suo episcopato
è assegnato agli anni 400-408 [8]
Una tradizione medievale, che non ha
fondamenti storici, associa Venerio all'aristocratica famiglia milanese degli
Oldrati.
Note
1.
Dal sito "Santi e Beati".
2.
^
Paolino di Milano, Vita Ambrosii, 46.
3.
^
Paoli, Les notices sur les évêques de Milan,
p. 225.
4.
^
Magno Felice Ennodio, Carmina, nº 197, in Monumenta Germaniae Historica, Auctores
antiquissimi, vol. VII, Berlino 1885, p. 163.
5.
^
Rimoldi, BS XII, col. 1010.
6.
^
Catalogus Archiepiscoporum
Mediolanensium,
Monumenta Germaniae Historica, Scriptores,
vol. VIII, Hannover 1848, p. 102.
7.
^
Depositus die 4 maii.
8.
^
Pius
Bonifacius Gams,
Series episcoporum Ecclesiae Catholicae, Leipzig
1931, pp. 795.
Tratto dal
Quotidiano Avvenire
Per essere davvero "cattolica" ogni Chiesa locale
deve saper coltivare profondi rapporti di fraternità con le altre comunità in
tutto il mondo, prendendosi cura di quelle che hanno più bisogno di sostegno.
D'altra parte questo avveniva già in epoca apostolica e nei primi secoli, come
ci ricorda la figura di san Venerio di Milano. Si trovava al capezzale di
sant'Ambrogio alla sua morte il 4 aprile 397 e fu il suo secondo successore
dopo Simpliciano: il suo episcopato molto probabilmente iniziò nel 400 e durò
fino al 408 o 409. Nel 401 ricevette una richiesta di aiuto da Cartagine: alla
Chiesa locale mancavano i sacerdoti. Tra i preti e i diaconi che vennero
mandati - quasi come "fidei donum" - da Venerio in Africa c'era anche
Paolino, che poi scrisse una vita di sant'Ambrogio. Venerio, inoltre, sostenne
san Giovanni Crisostomo durante il suo esilio.
Santo Niceforo
l’esicasta italiano ed ortodosso difensore dell’ortodossia di fronte alla
proposta di “unia” a Lione e monaco sul monte Athos
S. Niceforo l’Esicasta nel contesto dei rapporti
tra il Monte Athos e la Calabria
tratto da http://www.ortodoxia.it/S.Niceforo%20l%27esicasta.htm
Tu certamente conosci s. Niceforo, che ha trascorso lunghi anni
nel deserto e nell’esichia e che in seguito dimorò nei luoghi più solitari
della santa Montagna senza concedersi tregua. Egli ci ha tramandato la pratica
della sobrietà dopo essersi nutrito degli scritti dei Padri». Con queste parole
s. Gregorio Palamas, nella prima delle sue Triadi in difesa dei santi
esicasti, ci ha delineato, nei tratti essenziali, il più antico ritratto di
questo santo in rapporto alla sobrietà, della quale egli era stato un iniziato
– se ne nutrì dapprima alla scuola dei Padri –, un cultore –, la praticò a sua
volta nell’esichia – ed un maestro – la trasmise infine nel suo magistero
ascetico. Nella seconda Triade, poi, l’arcivescovo di Tessalonica
precisa che Niceforo aveva reso la sua “bella confessione” davanti al primo dei
Paleologhi, colui “che pensava conforme ai latini” (Michele VIII) e che per
questo era stato esiliato. Questa notizia ci offre un appiglio sicuro per la
sua cronologia – siamo pertanto nel 1276-77, gli anni cruciali della spedizione
punitiva dell’italiano Licario per reprimere l’opposizione degli Aghioriti
all’unione di Lione – e ci apre ulteriori spiragli conoscitivi, consentendoci
di identificarlo con il Niceforo autore, con il monaco Clemente, suo compagno
di sventure, di una relazione scritta (diavlexi) sul processo da essi subito
davanti al patriarca latino e legato papale, il domenicano Tomaso Agni da
Lentini, a S. Giovanni d’Acri (la greca Tolemaide).
