Abraham and the Three Angels.
MOSAIC ARTIST, Italian Nave, centre aisle, south wall (detail) 1180s Mosaic Cathedral, Monreale
Santi
Gavino, Proto e Gianuario Martiri di Porto Torres
Tratto
da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/55250
Nel ‘Martirologio Romano’s. Gavino
viene celebrato il 30 maggio, data proveniente già dal Martirologio
Geronimiano.
Ma a Porto Torres, di cui è il santo patrono, s. Gavino è ricordato con gli altri Martiri Turritani, Proto e Gianuario, il 25 ottobre; inoltre la festa della città in onore dei santi patroni, si tiene la domenica di Pentecoste e il lunedì successivo. I tre martiri sono compatroni anche dell’archidiocesi di Sassari, la cui cattedrale è dedicata a s. Nicola di Bari.
Il nome Gavino deriva dal latino ‘Gabinus’, nome etnico che vuol dire ‘abitante di Gabium’, antica località del Lazio, per questo è conosciuto anche come Gabino, usato prevalentemente nell’Impero romano, come il padre di s. Susanna, s. Gabino (19 febbraio).
Comunque voler narrare le vicende terrene e il martirio di s. Gavino, è effettivamente arduo, per il numero di tradizioni locali, di compagni affiancatigli nel martirio, di luoghi di provenienza, di culto e celebrazioni in varie città sarde, per le epoche diverse in cui è menzionato; per semplificare, si dà qui la versione più accreditata, tralasciando le altre ipotesi, che vedono s. Gavino o Gabino affiancato nel martirio con Crispolo (di Nicomedia), con Crescenziano o Crisogono (di Aquileia) o secondo s. Gregorio Magno con Lussorio (Rossore), e per finire come presunto vescovo di Torres.
Nella basilica di San Gavino a Porto Torres, un pittore del XVII secolo ha rappresentato il martirio di Gavino, Proto e Gianuario; il primo è in divisa militare romana, gli altri due in abiti ecclesiastici, anziano con barba Proto e giovane Gianuario.
L’anonimo estensore della ‘Passio’ del XII sec., pervenuta dall’abbazia di Clairvaux, poté utilizzare le poche notizie riportate dal ‘Martirologio Geronimiano’ del VI secolo, cioè i loro nomi, la città e la data del martirio. Gavino era morto decapitato il 25 ottobre 303 ca. al tempo della persecuzione di Diocleziano; Proto e Gianuario ebbero stessa sorte il 27 ottobre, due giorni dopo.
Che Gavino fosse un soldato, e Proto un sacerdote e Gianuario un diacono, l’autore deve averlo dedotto da altre antiche fonti, oppure da tradizione orale tramandata localmente.
La ‘Passio’ narra che Proto sacerdote e Gianuario suo diacono, erano nati in Sardegna e allevati a Turris (in seguito Turres e poi Porto Torres), fondata nel 46 a.C., situata nel Golfo dell’Asinara, di fronte all’omonima isola; e predicavano il Vangelo sul Monte Agellus, quando fu pubblicato l’editto di Diocleziano e Massimiano, per la persecuzione contro i cristiani.
Alcuni pagani del luogo, irritati per la loro presenza, si recarono in Corsica, dove risiedeva il preside Barbaro, inviato nelle due grandi isole per fare applicare l’editto imperiale, e denunziarono la loro presenza.
Barbaro li fece arrestare e condurre alla sua presenza, alle loro convinte risposte, ordinò di portare Proto nelle isole ‘Cuniculariae’(arcipelago della Maddalena), mentre trattenne Gianuario con la speranza di convertirlo.
Trasferitosi in Sardegna a Turris, il preside Barbaro fece rientrare Proto riunendolo a Gianuario e ancora una volta, cercò di convincerli a ritornare al paganesimo.
Al loro fiero rifiuto li fece torturare, lacerando le loro carni con unghie di ferro; poi feriti furono messi in prigione, sotto la custodia di un soldato semplice di nome Gavino; il soldato di idee non ostili ai cristiani, colpito dal loro comportamento e dalle loro parole, li liberò chiedendo solo di ricordarsi di lui nelle loro preghiere
I due fuggitivi lasciarono la città e si rifugiarono in una caverna; il giorno seguente il preside Barbaro ordinò che gli fossero portati i due prigionieri, ma il soldato Gavino, professandosi cristiano, confessò di averli liberati.
Fu subito condannato a morte e mentre lo conducevano sul luogo del supplizio, lungo la strada incontrò una donna cristiana che l’aveva spesso ospitato, la quale gli diede un velo per bendarsi gli occhi; Gavino fu decapitato vicino al mare e il suo corpo gettato dalle rupi nelle onde, dove scomparve.
Dopo la morte Gavino apparve a Calpurnio marito della donna cristiana e dopo averlo aiutato a rialzare le sue bestie cadute, gli affidò il velo prestatogli, dicendo di restituirlo a sua moglie.
Quando l’uomo tornò a casa, trovò la moglie piangente per la morte di Gavino, ma Calpurnio non poteva crederci visto che l’aveva incontrato lungo la strada, tanto è vero che gli aveva dato il velo per lei; ma una volta spiegato il velo, si accorsero che era macchiato di sangue.
Poi il martire Gavino apparve ai due fuggitivi nella caverna, invitandoli a tornare a Turris per ricevere come lui il martirio; Proto e Gianuario obbedirono e furono decapitati il 27 ottobre, e i loro corpi seppelliti
Il 3 maggio c’è l’inizio di una festa per celebrare la traslazione dei corpi dei santi patroni a Porto Torres. Dalla Basilica di San Gavino, la più grande e antica delle chiese romaniche della Sardegna, parte una processione imponente che accompagna i “Corpi Santi”, cioè i simulacri lignei dei tre santi Gavino, Proto e Gianuario, fino alla chiesetta di Balai-vicino, detta anche di S. Gavino a Mare, dove adiacenti e comunicanti con la cappella, vi sono tre ambienti ricavati nella roccia, utilizzati come sepolcri in epoca romana, uno di questi sulla sinistra della chiesetta, sarebbe il sepolcro dei tre martiri.
Qui vengono lasciati fino a Pentecoste e la chiesa, chiusa per il resto dell’anno, diventa in questo periodo meta di continuo pellegrinaggio. La sera del giorno di Pentecoste con altra solenne processione i tre “Corpi Santi” vengono riportati nella Basilica di Monte Agellus, passando per il lungomare.