Possiamo così circoscrivere l’ambito spaziale della sua
esistenza: arresto all’Athos, cinque mesi e mezzo di carcere a Costantinopoli,
trasferimento nell’ultimo baluardo latino in Terrasanta per il giudizio,
conseguente esilio a Cipro, probabile permanenza – ipotizzata da Antonio Rigo –
al Monte S. Aussenzio in Bitinia, centro della resistenza monastica all'unione
con Roma ed infine ritorno all’Athos, dove Niceforo chiuse la sua esistenza
terrena, nel proprio esicasterio, tradizionalmente posto nei dintorni di Lavra.
Non risulta infatti che la sua ascesi solitaria abbia avuto, come esito
naturale – secondo una tipologia evolutiva estremamente frequente –, il
formarsi intorno a lui di un agglomerato di vita comunitaria: nessuna fonte gli
attribuisce il titolo di igumeno, ma unicamente gli appellativi di monaco e di
prete. Del resto il suo amore appassionato per l’esichia, di cui è magistrale
espressione il suo rinomato Logos sulla custodia del cuore, rende
estremamente plausibile che, anche una volta pervenuto alla maturità
spirituale, egli non abbia impresso una svolta cenobitica al proprio itinerario
ascetico.
Per quanto riguarda invece le coordinate temporali, il fatto che
s. Gregorio Palamas lo annoveri tra gli «antichi tra i santi» induce a credere
ch’egli fosse di una generazione antecedente rispetto a quelli che
l’arcivescovo di Tessalonica enumera come gli interlocutori di Niceforo, cioè
s. Atanasio di Costantinopoli e s. Teolepto di Filadelfia, il maestro stesso
del Palamas. In conclusione gli estremi cronologici di Niceforo sarebbero da
porre – come propone il Rigo – tra il primo ed il penultimo decennio del XIII secolo:
egli risulta in tal modo un contemporaneo di s. Melezio (1208-1286), il
confessore dell’ortodossia al Monte Galesion. Più arbitraria ci sembra la
cronologia interna di Niceforo stabilita dallo studioso veneto, che pone il suo
ingresso all’Athos intorno al 1240 e la composizione del Logos sulla
custodia del cuore tra il 1270 ed il 1275.
Abbiamo volutamente trascurato sinora il problema – cruciale per
il nostro intervento – delle origini di s. Niceforo. S. Nicodemo l’Aghiorita,
nell’Acoluzia dei SS. Padri dell’Athos, lo definisce «in precedenza
latino», prima di abbracciare la fede ortodossa. L’Aghiorita non pare tuttavia
disporre di fonti diverse dalle nostre, cioè le testimonianze del Palamas nelle
Triadi, e non brilla certo per precisione nel riprenderle: basti pensare
che, nella Filocalia, pone Niceforo «fiorente poco prima del 1340». In
realtà l’arcivescovo di Tessalonica non lo dice espressamente di confessione
latina, ma «di stirpe di italiani», dei quali aveva poi abbandonato i «cattivi
dogmi» (la kakodoxia). Ci sembra pertanto tutt’altro che infondata la tesi che
fa di Niceforo – nonostante il parere contrario di Daniel Stiernon e dello
stesso Rigo – un greco di Calabria. Sarebbe in tal caso un figlio di
quell’ellenismo italiota, sempre più ristretto in aree linguistiche delimitate,
con una propria gerarchia episcopale – forzatamente inquadrata nella Chiesa di
Roma – in via di drastica riduzione, che non solo aveva dovuto accettare tutti
i dogmi latini, ma che nella grecità del proprio rito aveva subito un’ibridante
latinizzazione.