Infine il lunedì seguente, dopo la Messa solenne, una processione Eucaristica giunge fino al porto dove viene impartita la solenne benedizione.
Una leggenda, ignorando la ‘Passio’ che dice che il corpo di s. Gavino fu gettato a mare, racconta che i corpi furono scoperti nel Medioevo dal giudice Comita, che era stato colpito dalla lebbra; s. Gavino apparsagli in sogno, gli disse che se voleva guarire doveva cercare il suo corpo e quello dei compagni sepolti a Balai-vicino e portarli in un luogo migliore, costruendo una chiesa; così sorse l’attuale Basilica che risale all’inizio del XII secolo.
Ma un’altra ipotesi, dice che verso l’VIII-X secolo, l’antica cattedrale di Turris del 517, andò in rovina insieme con la città, a causa delle continue scorrerie dei Saraceni; quando grazie alle vittorie di Pisa e Genova sugli Arabi, il porto ricominciò a fiorire, una delle prime decisioni dei Giudici che si erano trasferiti all’interno, fu quella di costruire una nuova chiesa in onore dei tre martiri; e grazie al giudice Comita fu innalzata l’attuale Basilica, utilizzando materiale della precedente chiesa.
Un’altra leggenda, in contrasto con la ‘Passio’, dice che tutti e tre i martiri, dopo giustiziati furono gettati in mare e i loro corpi riaffiorarono proprio nel punto dove sorse poi la chiesetta di Balai-lontano, detta anche di San Gavino decollato.
Il culto per s. Gavino, oltre che in Sardegna è molto diffuso nella vicina Corsica, dove ben cinque paesi portano il suo nome; inoltre è da segnalare la presenza di chiese dedicate al santo, nella zona del Mugello in Toscana e in Campania.
È da segnalare che il culto dei sardi per il loro santo, ha portato ad un fatto singolare, l’intero mese di ottobre, il mese del martirio è per i sardi Santu Aini (Gavini).
Ma a Porto Torres, di cui è il santo patrono, s. Gavino è ricordato con gli altri Martiri Turritani, Proto e Gianuario, il 25 ottobre; inoltre la festa della città in onore dei santi patroni, si tiene la domenica di Pentecoste e il lunedì successivo. I tre martiri sono compatroni anche dell’archidiocesi di Sassari, la cui cattedrale è dedicata a s. Nicola di Bari.
Il nome Gavino deriva dal latino ‘Gabinus’, nome etnico che vuol dire ‘abitante di Gabium’, antica località del Lazio, per questo è conosciuto anche come Gabino, usato prevalentemente nell’Impero romano, come il padre di s. Susanna, s. Gabino (19 febbraio).
Comunque voler narrare le vicende terrene e il martirio di s. Gavino, è effettivamente arduo, per il numero di tradizioni locali, di compagni affiancatigli nel martirio, di luoghi di provenienza, di culto e celebrazioni in varie città sarde, per le epoche diverse in cui è menzionato; per semplificare, si dà qui la versione più accreditata, tralasciando le altre ipotesi, che vedono s. Gavino o Gabino affiancato nel martirio con Crispolo (di Nicomedia), con Crescenziano o Crisogono (di Aquileia) o secondo s. Gregorio Magno con Lussorio (Rossore), e per finire come presunto vescovo di Torres.
Nella basilica di San Gavino a Porto Torres, un pittore del XVII secolo ha rappresentato il martirio di Gavino, Proto e Gianuario; il primo è in divisa militare romana, gli altri due in abiti ecclesiastici, anziano con barba Proto e giovane Gianuario.
L’anonimo estensore della ‘Passio’ del XII sec., pervenuta dall’abbazia di Clairvaux, poté utilizzare le poche notizie riportate dal ‘Martirologio Geronimiano’ del VI secolo, cioè i loro nomi, la città e la data del martirio. Gavino era morto decapitato il 25 ottobre 303 ca. al tempo della persecuzione di Diocleziano; Proto e Gianuario ebbero stessa sorte il 27 ottobre, due giorni dopo.
Che Gavino fosse un soldato, e Proto un sacerdote e Gianuario un diacono, l’autore deve averlo dedotto da altre antiche fonti, oppure da tradizione orale tramandata localmente.
La ‘Passio’ narra che Proto sacerdote e Gianuario suo diacono, erano nati in Sardegna e allevati a Turris (in seguito Turres e poi Porto Torres), fondata nel 46 a.C., situata nel Golfo dell’Asinara, di fronte all’omonima isola; e predicavano il Vangelo sul Monte Agellus, quando fu pubblicato l’editto di Diocleziano e Massimiano, per la persecuzione contro i cristiani.
Alcuni pagani del luogo, irritati per la loro presenza, si recarono in Corsica, dove risiedeva il preside Barbaro, inviato nelle due grandi isole per fare applicare l’editto imperiale, e denunziarono la loro presenza.
Barbaro li fece arrestare e condurre alla sua presenza, alle loro convinte risposte, ordinò di portare Proto nelle isole ‘Cuniculariae’(arcipelago della Maddalena), mentre trattenne Gianuario con la speranza di convertirlo.
Trasferitosi in Sardegna a Turris, il preside Barbaro fece rientrare Proto riunendolo a Gianuario e ancora una volta, cercò di convincerli a ritornare al paganesimo.
Al loro fiero rifiuto li fece torturare, lacerando le loro carni con unghie di ferro; poi feriti furono messi in prigione, sotto la custodia di un soldato semplice di nome Gavino; il soldato di idee non ostili ai cristiani, colpito dal loro comportamento e dalle loro parole, li liberò chiedendo solo di ricordarsi di lui nelle loro preghiere
I due fuggitivi lasciarono la città e si rifugiarono in una caverna; il giorno seguente il preside Barbaro ordinò che gli fossero portati i due prigionieri, ma il soldato Gavino, professandosi cristiano, confessò di averli liberati.
Fu subito condannato a morte e mentre lo conducevano sul luogo del supplizio, lungo la strada incontrò una donna cristiana che l’aveva spesso ospitato, la quale gli diede un velo per bendarsi gli occhi; Gavino fu decapitato vicino al mare e il suo corpo gettato dalle rupi nelle onde, dove scomparve.
Dopo la morte Gavino apparve a Calpurnio marito della donna cristiana e dopo averlo aiutato a rialzare le sue bestie cadute, gli affidò il velo prestatogli, dicendo di restituirlo a sua moglie.