Ci sembra del resto suggestiva la prospettiva di vedere in
Niceforo una figura per un verso analoga e per l’altro specularmente opposta a
Barlaam di Seminara: analoga quanto alla migrazione materiale da Occidente in
Oriente ed opposta quando all’esito radicalmente diverso del medesimo
itinerario spirituale. Esso dovette consistere per entrambi in un agognato
ritorno alle proprie radici culturali e religiose, in un’immersione nelle
sorgenti pure dell’ellenismo, per sottrarsi alla soffocante ed invasiva
pressione filosofica e spirituale latina. Senonché la sopravvenuta estraneità
dell’ellenismo italiota rispetto al formalizzarsi della dottrina esicastica –
avvenuto nel frattempo in territorio metropolitano, in assoluta coerenza con i
suoi presupposti teologici, antropologici ed ascetici – determinava in Barlaam
l’errata convinzione che il suo spiritualismo nominalista, antitetico al
realismo della scolastica, rappresentasse l’autentica tradizione orientale. La
conseguente, diretta, e per lui traumatica, scoperta che invece quest’ultima
rappresentava un altro realismo, quello della partecipazione dell’uomo, nella
sua integrità pneumatosomatica, all’esperienza deificante della grazia
increata, provocherà il suo drastico, totale rifiuto dell’esicasmo, nella sua
teorica e nelle sue pratiche psicofisiche ormai consolidate. Il suo
predecessore Niceforo invece, un secolo prima, aveva assimilato così
profondamente la linfa purissima della propria originaria tradizione da
divenire uno dei teorici più autorevoli dell’esicasmo: aveva infatti sentito
persino l’esigenza di registrare e trasmettere agli altri, con l’apporto
creativo e personale del suo Logos, ciò che egli stesso aveva ricevuto.
Un indizio a favore di un’origine calabrese di Niceforo potrebbe
essere il suo stesso nome monastico. Le memorie sacre della santa Montagna
registrano infatti, ai loro primordi, un monaco calabrese di quel nome, dedito
dapprima ad forma estrema di eremitismo, ma passato poi sotto il giogo
dell’obbedienza nei confronti del grande Atanasio. Pur nell’assenza di
documentati riscontri cultuali, si tratta di una figura di rilevante interesse,
come tramite di congiunzione tra la zona monastica del Merkourion, nell’omonima
tourma nella Calabria settentrionale, e quella del Monte Athos, che
furono entrambe, in periodi successivi della sua vita, spazio sacro della sua
ascesi. Le testimonianze agiografiche su di lui, non sono dirette, ma
incrociate. Della fase calabrese della sua esistenza siamo informati dalla Vita,
di stesura tessalonicese, di s. Fantino il Nuovo, uno dei maggiori esponenti
del monachesimo greco della Calabria settentrionale, nello specifico
mercuriense, testo scoperto ed edito da Enrica Follieri: vi si nomina infatti
Niceforo come uno dei due discepoli che, dopo il 965, accompagnano il grande
Fantino nella sua migrazione in Grecia, dove, a Tessalonica appunto, si
concluderà, nel 974, la sua vicenda terrena.
Tutte le informazioni su Niceforo in nostro possesso, compresa
la conferma della sua discendenza spirituale da s. Fantino, ci vengono però
dalle due Vite di s. Atanasio l’Athonita, quella di Atanasio di Panagiou
– scritta tra il 1010 ed il 1025 – e quella anonima, composta tra il 1050 ed il
1150. In esse il suo discepolato fantiniano è non solo esplicitamente
dichiarato, ma viene altresì avvalorato dal suo stesso epiteto di Niceforo il
Nudo, che richiama uno dei tratti essenziali e caratteristici dell’ascesi del
grande Fantino. Quest’ultimo era stato per tutta la vita un irriducibile
nostalgico della solitudine, risospinto periodicamente nell’esichia, il cui
desiderio lo bruciava dentro come un fuoco e gli faceva compiere gesti estremi,
come la fuga dai monasteri che aveva fondato ed il rifiuto di qualsiasi
indumento. Questo periodico ritorno alla nudità incolpevole dei progenitori
avveniva in Fantino, ora per il naturale disfacimento del suo ruvido vestito
dopo periodi di errabonda vita sui monti, ora per esplicita scelta del santo,
come quando, al momento di scomparire per sempre dalla Calabria, dopo una
visione estatica dell’aldilà, egli si sfilò il vestito, con gesto provocatorio,
invitando i suoi cenobiti a fare altrettanto, nel presupposto che fuga dal
cenobio, per disperdersi nelle solitudini montane, e nudità integrale
rappresentassero un’endiadi ascetica.
Precisamente a questo errare nudo anche di Niceforo, insieme al
maestro, sui monti della Calabria, dimorando in luoghi inaccessibili, fa
riferimento il primo agiografo di Atanasio, che enfatizza tra l’altro il ruolo
di Niceforo accanto a Fantino, il quale lo mette persino a parte della
rivelazione estatica a lui concessa. Con un voluto parallelismo Atanasio di
Panagiou osserva che, mentre Fantino si fissa a Tessalonica, Niceforo, attratto
dalla fama di s. Atanasio passa all’Athos e si pone sotto la guida di
quest’ultimo. Aggregatosi così a coloro che vivevano nell’obbedienza di questo
cenobiarca – a sua volta grande estimatore dell’esichia –, egli ottiene dalla
sua condiscendenza di mantenere le proprie consuetudini eremitiche quanto
all’abito – gli è consentito di avere come unico indumento un tessuto tutto
lacero portato a foggia di lenzuolo, divenendo così quello che tecnicamente
veniva chiamato un sindonita – ed al vitto (si ciba infatti, solo dopo
il tramonto, di crusca salata e inumidita in acqua tiepida). Pur nella profonda
unità della politeia monastica, la diaita eremitica infatti si distingueva per
consuetudini peculiari relative proprio all’abito, limitato ad alcuni capi
essenziali, rispetto allo scrupolo cenobitico di indossare il costume monastico
nella totalità delle sue componenti, così ricche di valore simbolico, e ad un
particolare regime alimentare, ben più rigoroso, rispetto a quello del cenobio,
quanto ai cibi ed alle scansioni dei pasti. Si tratta precisamente di quella
che, nella Vita di s. Pietro di Atroa, viene chiamata la “regola più
severa”, l’akribestero kanon.
Questa tolleranza atanasiana si inquadra perfettamente nella sua
tipologia monastica: ben lungi dall’essere un “convertito” al cenobitismo –
come hanno affermato Eulogio Kourilas e, più recentemente, Julien Leroy – egli
era un portatore del modello ascetico-istituzionale microasiatico, maturato nel
“cuore” monastico dell’impero, cioè nelle aree a densa popolazione monastica
dell’Asia minore, la Bitinia ed il retroterra efesino, per superare l’endemica
tensione tra eremitismo e cenobitismo, salvaguardando i vantaggi offerti da
entrambe le vie. Le modalità di questa non facile sintesi consistettero
essenzialmente nel conferire piena legittimità istituzionale all’eremitismo
innestandolo sul tronco del cenobitismo: in questa sintesi microasiatica o
mediobizantina – come la chiama Rosemary Morris – che riprende la sapiente
tolleranza sempre dimostrata dalla legislazione privilegiante il cenobitismo –
quella ecclesiastica, con le prescrizioni basiliane, nel IV secolo, e quella
civile, con le Novelle giustinianee,
nel VI –, i cenobiti attratti dall’esichia potevano viverla ai margini del
cenobio, sotto il rigido controllo del suo superiore e continuando a dipendere
da esso per la vita liturgica. Espressione compiuta di questa sintesi fu la laura, diametralmente opposta, quanto a
profilo istituzionale, all’omologo palestinese del V-VI secolo: non più un
agglomerato di celle esicastiche con al centro un piccolo cenobio per i servizi
comuni, ma un grande cenobio dal quale dipende un limitato numero di
eremitaggi. Da quanto risulta dalle descrizioni del cenobio athonita di s.
Atanasio, chiamato, in virtù dell’inversione semantica appena spiegata, Megisth
Laura – fornite sia dalle Vite del santo sia dalla sua normativa
monastica, a noi pervenuta –, la figura dell’esicasta Niceforo rientra nel
novero di quel limitato e predeterminato numero di asceti, ai quali il santo
lasciava condurre, non troppo lontano dal cenobio, quella vita solitaria, che
anch’egli continuava a ritenere la più alta, ma ad un tempo anche la più
difficile e rischiosa, e pertanto consentita soltanto a pochi.