Quando l’uomo tornò a casa, trovò la moglie piangente per la morte di Gavino, ma Calpurnio non poteva crederci visto che l’aveva incontrato lungo la strada, tanto è vero che gli aveva dato il velo per lei; ma una volta spiegato il velo, si accorsero che era macchiato di sangue.
Poi il martire Gavino apparve ai due fuggitivi nella caverna, invitandoli a tornare a Turris per ricevere come lui il martirio; Proto e Gianuario obbedirono e furono decapitati il 27 ottobre, e i loro corpi seppelliti
Il 3 maggio c’è l’inizio di una festa per celebrare la traslazione dei corpi dei santi patroni a Porto Torres. Dalla Basilica di San Gavino, la più grande e antica delle chiese romaniche della Sardegna, parte una processione imponente che accompagna i “Corpi Santi”, cioè i simulacri lignei dei tre santi Gavino, Proto e Gianuario, fino alla chiesetta di Balai-vicino, detta anche di S. Gavino a Mare, dove adiacenti e comunicanti con la cappella, vi sono tre ambienti ricavati nella roccia, utilizzati come sepolcri in epoca romana, uno di questi sulla sinistra della chiesetta, sarebbe il sepolcro dei tre martiri.
Qui vengono lasciati fino a Pentecoste e la chiesa, chiusa per il resto dell’anno, diventa in questo periodo meta di continuo pellegrinaggio. La sera del giorno di Pentecoste con altra solenne processione i tre “Corpi Santi” vengono riportati nella Basilica di Monte Agellus, passando per il lungomare.
Infine il lunedì seguente, dopo la Messa solenne, una processione Eucaristica giunge fino al porto dove viene impartita la solenne benedizione.
Una leggenda, ignorando la ‘Passio’ che dice che il corpo di s. Gavino fu gettato a mare, racconta che i corpi furono scoperti nel Medioevo dal giudice Comita, che era stato colpito dalla lebbra; s. Gavino apparsagli in sogno, gli disse che se voleva guarire doveva cercare il suo corpo e quello dei compagni sepolti a Balai-vicino e portarli in un luogo migliore, costruendo una chiesa; così sorse l’attuale Basilica che risale all’inizio del XII secolo.
Ma un’altra ipotesi, dice che verso l’VIII-X secolo, l’antica cattedrale di Turris del 517, andò in rovina insieme con la città, a causa delle continue scorrerie dei Saraceni; quando grazie alle vittorie di Pisa e Genova sugli Arabi, il porto ricominciò a fiorire, una delle prime decisioni dei Giudici che si erano trasferiti all’interno, fu quella di costruire una nuova chiesa in onore dei tre martiri; e grazie al giudice Comita fu innalzata l’attuale Basilica, utilizzando materiale della precedente chiesa.
Un’altra leggenda, in contrasto con la ‘Passio’, dice che tutti e tre i martiri, dopo giustiziati furono gettati in mare e i loro corpi riaffiorarono proprio nel punto dove sorse poi la chiesetta di Balai-lontano, detta anche di San Gavino decollato.
Il culto per s. Gavino, oltre che in Sardegna è molto diffuso nella vicina Corsica, dove ben cinque paesi portano il suo nome; inoltre è da segnalare la presenza di chiese dedicate al santo, nella zona del Mugello in Toscana e in Campania.
È da segnalare che il culto dei sardi per il loro santo, ha portato ad un fatto singolare, l’intero mese di ottobre, il mese del martirio è per i sardi Santu Aini (Gavini).
Santo
Felice I papa e patriarca di Roma (269-274) che confessa la retta fede versus
et contra l’eresia di Paolo di Samosata (in alcuni codici proclamato martire)
Martirologio Romano: A Roma nel
cimitero di Callisto sulla via Appia, deposizione di san Felice I, papa, che
resse la Chiesa di Roma sotto l’imperatore Aureliano.
Tratto da
http://www.enrosadira.it/santi/f/felice1.htm
Felice
I, papa, santo, Romano (5
gennaio 269 - 30 dicembre 274), fu sepolto nella Cripta dei Papi, nel Cimitero
di Callisto. Sue reliquie insigni sono in S. Sisto a Via Appia in un cofanetto
murato nella parete sinistra .
M.R.: 30 maggio - San Felice primo, Papa e Martire, il cui giorno natalizio è ricordato il 30 dicembre, il quale, governò la Chiesa al tempo del Principe Aureliano.
M.R.: 30 maggio - San Felice primo, Papa e Martire, il cui giorno natalizio è ricordato il 30 dicembre, il quale, governò la Chiesa al tempo del Principe Aureliano.
Tratto da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/55150
Secondo
la breve biografia contenuta nel Liber Pontificalis Felice era romano, figlio
di un certo Costantino; eletto al sommo pontificato agli inizi del 269, stabilì
con un decreto che si celebrasse la Messa sulle "memorie" dei
martiri; durante l'impero di Aureliano ottenne la palma del martirio e fu
sepolto al secondo miglio della via Aurelia, in una basilica da lui stesso
edificata, il 30 maggio 274.
Parecchie di queste notizie sono false; non consta, infatti, che Felice sia morto martire, poiché il suo nome non fu inserito nella Depositio martyrum, ma in quella episcoporum, il che vuol dire che all'inizio del sec. IV non era venerato a Roma come martire. Il suo dies natalis non è il 30 maggio come dice il Liber Pontificalis e ripete il Martirologio Romano, ma il 30 dicembre; evidentemente l'anonimo compilatore lesse III Kal.iun. invece di III Kal.ian. Non è certo che abbia edificato una basilica sulla via Aurelia ed è sicuramente falso ch'egli sia stato sepolto sulla stessa via, perché la Depositio episcoporum attesta chiaramente che il suo sepolcro era nel cimitero di Callisto sulla via Appia. L'equivoco nacque dal fatto che sulla via Aurelia era realmente sepolto e venerato un martire Felice col quale fu identificato e confuso il papa. Anche del decreto liturgico attribuitogli dal Liber Pontificalis non si può affermare l'autenticità, come è certamente apocrifa la lettera che Felice avrebbe scritto alla Chiesa di Alessandria, un frammento della quale fu riferito da s. Cirillo d'Alessandria, e letto al concilio di Efeso (431): in realtà si tratta di un falso degli Apollinaristi. L'unica notizia certa su Felice rimane perciò il latercolo della Depositio episcoporum, e gli anni del suo pontificato.
Probabilmente egli dovette interessarsi della questione di Paolo di Samosata, perché fu lui a ricevere la lettera sinodale che il concilio di Antiochia del 268 aveva inviato al papa Dionigi che nel frattempo era morto. Fu infatti durante il governo di Felice che l'imperatore Aureliano, dopo la deposizione di Paolo, decise di assegnare i beni immobili della Chiesa antiochena a quei fedeli che erano in comunione con la Chiesa di Roma.
Parecchie di queste notizie sono false; non consta, infatti, che Felice sia morto martire, poiché il suo nome non fu inserito nella Depositio martyrum, ma in quella episcoporum, il che vuol dire che all'inizio del sec. IV non era venerato a Roma come martire. Il suo dies natalis non è il 30 maggio come dice il Liber Pontificalis e ripete il Martirologio Romano, ma il 30 dicembre; evidentemente l'anonimo compilatore lesse III Kal.iun. invece di III Kal.ian. Non è certo che abbia edificato una basilica sulla via Aurelia ed è sicuramente falso ch'egli sia stato sepolto sulla stessa via, perché la Depositio episcoporum attesta chiaramente che il suo sepolcro era nel cimitero di Callisto sulla via Appia. L'equivoco nacque dal fatto che sulla via Aurelia era realmente sepolto e venerato un martire Felice col quale fu identificato e confuso il papa. Anche del decreto liturgico attribuitogli dal Liber Pontificalis non si può affermare l'autenticità, come è certamente apocrifa la lettera che Felice avrebbe scritto alla Chiesa di Alessandria, un frammento della quale fu riferito da s. Cirillo d'Alessandria, e letto al concilio di Efeso (431): in realtà si tratta di un falso degli Apollinaristi. L'unica notizia certa su Felice rimane perciò il latercolo della Depositio episcoporum, e gli anni del suo pontificato.
Probabilmente egli dovette interessarsi della questione di Paolo di Samosata, perché fu lui a ricevere la lettera sinodale che il concilio di Antiochia del 268 aveva inviato al papa Dionigi che nel frattempo era morto. Fu infatti durante il governo di Felice che l'imperatore Aureliano, dopo la deposizione di Paolo, decise di assegnare i beni immobili della Chiesa antiochena a quei fedeli che erano in comunione con la Chiesa di Roma.
TRATTO
da
http://www.ilsussidiario.net/News/Cronaca/2017/12/30/SAN-FELICE-I-Santo-del-giorno-il-30-dicembre-si-ricorda-il-ventiseiesimo-Papa-della-storia/799291/
San Felice I Papa fu il ventiseiesimo Pontefice, in carica tra il 269 e il 274. La sua vita è avvolta nel mistero e non si conosce molto delle sue origini. Non aiuta il fatto che, molto spesso, la storiografia lo confonde con altri omonimi della storia, in particolare un Felice conosciuto come martire. È certo che è nato a Roma in una famiglia d’origine romana e che suo padre si chiamava Costanzo. Egli svolse il suo santo pontificato sotto l’imperatore Aureliano, in un’epoca in cui i cristiani subirono molte persecuzioni. Nel corso del suo pontificato egli si trovò a dover risolvere le diatribe con i cristiani di Antiochia i quali volevano destituire l’arcivescovo di Antiochia, sospettato di avere idee eretiche sul dogma della Santissima Trinità. L’intervento di Papa Felice I fu teso a decretare che tutti i beni immobili della Chiesa di Antiochia appartenevano a coloro che erano in comunione con la Chiesa di Roma. Inoltre, emise un altro importante provvedimento nel suo pontificato con il quale diffuse l’usanza di celebrare le messe per i martiri sulle tombe nelle quali essi erano sepolti, ovvero la cosiddetta liturgia della missa ad corpus. L’usanza liturgica di Felice I si evolse in seguito nella celebrazione della memoria dei martiri all’interno delle basiliche costruite sulle loro tombe. Il sepolcro di San Felice I si trova nel cimitero di Callisto nella via Appia e non, come dicono alcune fonti, nella via Aurelia.
data dedicata al Santo, si celebra la messa solenne. Il culmine della celebrazione avviene con la processione in presenza delle autorità civili e religiose.
Santo Esuperanzio Vescovo di Ravenna (verso il 477)
Martirologio
Romano: A Ravenna sant’Esuperanzio, vescovo, che governò con prudenza questa
Chiesa, al tempo in cui il re Odoacre si impadronì dell’Italia e della città.
Tratto
da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/55070
Secondo il Catalogo Episcopale di
Ravenna trasmessoci da Agnello, Essuperanzio fu il diciannovesimo successore di
sant'Apollinare, ed il suo episcopato sta tra quello di Neone, a cui scrisse
san Leone Magno nel 458 e quello di Giovanni l’Angelopte, il quale, come si
ricava dall’iscrizione sepolcrale, ora nel Museo Arcivescovile, venne consacrato
nel 477. Tra questi due termini estremi fu Essuperanzio vescovo di Ravenna e
cioè nel tristissimo periodo della caduta dell'Impero d’Occidente e della
conquista di Ravenna da parte di Odoacre.
Veramente, gli antichi storici vennero a questo proposito fuorviati dalla confusione cronologica che regna nel Liber Póntificalis agnellino e da alcuni dati offerti dal Chronicon di Flavio Lucio Destro al quale, dopo l’edizione che ne fece il Bivar nel 1627, si diede credito in Spagna ed a Ravenna. Egli venne quindi identificato senz’altro con l’Essuperanzio destinatario dell'Epistola 146 di san Girolamo, con l’Essuperanzio di Galizia presente al concilio Toletano del 400 ed anche con altri personaggi omonimi testimoniati per le più svariate ragioni. Fu così ritenuto un soldato iberico datosi alla vita di perfezione dietro suggerimento di san Girolamo, divenuto poi vescovo di Osma in Spagna e di lì traslato a Ravenna nel 385. In realtà, questo tentativo di anticipare di oltre settant’anni l’episcopato di Essuperanzio è assolutamente infondato e per di più contrasta con l’autorevolissima lista episcopale agnelliana la quale, provenendo da fonte liturgica, costituisce la più antica e solida base per ogni ricerca sui vescovi di Ravenna. Ad ogni modo, di Essuperanzio Agnello sa dirci ben poco e, conscio egli stesso dell’esiguità del suo racconto, si scusa affermando che preferisce tacere piuttosto che inventare.