Successivamente però – e non inaspettatamente per noi, nel
contesto del processo evolutivo rapidamente in corso, in quegli anni, sulla
santa Montagna, dove monaci senza fissa dimora (anestioi), con i piedi nudi e
mai lavati (gimnopode e aniptopode), e con pesanti collari di ferro, entravano
a frotte nella mandra di Atanasio – Niceforo passa «dall’eccellenza
dell’eremia» (ta parasima ti erhmia), come si esprime Atanasio di Panagiou, a
quella nelle virtù del cenobio. Con un vero proprio rito di iniziazione
cenobitica – implicitamente descritto dal secondo biografo di s. Atanasio –
Niceforo si spoglia del suo lenzuolo per assumere l’abito, ed insieme il genere
di vita, del cenobita. Anche in questo caso il suo itinerario personale è
emblematico del percorso ascetico di un’intera categoria, quella degli esicasti
della santa Montagna, sino ad allora la componente indiscutibilmente egemone al
Monte Athos ed ora inesorabilmente destinata ad essere assorbita dal nuovo
cenobitismo riformato, ibridato di eremitismo, moderno anche nella dotazione di
inusitate risorse fondiarie per la generosità dei due basilei, Niceforo Focas
prima e Giovanni Zimisce poi. La sua personale “conversione” risulta pertanto
esemplarmente coincidente con la coeva assimilazione al modello cenobitico
degli esicasti di Chaldou, una specie di “riserva” dove i superstiti tenaci
estimatori della vita solitaria erano stati concentrati per vivere la loro
esichia con un minimo di lavoro collettivo, integrato dalla carità dei
monasteri. Tale agglomerato infatti, prima del 991, dovette trasformarsi
anch’esso in un cenobio, debitamente dotato di risorse fondiarie per il proprio
mantenimento.
È indicativo il confronto tra l’esito finale del percorso
ascetico dell’esicasta Niceforo, entrato proprio nel gregge di chi era accusato
di causare l’estinzione della vita solitaria, qual’era stata sino ad allora
praticata sulla santa Montagna, e l’irriducibile opposizione di quegli stessi
ambienti eremitici, che avevano prodotto, tra il 972 ed il 978, nella Vita
di s. Pietro l’Athonita – scritta da un
loro esponente, il monaco Nicola – un testo agiografico a tesi, un manifesto
ideologico in forma narrativa, per ribadire l’eccellenza dell’eremitismo
assoluto, del quale il biografato veniva presentato come il campione,
l’archetipo locale. Nella prospettiva di Nicola il passo compiuto da Niceforo
sarebbe stato equiparabile all’abbandono stesso dello stato monacale, nel
presupposto che il cenobio sia ancora parte del mondo: non è un caso che l’espressione
«monasteri del mondo», per indicare i cenobi, figuri nelle subdole parole che
il demonio, mascheratosi da angelo di luce, rivolge a s. Pietro per indurlo ad
abbandonare l’esichia al fine di giovare alla salvezza altrui nella via del
cenobio. Si potrebbe anche vedere, nell’arrendevolezza finale di Niceforo nei
confronti del modello monastico atanasiano, un tratto caratteristico del
monachesimo italo-greco, i cui maggiori esponenti passeranno dall’eremitismo al
cenobitismo precisamente sulla base dell’argomentazione addotta dal tentatore
per distogliere s. Pietro dalla propria ascesi solitaria. Con la variante però
che tale argomento – che cioè la salvezza di un’anima è più meritoria
dell’eroismo della solitudine –, figura sulla bocca non più del demonio, ma
dell’essere che rivela la volontà divina.
Dopo essere diventato, da campione dell’esichia, modello di
obbedienza, il calabrese Niceforo morì, forse ancor prima della fine del
secolo, se la menzione del grande Atanasio, registrata da entrambi gli agiografi
a proposito della traslazione delle sue reliquie, implica la presenza
all’evento dell’Athonita – scomparso a sua volta tragicamente il 5 luglio di un
anno tra il 997 ed il 1006 – e non piuttosto l’attribuzione a quest’ultimo
della costruzione del nuovo sepolcreto, nel quale i resti mortali di Niceforo
venivano trasferiti. In tale occasione si constatò che le ossa del santo
presentavano dei coaguli di miron, e si produsse pertanto nel monastero, al
momento della traslazione, un percepibile fenomeno di osmogenesi. Niceforo
entra così nella categoria dei santi mirovliti.