La memoria di Essuperanzio rimase, comunque, legata alla basilica di Sant'Agnese Maggiore, costruita durante il suo pontificato e da lui dotata di magnifici doni: in essa Essuperanzio venne tumulato il 30 maggio del 477 (o dell’anno prima). Le sue reliquie vennero poi trasferite in cattedrale nel 1809. Da un’iscrizione sepolcrale del IX secolo, ora nel Museo Arcivescovile, Essuperanzio appare già venerato come santo e confessore: «Hic requiescit in pace corpus sci Exuperantii pontificis et confessoris atque archiepiscopi sce Ravennatis Aecclesiae». Anche la data della morte conservataci da Agnello, provenendo verosimilmente da fonte liturgica (il fatto che non sia indicato l’anno sembra escludere una derivazione epigrafica), ci prova che nel secolo IX esisteva già in Ravenna una celebrazione a lui dedicata: che, poi, il Liber Pontificatis porti «IIII Kl. iun.» invece di «III Kl. iun.», come riportano invece i calendari ravennati posteriori, dipende evidentemente da errore di copista. Anche il Martirologio Romano lo celebra in questa data, come pure il Martyrologium Hispanicum di Tamayo Salazar. Per quali concreti motivi, poi, sia stato venerato come santo il vescovo Essuperanzio, di cui, pochi anni dopo la sua morte, papa Simplicio scriveva che «deliquerat faciendo presbyterum invitum», non sappiamo dire.
Veramente, gli antichi storici vennero a questo proposito fuorviati dalla confusione cronologica che regna nel Liber Póntificalis agnellino e da alcuni dati offerti dal Chronicon di Flavio Lucio Destro al quale, dopo l’edizione che ne fece il Bivar nel 1627, si diede credito in Spagna ed a Ravenna. Egli venne quindi identificato senz’altro con l’Essuperanzio destinatario dell'Epistola 146 di san Girolamo, con l’Essuperanzio di Galizia presente al concilio Toletano del 400 ed anche con altri personaggi omonimi testimoniati per le più svariate ragioni. Fu così ritenuto un soldato iberico datosi alla vita di perfezione dietro suggerimento di san Girolamo, divenuto poi vescovo di Osma in Spagna e di lì traslato a Ravenna nel 385. In realtà, questo tentativo di anticipare di oltre settant’anni l’episcopato di Essuperanzio è assolutamente infondato e per di più contrasta con l’autorevolissima lista episcopale agnelliana la quale, provenendo da fonte liturgica, costituisce la più antica e solida base per ogni ricerca sui vescovi di Ravenna. Ad ogni modo, di Essuperanzio Agnello sa dirci ben poco e, conscio egli stesso dell’esiguità del suo racconto, si scusa affermando che preferisce tacere piuttosto che inventare.
La memoria di Essuperanzio rimase, comunque, legata alla basilica di Sant'Agnese Maggiore, costruita durante il suo pontificato e da lui dotata di magnifici doni: in essa Essuperanzio venne tumulato il 30 maggio del 477 (o dell’anno prima). Le sue reliquie vennero poi trasferite in cattedrale nel 1809. Da un’iscrizione sepolcrale del IX secolo, ora nel Museo Arcivescovile, Essuperanzio appare già venerato come santo e confessore: «Hic requiescit in pace corpus sci Exuperantii pontificis et confessoris atque archiepiscopi sce Ravennatis Aecclesiae». Anche la data della morte conservataci da Agnello, provenendo verosimilmente da fonte liturgica (il fatto che non sia indicato l’anno sembra escludere una derivazione epigrafica), ci prova che nel secolo IX esisteva già in Ravenna una celebrazione a lui dedicata: che, poi, il Liber Pontificatis porti «IIII Kl. iun.» invece di «III Kl. iun.», come riportano invece i calendari ravennati posteriori, dipende evidentemente da errore di copista. Anche il Martirologio Romano lo celebra in questa data, come pure il Martyrologium Hispanicum di Tamayo Salazar. Per quali concreti motivi, poi, sia stato venerato come santo il vescovo Essuperanzio, di cui, pochi anni dopo la sua morte, papa Simplicio scriveva che «deliquerat faciendo presbyterum invitum», non sappiamo dire.
https://giovannigardini.com/2017/03/06/il-sarcofago-dei-santi-vescovi-esuperanzio-e-massimiano-nel-duomo-di-ravenna-reliquie-e-reliquiari/
All’interno della Cattedrale di Ravenna sono custoditi tre splendidi sarcofagi bizantini, quelli maggiormente noti dei Santi Rinaldo da Concorezzo e Barbaziano posti all’interno della Cappella della Madonna del Sudore, e quello meno conosciuto dei Santi Esuperanzio e Massimiano reimpiegato come altare nella seconda cappella della navata sinistra.[1]
Quest’ultimo, datato alla prima metà del V secolo, proviene dalla scomparsa chiesa di Sant’Agnese, luogo nel quale era attestata, sin dall’epoca antica, la sepoltura del vescovo Esuperanzio (468c.-477), tradizione riportata anche dal Liber Pontificalis della chiesa ravennate dove al proposito si legge: «Per volere divino questi concluse episcopato e vita il 29 maggio e fu sepolto nella suddetta basilica di S. Agnese martire, davanti all’altare sotto una lapide di porfido; altri dicono sotto il porfido dietro all’altare»[2]. Dalla chiesa di Sant’Agnese proviene anche l’iscrizione funeraria di Sant’Esuperanzio, lapide presente all’interno delle collezioni del Museo Arcivescovile sin dall’epoca della sua fondazione: Hic requiescit in pace corpus sancti Exuperantii pontificis et confessoris atque archiepiscopi sancte ravennatis aecclesiae (Qui riposa il corpo di Sant’Esuperanzio pontefice e confessore e arcivescovo della santa chiesa ravennate).[3]
Nel 1808, al momento della chiusura della chiesa, il sarcofago fu portato nella Cattedrale di Ravenna e al suo interno, l’anno successivo, vi furono collocate, oltre alle reliquie di Sant’Esuperanzio, anche le reliquie di San Massimiano (546-556), trasferite dalla soppressa chiesa di Sant’Andrea Maggiore, edificio di cui allo stato odierno restano alcune tracce in via Ercolana.[4]
Un’iscrizione posta alla base dell’urna ricorda la consacrazione dell’altare del Santissimo Crocefisso, costituito dal sarcofago reimpiegato, e la reposizione delle reliquie dei due santi vescovi al suo interno ad opera dell’arcivescovo Antonio Codronchi (1785-1826):