Con i due Nicefori, calabresi entrambi a mio parere, si apre e
si chiude il periodo per il quale le fonti agiografiche in nostro possesso – in
virtù dell’estesa rete di conoscenze e di interscambio di uomini, che
caratterizzava, nell’ecumene monastica romano-orientale, i rapporti tra le
diverse aree, anche geograficamente lontane – ci documentano una persistente
trama di rapporti tra il monachesimo aghioritico e quello calabro-greco, in
particolare quello della Calabria settentrionale. La riscontrata conoscenza, in
una di queste isole monastiche, di episodi avvenuti nell’altra, presuppone di
per sé un travaso di uomini, dato che a quell’epoca le notizie potevano
viaggiare solo tramite la mobilità umana. L’anonimo agiografo di s. Nilo di
Rossano, attivo nei primi decenni dell’XI secolo, ci informa che una tremenda
prova di obbedienza, imposta dal santo ai monaci del cenobio da lui appena
costituito – l’incendio delle vigne del monastero –, aveva suscitato al Monte
Athos una formidabile ammirazione, evidentemente per la ipotagi, la
sottomissione, di quei cenobiti e insieme per lo zelo, tutto studita, del
cenobiarca per l’obbedienza e la povertà. Tale annotazione fa presupporre
l’esistenza di uno spazio comune creato dalla condivisa professione monacale,
che annullava, per così dire, le distanze e nel quale pertanto, se circolavano
le notizie, doveva di conseguenza svolgersi un intenso traffico di persone,
cioè di monaci.
Un’indicazione convergente sul percorso inverso, di uomini ed
informazioni, dall’Athos all’Italia ellenofona ci viene poi dalla nota
autografa dello stesso Nilo, vergata su di un codice da lui trascritto, il
Crypt. B. b. I, relativa all’antico possesso del medesimo codice da parte di
Niceforo il Nudo, di cui si registra l’avvenuto decesso: è detto infatti «di
beata memoria». Se un monaco seminudo, avvolto in un lenzuolo lacero, scalzo e
con i piedi sporchi, era stato possessore di un manoscritto del Lausiakon di
Palladio, è palese l’inadeguatezza dei nostri parametri di comprensione e,
soprattutto di giudizio, in ordine a questi personaggi, così ferini e nel
contempo così acculturati.
S. Nilo e s. Atanasio, come si desume dalle rispettive Vite,
non si incontrarono mai, pur essendo contemporanei, anche se non coetanei:
Atanasio era di almeno un quindicennio più giovane di Nilo e morì forse qualche
anno prima della sua morte, avvenuta nel 1004. Non risulta pertanto arbitraria
una lettura sinottica di queste due figure, a partire anche soltanto dalla
concomitanza dei dati biografici, dai quali emerge un’analogia di ruoli nelle
rispettive aree monastiche. Entrambi, a differenza di altri – dei quali si dice
che compirono il percorso del sole, irradiando da oriente ad occidente, o quello
inverso –, sono sempre rimasti, nei loro molteplici spostamenti, nell’ambito di
quell’area dell’ecumene dei Romei, orientale od occidentale, nella quale
avevano visto la luce. S. Atanasio, lasciata la nativa Trebisonda, è iniziato
alla vita monastica nella zona del Monte Kyminas e si trasferisce poi al Monte
Athos, dove la sua esichia evolve nella fondazione di un cenobio. S. Nilo, a
sua volta, lasciata la natia Rossano, è iniziato alla vita monastica nella zona
del Merkourion, dove pratica a lungo l’esichia; si trasferisce poi presso il
podere familiare, situato nei dintorni dell’attuale S. Demetrio Corone, dove
fonda il cenobio dei SS. Adriano e Natalia e donde emigrerà poi verso nord,
risalendo la penisola, in terra latina, stabilendosi prima a Valleluce, presso
Capua, poi a Serperi, presso Gaeta, ed infine a Grottaferrata, alle porte di
Roma. Entrambi questi rakendutai, cioè “straccioni” in virtù dell’abito della
loro professione monastica, sul modello dei profeti vetero e neo-testamentari
hanno avuto influenti relazioni con i sovrani rispettivamente d’oriente (s.
Atanasio con Niceforo Focas e con Giovanni Zimisce) e d’occidente (s. Nilo con
Ottone III).
Soprattutto però il loro itinerario monastico appare
visibilmente parallelo, configurandosi per entrambi come il percorso di un
asceta bruciato dal fuoco per l’esichia, che perviene a dar vita ad un cenobio
senza deflettere dalla convinzione che il precedente genere di vita,
abbandonato per l’altrui vantaggio, rimane il più alto e profittevole e continuando
a perseguirlo, a livello personale, come ideale supremo. Nel contempo il
cenobitismo, al quale entrambi si piegano, riprende significativi tratti dello
spirito basiliano, chiaramente mediati dal rinnovamento studita. In alternativa
infatti ad una linea di pensiero, che vedeva nelle forme più estreme di ascesi
individuale – a scapito della stessa dinamica liturgico-sacramentale – la
chiave di accesso alla perfezione spirituale, la concezione basiliano-studita
pone l'azione liturgica come terzo pilastro, accanto all'obbedienza ed alla
laboriosità, della vita monastica. La memorabile definizione di quest’ultima,
pronunciata da s. Nilo a Montecassino: «Il monaco è un angelo e la sua opera è
misericordia, pace e sacrificio di lode» (con una ripresa, dal contesto
liturgico, della risposta all’ammonizione diaconale che precede l’anafora),
trova puntuale riscontro nel typikon
di s. Atanasio l'Athonita, che, in stretta analogia con l'aforisma niliano,
definisce la vita monastica una vocazione angelica, per il comune compito,
degli angeli come dei monaci, di lodare e glorificare Dio. è evidente che in questa definizione la
metafora isoangelica non si riferisce, come altrove nel lessico monastico,
all'anticipazione in terra della condizione escatologica dell'uomo, bensì
all'assimilazione del ceto monacale ai cori angelici nel cantare la gloria
divina, delineando in tal modo una concezione – precisamente quella promossa
dal rinnovamento studita – più ascetico-liturgica della vita monastica – in
quanto incentrata su lavoro e preghiera – che non teologico-antropologica.
Non sappiamo se alludendo al confluire all’Athos di Calabresi –
insieme a provenienti dalla stessa Roma, dall’Italia, da Amalfi, oltre che
dalla Georgia e dall’Armenia, tutti attirati della fama di Atanasio – i due
agiografi del santo (che in questo passo sottintendono le vicende, da noi
altrimenti conosciute, relative alla fondazione dei monasteri athoniti di
Iviron e degli Amalfitani) avessero in mente soltanto la figura di Niceforo il
Nudo, della quale peraltro poco più avanti avrebbero scritto, oppure fossero a
conoscenza del raccogliersi di altri monaci ellenofoni calabresi, attorno ad
Atanasio. Comunque un bio, questa volta italo-greco, ci informa, con una certa
precisione, del temporaneo ma significativo soggiorno di un altro monaco
calabrese sulla santa Montagna. Si tratta di s. Bartolomeo da Simeri, il
fondatore del monastero della Madre di Dio, la Nuova Hodigitria, detto
del Patir, nei dintorni di Rossano, nonché di quello del Salvatore Pantokrator
sull’acroterio in glossa phari nella città di Messina, entrambi sedi di
importanti archimandritati in età normanna. Costui, ci informa il suo
agiografo, dopo la fondazione del Patir rossanese – pertanto dopo il
1105 – si recò a Costantinopoli, dove fu benevolmente accolto dal basileu
Alessio I Comneno e dalla sua consorte Irene Ducena – siamo pertanto prima del
1118 –, e qui venne richiesto da un personaggio autorevole, assai vicino ai
sovrani, un tale Basilio Kalimeris, di recarsi al Monte Athos per farsi carico
della riforma del locale monastero di S. Basilio, di cui il predetto Basilio
era ktitwr, cioè fondatore-proprietario. Sembra persino che, nel momento in cui
s. Bartolomeo accettò di diventare igumeno di questo monastero, il potente
laico ktitwr del medesimo glielo abbia donato, sì che il monaco calabrese,
nell’assumerne la prostasia, ne divenne anche il proprietario. Per questo, come
lascia intendere l’agiografo, da allora (ektote) – dopo che, al momento di
ritornare in Calabria, Bartolomeo, in qualità di ktitor, vi ebbe nominato un
nuovo igumeno – questo monastero athonita fece parte del complesso di
fondazioni che dipendevano dall’autorità del cenobiarca del Patir (il
Padre, appunto, per antonomasia).