corp. ss. rav. archiep. exuperantii. ab .eccl. s. agnet. et maximiani . ab. eccl. s. andreae. transl. ant. codronchi. archiep. in. hac. quam. consecr. ara. recond. viii. kal. aug. mdcccix
Il Diario delle funzioni Sacre e Profane dall’Anno 1801 fino all’Anno 1874 fornisce un dettagliato resoconto riguardante la liturgia di consacrazione dell’altare avvenuta il 25 luglio 1809[5]. L’urna marmorea, adattata ad altare, venne a sostituire una precedente mensa di legno dipinto; al suo interno, oltre alle reliquie dei Santi Esuperanzio e Massimiano, i cui reliquiari furono rispettivamente posti a cornu evangeli e a cornu epistole, furono ricollocate – nella stessa cassa di Esuperanzio – le ossa di una persona «il cui nome s’ignora»[6]. Il testo manoscritto presente all’interno dell’Archivio Storico Diocesano di Ravenna ci informa inoltre che le reliquie di Massimiano, custodite nella chiesa Metropolitana sin dal 1801, furono sistemate in un’urna dotata di una chiave di ferro. Questo reliquiario va riconosciuto in quella capsa lignea «che l’arcivescovo Torriggiani fece eseguire per esporre (sec. XVII), nell’ora distrutta basilica di S. Andrea Maggiore, le ossa di Massimiano», quella stessa che fu riadoperata nel 1961 da Mons. Mario Mazzotti per custodire – all’interno dell’altare maggiore del Duomo – l’urna plumbea con le reliquie di Sant’Ursicino e di alcuni santi vescovi colombini[7]. La piccola cassa lignea presenta l’effige dell’arcivescovo Massimiano incorniciata da una preziosa ghirlanda dorata; egli è raffigurato con le insegne episcopali di mitria e pastorale, e indossa un camice bianco ed un piviale purpureo; con la mano sinistra regge un codice. Esternamente è ben riconoscibile, impresso nella ceralacca, lo stemma dell’arcivescovo Codronchi, sigillo posto in occasione della reposizione delle reliquie di Massimiano entro l’altare del Santissimo Crocefisso. Questo reliquiario rimase all’interno dell’urna marmorea fino al 1950, anno in cui essa fu rimossa per poterne studiare la parte postica. E’ Mazzotti stesso a fornirci questa notizia, ricordando come avvenne l’apertura del sarcofago: «Quando pochi mesi fa anche noi, riaperta la tomba [il sarcofago] per necessità di lavori, colle nostre mani estraemmo la secentesca cassetta lignea, scolpita e dorata, contenente i resti di Colui [Massimiano] che è ancora così vivo e presente nella storia di casa nostra, ripensammo alla scena tramandataci dall’Agnello…»[8].
Il sarcofago in oggetto era noto agli studiosi e apprezzato per la particolare iconografia della parte anteriore dove, disposti frontalmente tra due palme dattilifere che incorniciano la scena, sono il Cristo benedicente con il rotolo chiuso nella mano sinistra e due apostoli acclamanti, identificati in Pietro, alla sinistra del Signore, recante la croce e Paolo, alla sua destra, con il libro aperto. Se l’iconografia dell’apostolo delle genti è in linea con le caratterizzazioni proprie della sua figura, il volto dell’altro discepolo, giovane e imberbe, lascia perplessi circa la sua identificazione con Pietro. Senza entrare nel merito di questioni propriamente iconografiche che esulano dall’oggetto di questo breve testo, si può citare al proposito la Descrizione della basilica costantinopolitana di Santa Sofia composta da Paolo Silenziario, raffinato poeta del VI secolo alla corte dell’imperatore Giustiniano. I versi che l’autore dedica alla preziosa tovaglia dell’altare di Santa Sofia testimoniano uno schema iconografico consolidato, quello stesso che, pur con alcune varianti, si ammira nella fronte del nostro sarcofago: «Un aureo fulgore scintilla sotto i raggi dell’aurora dalle rosee braccia sulle membra divine e, grazie alla conchiglia tiria che fiorisce nel mare, si tinge di porpora la tunica, coprendo la spalla destra con i fili operati. Là infatti la veste è scivolata giù, mentre, risalendo con grazia sul fianco, si spande, sulla spalla sinistra: così, all’estremità, l’avambraccio e la mano restano nudi. Sembra che Cristo tenda le dita della mano destra, come se annunciasse la parola eterna, mentre nella sinistra ha il Libro che insegna la parola divina, Libro che annunzia tutto quello che, nella sua volontà soccorrevole, il Signore compì quando posò sulla terra il suo piede (…). Ai lati stanno in piedi i due araldi di Dio, Paolo, uomo pieno di tutta la sapienza divina, e il robusto custode delle porte del cielo, che lega e scioglie i vincoli celesti terreni: uno ha il Libro che contiene la pura alleanza, l’altro l’immagine della croce su una verga d’oro»[9].
Raffaele Garrucci nella sua monumentale opera sulla Storia dell’arte cristiana riporta il disegno della fronte e dei lati corti, ad eccezione della parte postica, l’unica sconosciuta, dato l’utilizzo dell’arca come altare a muro.[10] Solo nel 1950, quando esso fu scostato dalla parete, si scoprì che anche il quarto lato era scolpito, cosa ignorata fino a quel momento[11]. La composizione, realizzata con una minore accuratezza esecutiva rispetto agli altri lati, presenta al centro, all’interno di un clipeo, il monogramma costantiniano, al quale sono affiancati una coppia di pavoni e di cipressi.
Un breve ma interessante carteggio tra il Soprintendente di allora, Corrado Capezzuoli, ed il vicario generale, Mons. Marcello Morgante, mostra come alto fosse l’interesse verso questo sarcofago; i documenti accennano anche ad un suo possibile spostamento sempre all’interno del Duomo – non più addossato alla parete della navata laterale, in modo che tutti i lati potessero essere visibili – oppure ad una sua collocazione presso il Museo Arcivescovile[12]. In una lettera del 23 dicembre 1949 Capezzuoli, rivolgendosi alla Curia Arcivescovile, comunicava quanto la Commissione Ministeriale aveva suggerito alla stessa Soprintendenza circa la sistemazione del sarcofago dei Santi Esuperanzio e Massimiano: «Raccomanda inoltre alla Soprintendenza la sistemazione del Sarcofago, ora nella navata di destra, in modo adeguato all’importanza dell’eccezionale pezzo scultoreo, studiando anche la possibilità, qualora non potesse essere collocato nel Tempio, di metterlo in una sala del Museo Arcivescovile».