Il medesimo agiografo insinua poi che la denominazione “del
Calabrese”, attribuita a questo monastero, alluda proprio alla provenienza del
suo igumeno riformatore, secondo fondatore e nuovo proprietario, cioè allo
stesso Bartolomeo. Senonché un documento sicuramente anteriore alla venuta di
s. Bartolomeo all’Athos – ipomnima del Proto Paolo dell’ottobre 1080 – menziona
già questo monastero “del Calabrese”; ci si potrebbe pertanto spingere ad
ipotizzare – come fece Agostino Pertusi – che l’epiteto provenisse dal suo
primo ktitor e che pertanto lo stesso Basilio Kalimeris fosse un italiota, cioè
un italiano ellenofono, proveniente segnatamente dalla Calabria. D’altra parte
non è sicura la derivazione del nome di questa fondazione da uno dei suoi due
fondatori, in quanto un ulteriore documento databile al 1080 – l’atto di
donazione alla Grande Lavra del kellion di Prophourni a Karyes – lo designa con
un determinativo etnico, «dei Calabresi», facendo pensare ad un monastero
destinato ad accogliere, nella dimensione sin dalle origini panortodossa del
monachesimo aghioritico, monaci di quella nazionalità.
Nonostante l’assimilazione dottrinale al dogma latino dei greci
di Calabria – i quali, recuperati alla giurisdizione patriarcale romana,
poterono mantenere, in zone ristrette e peraltro in via di costante restringimento,
la propria identità rituale, distaccata però dall’effettiva appartenenza
ecclesiale –, è indubbio che a Costantinopoli, e pertanto anche nell’area
metropolitana, alla quale afferisce il Monte Athos, si sia continuato, ancora
per un certo periodo, a considerarli parte integrante dell’ecumene ortodossa.
Ce lo attesta l’Opusculum contra Francos, falsamente attribuito al
grande Fozio, ma in realtà posteriore alla contesa sugli azzimi esplosa nel
1054. Vi si afferma che, mentre il papa di Roma e gli altri cristiani
d’Occidente «sono da molto tempo fuori della Chiesa ed estranei alle tradizioni
evangeliche ed apostoliche, ... i Calabresi soli sono, sin dall’inizio,
cristiani ortodossi». Anteriore al 1112, quando viene citato da Giovanni di
Claudiopoli e da Niceta Seides,; questo passo verrà fedelmente ripreso, dopo il
1204, da Costantino Stilbes – cioè il metropolita Cirillo di Cizico – nel suo Memoriale
contro i Latini.
Questa percezione di una ortodossia dei Calabresi, ancor viva
nel XII secolo nel centro stesso dell’Ortodossia, appare già offuscata nel XIV,
nel sentire almeno di s. Gregorio Palamas, forse anche a causa dell’esperienza
personale di un ellenismo non più ortodosso, da lui avuta nell’aspra polemica
con Barlaam di Seminara. Ai suoi occhi la calabresità non è più sentita come
una garanzia di ortodossia dottrinale: un calabrese come Niceforo, anche se
ellenofono, è italo, cioè afferente all’Occidente cristiano, e, in quanto tale
kakodoxo, estraneo alla retta dottrina. Alla fine del XVIII secolo poi, sotto
la penna di s. Nicodemo l’Aghiorita, anche l’ellenofonia della Calabria – del
resto già da tempo estinta – è caduta nell’oblio più totale e pertanto un
italo-greco, a suo tempo ortodosso quanto al rito ma sostanzialmente cattolico
quanto al dogma, viene sentito e presentato semplicemente come un latino. Il
glorioso Occidente dei Romei, con i suoi apporti culturali all’ellenismo
medioevale e, soprattutto, con la sua originale esperienza monacale – ben
conosciuta in Oriente nelle persone dei due Elia, di s. Fantino, di s. Nilo e
di s. Bartolomeo –, non è più nella mente e nel cuore della tradizione della
Grande Chiesa, autorevolmente espressa, in due momenti successivi di riscoperta
della propria identità, dal Palamas e dall’Aghiorita.
Enrico Morini
Alma Mater Studiorum. Università di Bologna
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