Una volta scostato dalla parete, il sarcofago fu fotografato in tutti e quatto i lati, anche quelli corti che, sino a quel momento, non erano stati fotografati a motivo della loro particolare collocazione, cioè all’interno dei basamenti delle colonne che incorniciavano l’altare e che ne coprivano parzialmente una parte[13].
Una lettera di Capezzuoli, datata a 17 marzo 1950, lamentava tuttavia di come esso fosse stato ricollocato come altare a muro senza esserne stato avvisato e senza prendere in considerazione la proposta di riallestimento: «A tal fine questa Soprintendenza aveva anzi avanzato la proposta – tramite il Canonico don Mario Mazzotti – di cedere al Duomo la cassa di uno dei suoi sarcofagi che, opportunamente restaurato, avrebbe potuto con decoro del Tempio prendere il posto dell’altro. Anche la commissione Ministeriale per i monumenti di Ravenna, presieduta dal Prof. Mario Salmi e qui giunta il giorno 14 scorso e ripartita in serata ha richiamato l’attenzione sull’importanza di questa nuova acquisizione per il campo degli studi e pertanto ha proposto di eseguire un calco del lato lungo addossato al muro: una sua fotografia infatti non presenta i necessari requisiti per lo studio di questo pezzo scultoreo di primordine. Sono veramente dispiacente di non essere ritornato in tempo da Ferrara, dove ho accompagnato la Commissione, per poter riferire la suddetta disposizione. Pertanto di fronte al fatto compiuto della ricollocazione del sarcofago nel suo luogo primitivo la Soprintendenza si incaricherà di farlo spostare di nuovo a sue spese e di farne eseguire il calco desiderato».
A questa missiva fece seguito un’ulteriore, quanto veloce, scambio di lettere tra Curia e Soprintendenza che non portò a nulla di concreto riguardo alla valorizzazione del sarcofago. Morgante, in una lettera del 23 marzo 1950, riferiva che l’Arcivescovo – che al tempo era Mons. Giacomo Lercaro (1947-1952) – «si dichiara disposto a prendere in benevola considerazione un progetto di nuova sistemazione del sarcofago che funge da altare nella Metropolitana (…), invita tuttavia la Soprintendenza a presentare un progetto ben definito non soltanto dal punto di vista artistico, ma anche liturgico; ed inoltre concreto per quanto riguarda il finanziamento cui la Metropolitana e la Curia non potrà in alcun modo contribuire». A questa Capezzuoli rispose il giorno seguente, dichiarando che la «Soprintendenza non dovrà studiare un nuovo altare, ma, se il Ministero non disporrà diversamente, essa di limiterà ad eseguire le operazioni strettamente indispensabili per fare il calco in gesso del sarcofago e ricollocare questo al suo posto in funzione di altare come attualmente». Allo stato attuale delle ricerche non è possibile stabilire se il calco fu eseguito o meno; certo è che la parte postica, portata alla luce nel 1950, fu visibile per poco tempo e di essa, al momento, non ci rimangono che alcune fotografie, scattate all’occasione. I restanti lati sono invece visibili e attendono visitatori attenti e cultori di antichità. Anche il Crocefisso, posto sull’altare, merita uno sguardo ammirato, oltre a studi più approfonditi.
Giovanni
Gardini
NOTE
[1] Per i sarcofagi dei Santi Rinaldo e Barbaziano si veda G. Gardini, Le sepolture di Rinaldo, Barbaziano e Pietro Peccatore a Ravenna. Il culto e gli arredi funerari alla luce delle ricognizioni e dei documenti d’archivio in Studi Romagnoli LXII (2012), Stilgraf, Cesena 2013, pp. 781-804.
Si ringrazia l’Opera di Religione della Diocesi di Ravenna nella persona del suo Direttore, Mons. Guido Marchetti, per aver concesso la pubblicazione delle immagini.
Fino al 1961 era presente in cattedrale un quarto sarcofago, all’interno dell’altare maggiore del Duomo, poi trasferito, per volontà di Mons. Mario Mazzotti, all’interno delle collezioni del Museo Arcivescovile; M. Mazzotti, Un sarcofago inedito nella cattedrale di Ravenna, in Bollettino economico della Camera di commercio di Ravenna, 16 (1961) 10, pp. 370-372; G. Gardini – P. Novara, Le collezioni del Museo Arcivescovile di Ravenna, Opera di Religione della Diocesi di Ravenna, Ravenna 2011, pp. 25-30; G. Gardini, L’altare maggiore del Duomo di Ravenna: reliquie e reliquiari, in La bellezza della fede. I Quaderni dell’Istituto Superiore di Scienze religiose Sant’Apollinare di Forlì, II, Pazzini, Villa Verucchio (Rn) 2012, pp. 121-145.
Per il sarcofago dei Santi Esuperanzio e Massimiano si veda G. Valenti Zucchini, Sarcofago di Esuperanzio e Massimiano in “Corpus” della scultura paleocristiana bizantina ed altomedievale di Ravenna, 2 (1968), 14, pp. 33-34, Tavv. 14, a, b, c, d e bibliografia ivi indicata.
[2] M. Pierpaoli (traduzione e cura di), Il libro di Agnello istorico. Le vicende di Ravenna antica fra storia e realtà, Diamond Byte, Ravenna 1988, p. 57; «Qui iussu diuino pontificatum finiuit et uitam .iiii. Kal. Iunii sepultusque est in iam dicta basilica sanctae Agnetis martiris ante altare sun porfiretico lapide; alii aiunt, post altare subtus porfiretico lapide», D. Mauskopf Deliyannis (a cura di), Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis in Corpus Christianorum. Continuatio Mediaevalis 199, Brepols, Turnhout 2006, p. 186.
[3] CIL XI, 303; Gardini-Novara 2011, p. 37. L’iscrizione, successiva alla morte del vescovo Esuperanzio, è databile tra l’VIII ed il IX secolo. Il Tarlazzi ricorda una seconda iscrizione marmorea, copia di quella antica, presente nella basilica di Sant’Agnese, della quale tuttavia non si hanno più notizie; cf. A. Tarlazzi, Memorie sacre di Ravenna, Ravenna, nella Tip. del Ven. Seminario Arciv. 1852, p. 95.
[4] La chiesa di Sant’Agnese, già nel 1805, era stata annessa alla Parrocchia di San Giovanni in Fonte e, a nostro avviso, è questa una delle ragioni per cui il sarcofago fu portato nella Metropolitana; cf. Tarlazzi 1852, p. 97. Per le chiese scomparse di Sant’Agnese e di Sant’Andrea Maggiore si veda: M. Mazzotti, Itinerari della Sacra Visita, Chiese di Ravenna scomparse, a cura di G. Rabotti, Libreria Antiquaria Tonini, Ravenna 2003, pp. 221-224. La sepoltura dell’arcivescovo Massimiano all’interno della chiesa di Sant’Andrea Maggiore è documentata con particolare attenzione dal Liber Pontificalis, nella Vita dedicata all’arcivescovo; di questa sepoltura Andrea Agnello è testimone oculare per quanto riguarda la ricognizione del sepolcro fatta, stando allo storico, sotto l’episcopato dell’arcivescovo Petronace; cf. Mauskopf Deliyannis, pp. 250-251.
[5] Archivio Storico Diocesano di Ravenna, Diario delle funzioni Sacre e Profane dall’Anno 1801 fino all’Anno 1874, «Consacrazione dell’Altare del SS. Crocifisso nella Chiesa Metropolitana», cc. 63-64.
[6] ASDRa, Diario delle funzioni Sacre e Profane, c. 63. Al proposito si veda inoltre Tarlazzi 1852, p. 95 che parla di «santo anonimo» e P. Uccellini, Dizionario storico di Ravenna e di altri luoghi di Romagna, Ravenna nella tipografia del ven. Seminario Arciv. 1855, p. 149. La situazione non dovrebbe essere mutata e tutto lascia supporre che all’interno del reliquiario vi siano ancora custoditi i due corpi: solo un’eventuale ricognizione potrà chiarire la questione.
[7] Mazzotti 1961, p. 371; Gardini 2012, pp. 135-138.
[8] M. Mazzotti, Massimiano di Pola, in Pagine Istriane, A. 1, n. 4 (nov. 1950), Editoriale libraria, Trieste 1950, pp. 21.
[9] M. L. Fobelli, Un tempio per Giustiniano. Santa Sofia di Costantinopoli e la Descrizione di Paolo Silenziario, Viella, Roma 2005, pp. 80-83.
[10] R. Garrucci, Storia dell’arte cristiana, vol. V, p. 62, tav. 336, figg. 1-3.
[11] G. Bovini, Nuova figurazione di un sarcofago ravennate, in Felix Ravenna, s. III, dicembre 1950, fasc. 3 (liv), pp. 31-37.
[12] Il carteggio consta di quattro lettere conservate presso l’Archivio storico della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Ravenna.
[13] Il sarcofago è stato ricollocato lievemente scostato dalla parete di fondo; ancor oggi non è possibile ammirare i fianchi in tutta la loro ampiezza.
Santo Anastasio II che ripudiata l’eresia ariana fu Vescovo di Retta Fede a Pavia (verso il 680)
Tratto da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/91283
Di famiglia lombarda, nobile, fu il vescovo ariano di Pavia al tempo di re Rotari (metà del VII secolo). Nel 668 ripudiò l’eresia, si convertì e fu eletto vescovo cattolico di Pavia. Partecipò al sinodo milanese contro l’eresia monotelita e partecipò al Concilio di Roma del 679.
Morì a Pavia il 30 maggio 680.
Tratto da
http://www.treccani.it/enciclopedia/santo-anastasio_res-4c6de33f-87e6-11dc-8e9d-0016357eee51_(Dizionario-Biografico)/
ANASTASIO,
santo. - Nato nella religione cattolica, divenne poi ariano: al tempo di
Rotari, re dei Longobardi, era vescovo ariano di Pavia e in tale qualità
risiedeva presso la basilica di S. Eusebio. Più tardi, probabilmente dopo la
morte di Rotari (652), abbandonò l'arianesimo e divenne vescovo cattolico della
stessa città. Queste notizie ci son date da Paolo Diacono (Historia
Langobardorum, a cura di G. Waitz e L. Bethmann, in Monumenta Germ.
Hist., Hannoverae 1878, p. 134). Nel 679 A. sottoscrisse al concilio
milanese tenuto dall'arcivescovo Mansueto; nel 680 prese parte al concilio
romano, in preparazione al sesto concilio ecumenico (terzo costantinopolitano,
680-681) e firmò la lettera dei papa Agatone e dei 125 vescovi, inserita negli
atti di quel concilio. Morì durante lo svolgimento di esso, nel 680 o nel 681,
probabilmente il 28 maggio, che è la data in cui si celebra la sua festa:
tuttavia il suo culto è posteriore all'Anonimo Ticinese (1329), poi
identificato con Opicino Canestri (de Canistris), il quale non lo mette
tra i santi canonizzati (Liber de laudibus civitatis Ticinensis, in Rer.
Ital. Script., XI,1, a cura di R. Maiocchi e F. Quintavalle, p. 3).
Nello stesso anno della morte di A. e durante l'episcopato del suo successore,
s. Damiano, infierì in Pavia e nel contado una gravissima pestilenza.
Secondo
il catalogo Berretta degli antichi vescovi di Pavia (notizie sul catalogo in:
Savio, Gli antichi vescovi, pp. 317-340), gli anni del suo
episcopato furono ventitré: perciò E. Hoff, che indica come data di morte il 28
maggio 681, afferma che A. fu vescovo cattolico di Pavia dal 658 al 681. La
tesi del Savio , che ritarda di qualche anno l'episcopato di A., facendolo
cominciare nel 662 e finire nel 685, non ha un fondamento sicuro.
A. fu
sepolto nella vecchia cattedrale, sulle cui rovine sorse poi, nel sec. XII, la
più grande basilica di S. Stefano; quando questa chiesa venne demolita, i resti
del santo furono trasportati e collocati nel nuovo duomo.
Bibl.:
Acta Sanctorum Maii, VII, Antverpiae 1688 , p. 270; F. Savio, Gli
antichi vescovi d'Italia dalle origini al 1300, La Lombardia, II, 2,
Bergamo 1932, pp. 364-366; E. Hoff, Pavia und seine Bischöfe im Mittelalter,
I, Pavia 1943, pp. 3, 10, 59 s., 65 s.. 142., 325; F. A. Tasca, Personaggi
noti ed ignoti nella storia e nella cronaca di Pavia, Pavia 1951, p. 7; G.
P. Bognetti, Milano Longobarda, in Storia di Milano, II, Milano
1954, pp. 191 s.; Dictionnaire d'Hist. et de Géogr. Ecclés.,
II, col.1463.
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